Polietilene
Quando tornò a casa da lavoro, Umberto trovò ad aspettarlo una donna gonfiabile. Era diversa da quegli ominidi snodati di policaprolattame che si vedono alle fiere, quelle slanciate figure dai colori accesi che si sbracciano tutto il giorno senza stancarsi. Ed era diversa anche dalle bambole gonfiabili di plastica dura, che puzzano di petrolio e sperma rancido come pesce andato a male. No, lei era diversa. La sua pelle era piacevolmente lucida alla luce giallastra del soggiorno, non troppo opaca né eccessivamente traslucida. Si poteva vedere una finissima patina di umidità, probabilmente condensatasi sulla sua pelle per via dell'elettricità statica, che la rendeva più organica, quasi fosse una secrezione dei suoi umori. Umberto le squadrò in viso, impietrito sulla porta d'ingresso mentre fuori il sole tramontava all'orizzonte, e aggrottò le sopracciglia. Il suo viso era umano e delicato, non c'era alcun dubbio. Le sue labbra erano sottili e increspate, completamente l'opposto della bocca da acquasantiera delle bambole da sesso. Gli occhi parevano quasi umani. Non aveva i capelli, certo, ma c'era da aspettarselo. I follicoli non avrebbero potuto mettere radice in una pelle così sottile, era logico. Era già ammirabile come la pressione dell'aria all'interno del manto di plastica riuscisse a evidenziare tutte le sue forme femminili dandole un aspetto umano, quasi sensuale nelle sue curve perfettamente lisce.
Non appena vide l'uomo entrare nella stanza, la donna assunse un'espressione preoccupata. Le sue sopracciglia s'inarcarono con un sottile stridio plastico e la sua bocca si aprì per parlare.
«Chiedo scusa. Mi sono persa» disse. La sua voce suonava perfettamente umana, nonostante l'assenza delle calde risonanze della cassa toracica.
«Spero di non disturbare»
«Certo che no» rispose Umberto, pulendosi le scarpe sullo zerbino prima di entrare in casa. Appese il cappello e la giacca sull'attaccapanni e tirò un lungo sospiro mentre si dirigeva verso la cucina.
«Ho chiamato un taxi pochi minuti fa. Posso restare qui mentre aspetto?» la donna sfoggiò un sorriso preoccupato «Fuori si gela, sa. Non vorrei prendermi un raffreddore»
«Naturalmente» rispose Umberto. Ripose la sua valigetta sopra il tavolo e aprì la credenza per agguantare la pentola a pressione. Quella sera aveva voglia di una zuppa calda. La donna aveva effettivamente ragione: quell'inverno si stava dimostrando più rigido del solito. Le estati erano sempre più calde e gli inverni sempre più freddi, ed era tutta colpa dell'infinita avidità dell'uomo. Nonostante gli effetti del riscaldamento globale, le fabbriche continuavano a rigurgitare i loro scarti velenosi in mare e i grossi veicoli industriali continuavano a radere al suolo la foresta Amazzonica senza la minima tregua. Era un inferno. Anche i suoi colleghi di lavoro, nel loro piccolo, non facevano altro che soffocare la natura sotto un cumulo di piccoli gesti apparentemente insignificanti che tuttavia cresceva e cresceva. E senza sosta contribuivano a collezionare vittorie in attesa del completo trionfo dell'artificiale, dell'annientamento del selvatico di fronte alla perfezione cromatica dei polimeri. Era la nuova epica, la nuova guerra planetaria invisibile agli occhi di quegli idioti dei politici. Umberto si sentì male a pensare a quelle cose di fronte a una donna di plastica, però. Così cercò di sgombrare la mente e aprì il rubinetto per riempire d'acqua la pentola a pressione. Con un panno grigio pulì le gocce che erano finite sui bordi metallici all'interno, com'era sua consuetudine fare, dopodiché accese il fornello. La donna di plastica sussultò.
«Vi prego, non utilizzate il fornello a gas» disse, portandosi le mani al viso.
Umberto chiuse il gas e si voltò verso di lei.
«Perché?» chiese.
«Perché scaldare le molecole d'aria vicino a me potrebbe farmi scoppiare» la donna fece qualche passo indietro e contrasse le braccia per assumere una posa vulnerabile ma sensuale.
«Scoppiare?»
«Per la differenza di pressione nell'aria. Non bolliresti dell'acqua dentro l'acquario di un pesce. Lo faresti?»
«No. Certo che no» rispose Umberto, comprensivo della leggera apprensione della donna «però vorrei mangiare della zuppa stasera. Della zuppa calda per riscaldarmi lo stomaco»
«Lo stomaco, eh?» la donna sembrò leggermente indispettita, anche se giocosamente «Non potete usare il microonde? Se non vi dispiace»
«Naturalmente» rispose Umberto. Aprì la busta contenente il minestrone surgelato e lo versò in una ciotola d'acqua. Poi aggiunse mezzo dado da brodo, che era fin troppo per una porzione da una sola persona, ma a lui il minestrone piaceva gustoso. Mentre il microonde scaldava la poltiglia sul piatto, Umberto si accorse che la donna stava cercando di nascondere un sorriso beffardo. Era il tipico sorrisetto da seduttrice, anche se era difficile da notare su quelle labbra di plastica tesa. Mentre il sole scompariva definitivamente, inghiottito dai profili montuosi delle terre occidentali, la luce artificiale della cucina sembrò farsi più rossastra sotto i riflessi che la pelle della donna proiettava sulle pareti scrostate. Umberto la osservò senza dire niente per un po' di tempo. Dopodiché, per evitare un eccessivo imbarazzo, tornò a fissare il piatto che roteava monotono nel microonde.
«Posso restare a cena?» domandò quindi la donna, poggiandosi allo stipite della porta.
«Naturalmente» rispose Umberto.
«Puoi anche evitare di usare quella parola?» questa volta la domanda fu scherzosa, e gli occhi della donna scintillarono di simpatia.
«Quale parola?»
«Naturalmente»
«Natur... oh, ma certo» Umberto sorrise di fronte alla sua ingenuità e la donna scoppiò in un risolino spontaneo. Si diresse verso il tavolino che si trovava vicino al frigorifero e si sedette delicatamente sulla sedia. Le sue giunture stridettero e scricchiolarono, emettendo lo stesso suono che si produce sfregando un palloncino, e Umberto sospirò a fondo. Per qualche ragione, quel suono era davvero piacevole alle sue orecchie. Era ruvido e scoppiettante, eppure incredibilmente liscio, e gli solleticava qualche punto nervoso nel cervello scaturendo un'inspiegabile ondata di endorfine. Probabilmente l'effetto collaterale di qualche terminazione rettiliana, antica come l'uomo stesso, che rispondeva in modo selvaggio e istintivo a quel suono frammentato; il piacere dello sfregamento. Lo squittio elettronico del microonde lo riscosse bruscamente dai suoi pensieri.
«Vuole una porzione di zuppa anche lei?» domandò Umberto, prendendo il suo piatto fumante.
«Oh, no grazie» rispose lei. Stava giocherellando sensualmente con il bordo della tovaglia e fissò il suo anfitrione con occhi smaliziati «Non ho bisogno di cibo. Prendo il mio nutrimento direttamente dall'aria»
«Questo è davvero notevole» Umberto si sedette a tavola e cominciò a mangiare lentamente, soffiando sulla zuppa per raffreddarla. La donna accavallò le gambe, producendo di nuovo quel medesimo stridio, e Umberto inspirò profondamente. A quanto pare lei aveva capito quanto quel rumore fosse capace di stuzzicarlo. Il suo sorriso si distese ancora di più, irresistibile su quella pelle perfettamente liscia e dal colore purpureo. Umberto sentì che la zuppa non lo stava poi scaldando granché, in quanto le smancerie della donna, per qualche ignota ragione, erano una fonte di calore ben più intensa.
«Ti ringrazio di aver scelto una zuppa come cena» disse lei, senza dissolvere il proprio sorriso «perché si mangia con un cucchiaio, e non con una forchetta. E io detesto le forchette. E anche i coltelli»
«Oh, beh, non ci avevo pensato» rispose Umberto. I suoi gesti si stavano facendo più rigidi e le sue espressioni lasciavano trasparire più eccitazione. I suoi occhi, normalmente ingrigiti dallo smog della metropoli, si erano improvvisamente accesi di un bagliore di luce carnale.
«Vorrei che abolissero una volta per tutti quegli strumenti. Sai, si può anche mangiare con le...» la donna prese delicatamente un cavoletto di bruxelles che galleggiava nel brodo «mani...»
L'uomo si fece imboccare dalla sconosciuta e le sue labbra fremettero quando vennero in contatto con la plastica tesa che componeva le sue dita prive di unghie. Le labbra erano il punto più sensibile del corpo, se lo ricordava da quell'illustrazione dell'Homunculus. E si accesero con lo stesso fervore anche le altre zone erogene del corpo, stuzzicate dalla fredda tessitura artificiale senza pori. Umberto si leccò le labbra, imprimendo sulla lingua il gusto pungente ma sottile degl'idrocarburi compressi in polimeri snodati e osservò il sorriso accattivante della donna a pochi centimetri dal suo viso. Lei piegò la testa di lato e ricambiò lo sguardo, sbattendo più volte le palpebre di plastica sopra gli occhi lucenti.
«Se vuoi puoi toccare» mormorò, sfiorandogli il braccio.
Ammaliato, Umberto allungò la mano per carezzare quelle guance opalescenti dietro le quali si poteva scorgere l'alone di luce della lampada a gas. Un'estasi mai provata prima lo colse quando i suoi polpastrelli stridettero contro la pelle elastica, sollevando scintille di elettricità statica. Quel rumore risuonava dentro di lui come il dolcissimo frinire di un insetto sintetico, il battito d'ali neurale di un lepidottero chimico. Umberto strofinò le dita contro il materiale sussultando a ogni grinza che incontrava nell'artificiale morbidezza di quella pelle impossibilmente liscia. Poteva modellare l'aria sotto il derma, esercitare pressione con le mani e recepire col tatto l'orgasmica sensazione delle sue forme che si adattavano alla sua volontà materiale. Non avrebbe mai immaginato che era possibile provare un piacere così intenso. Ogni erezione forzata di fronte alla sua ex moglie anni orsono non poteva fare altro che risultare estremamente patetica. Strofinare la sua carne contro la plastica pulsante di vita lo riempiva di una passione incontrollabile, che toglieva il fiato e annebbiava la mente. Dovette ricorrere a tutte le sue energie per trattenere gli impulsi selvaggi che quel godimento tattile aveva scaturito in tutti i muscoli del suo corpo.
«Ti piace?» domandò la donna, sempre con quel sorrisino pieno di falsa innocenza.
«Sì» Umberto si schiarì la gola nel tentativo di sembrare contenuto. Le sue gambe, però, stavano tremando. Tutto il suo corpo fremeva di eccitazione.
«Per caso è polietilene tereftalato?» domandò, indicando il braccio della donna. Lei scoppiò per la seconda volta in un finto risolino imbarazzato.
«Poli cosa?» rispose «Non ne ho idea se devo essere del tutto sincera. Come fai a sapere questi paroloni?»
Umberto scrollò le spalle mentre ingoiava un'altra cucchiaiata di minestrone. Improvvisamente la sua fame era svanita, sostituita da un altro tipo di brama corporale, ma non voleva che la zuppa si raffreddasse.
«Lavoro con le materie plastiche» rispose «le studio da vent'anni ormai. So tutto sui polimeri e sulle loro caratteristiche. Sono un uomo molto rispettato nel mio campo»
«Ma non mi dire!» lo stuzzicò lei con voce sorpresa «E cos'hai detto? Poli?»
«Polietilene tereftalato» ripeté lui, sorridendo «viene usata per alcuni palloncini, è simile al lattice»
«E per te io sono come un palloncino?» il sorriso svanì improvvisamente dalla faccia della donna. Lei si ritrasse indietro, le labbra contorte in un'espressione disgustata, e Umberto si rabbuiò in viso. Restò pietrificato col cucchiaio a mezz'aria, allarmato dall'improvvisa serietà della donna, e cercò di balbettare qualcosa con la faccia incredula.
«Io... Io no! Certo che no!» riuscì a farfugliare, fissando la donna con un'espressione da cane bastonato mentre aspettava la sua reazione. La donna sospirò, poi le sue guance si gonfiarono e gli occhi tornarono a sprizzare guazzi di divertimento.
«Stavo scherzando!» esclamò, iniziando a ridere di fronte alla faccia mortificata dell'uomo. Umberto divenne paonazzo in volto e rise insieme alla donna, imbarazzato dalla facilità con cui era caduto in quel tranello. Gliel'aveva proprio fatta. I due continuarono a ridere per qualche istante prima di tornare a scambiarsi degli sguardi pregni d'intimità.
«Non mi hai ancora detto il tuo nome» disse Umberto, il viso illuminato dalla passione.
«Beh, non ce l'ho un nome» la donna abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzata.
«Allora te lo darò io» Umberto affondò con decisione il cucchiaio nella zuppa mentre il suo sorriso si allargava «E d'ora in poi sarai Giulia. In onore di Giulio Natta»
Umberto imprecò mentre la striscia di nastro adesivo tra le sue dita emetteva un rumore orribile. Era il rumore della vernice che si scrostava dal bordo della credenza, rimasta inesorabilmente appiccicata alla colla industriale come un insetto sulla carta moschicida. Eppure aveva testato lui stesso quel nastro adesivo in fabbrica, curandosi che l'acrilico adesivo avesse la migliore adesione possibile su superfici polari senza scrostare i laminati verniciati. Evidentemente la vernice che era stata applicata al mobile era di scarsissima qualità, altrimenti in suo prodotto non si sarebbe comportato così. Da quando condivideva la camera da letto con Giulia non era mai stato così zelante nel compiere il suo lavoro. Studiava e progettava i composti di plastiche con gioia, ammirando i polimeri roventi che venivano versati negli stampi di metallo unto con gli occhi di un alchimista glorioso nella propria arte. Era uno spettacolo straordinario, assistere alle glasse chimiche come fluidi magmatici intenti a solidificarsi in una forma lucida e perfetta, irriproducibile con qualunque altro materiale. La plastica era sempre stata la sua vita, ma ora più che mai poteva sentire una vera connessione con le sue forme innaturalmente lisce e squisitamente levigate.
Mentre Umberto finiva di togliere il nastro adesivo, stavolta con più cautela, Giulia entrò nella stanza. Le sue membra emettevano un coro di piacevolissimi stridii quando camminava.
«Come procede?» domandò con espressione dolce.
«Oh, piuttosto bene» rispose Umberto, asciugandosi il sudore dalla fronte «anche se questa tinta di rosa non è proprio il mio tipo di colore»
Si alzò in piedi per esaminare i frutti del suo lavoro e ammirò i mobili della cucina che finora aveva riverniciato. Le tinte grigiastre e sbiadite del mobilio precedente erano state sepolte sotto una mano di pittura nuova di zecca. Umberto aveva adoperato una speciale vernice prodotta nella sua fabbrica, solitamente utilizzata per automobili, in modo che i colori risaltassero alla vista dell'occhio e riflettessero la luce come specchi. Tutto era color rosa acceso e lucido come una palla da biliardo adesso, e un'espressione di incredibile meraviglia si dipinse sul volto di Giulia.
«È... incredibile. Amore...» balbettò lei, incredula di fronte a quella vista. Ogni sintomo dell'inettitudine borghese dell'uomo era completamente scomparso di fronte a quell'esplosione di vita chimica color rosa accecante.
«Ti ringrazio. C'è ancora un bel po' di lavoro da fare, però» sbuffò Umberto, chinandosi per tornare al lavoro. La donna gli sfiorò le spalle con le mani e gli carezzò il collo con le labbra, trattenendolo affettuosamente, poi scoppiò in un risolino sensuale.
«Hai davvero scelto un colore perfetto. Starà benissimo con le protezioni in gommapiuma» disse.
«Protezioni in gommapiuma?» Umberto aggrottò le sopracciglia.
«Sì, protezioni in gommapiuma per gli spigoli» disse lei, giocherellando con i capelli che lui ogni mattina pettinava accuratamente per nascondere la pelata. Umberto annuì e mugolò per segnalare che aveva inteso. Le sue spalle erano più rigide e la sua fronte corrugata.
«Ti pare una richiesta troppo strana?» domandò lei con tono più serio.
«No, no. Niente affatto»
«Sai, gli spigoli sono pericolosi per me. Non si sa mai. E potrebbero esserlo anche per il piccolo»
Umberto drizzò la schiena. Aveva appena detto "piccolo"? Incredulo, si voltò verso Giulia e la fissò negli occhi con un'espressione confusa. La donna scoppiò in uno stridente risolino quando vide la faccia dell'uomo perplessa come quella di una caricatura.
«Anch'io ho una sorpresa per te, sai...» mormorò, carezzandosi il ventre «sono incinta»
Umberto boccheggiò di fronte a quelle parole. Il suo cervello sembrò incepparsi per un attimo, travolto da mille riflessioni al contempo passionali e titubanti, prima che Giulia lo riscuotesse dalla sua incredulità con un'altra risata amorevole.
«Non è meraviglioso?»
Un timido entusiasmo si dipinse sul volto di Umberto.
«Lo è! Lo è!» esclamò lui, raggiante. Prese la donna sotto le ascelle e la lanciò trionfalmente in aria, facendole sfuggire un gridolino emozionato prima di prenderla tra le braccia e baciarla. I due si abbracciarono e baciarono esultando, rapiti dal loro mondo di passione e polimeri. Con i mobili glassati di rosa dietro di loro, il loro abbraccio sembrava la scena di un film di Almodóvar. Umberto continuò a stringere la donna a sé, ascoltando il palpitare del proprio cuore risuonare dentro il vuoto involucro di plastica tesa e gustando l'odore pungente della vernice fresca che lo eccitava. Come diamine aveva fatto a rimanere incinta? Umberto credeva che non sarebbe stato possibile avere un bambino, vista l'immensa differenza di fisionomia tra i due. Che tipo di bambino sarebbe nato? Mentre queste domande facevano capolino nella mente di Umberto, il suo sorriso lentamente prese a spegnersi. Cosa poteva essere? Una specie di mostro ibrido composto di plastica gonfiata e carne umana? Un abominio della specie, frutto di un'unione tra natura e artificio chimico che non sarebbe mai dovuta esistere? Una leggera inquietudine iniziò a serpeggiare tra i suoi pensieri avvelenati dalla lussuria, facendogli corrugare la fronte e contrarre i muscoli delle mani. Per una frazione di secondo, il tocco della pelle di Giulia gli sembrò innaturalmente freddo, morto, ed egli fremette per la paura. Si ritrasse improvvisamente, la gola che ballonzolava in preda al nervosismo, e cercò di eliminare quei pensieri dalla mente. La donna sembrò notarlo perché si staccò dolcemente da lui e gli rivolse un sorriso preoccupato.
«Qualcosa non va?» chiese, sbattendo più volte gli occhi.
«No, no. Niente» rispose Umberto con un sorriso imbarazzato.
«Ne sei sicuro?»
«Sì. Non c'è nulla di cui preoccuparsi» continuò lui, alzandosi in piedi e stirando le braccia «Anzi, bisogna festeggiare!»
Il sorriso della donna si fece più accogliente. Umberto inspirò profondamente e ricambiò il sorriso con un'espressione di sbiadito entusiasmo.
«Diventerò padre!» esclamò, puntando le braccia verso il soffitto della stanza sotto gli occhi divertiti di Giulia. Tuttavia, si poteva intravedere un guizzo di titubanza nel suo sorriso spianato. Quell'esultanza sembrava quasi rigida, un po' forzata dall'affetto che egli senza dubbio provava per lei ma anche distorta da un impercettibile filo di timore. E una strana tensione andò a formarsi nella stanza, silenziosa tra gl'invisibili vapori della vernice che si asciugava.
«Come pensi di festeggiare?» la donna si poggiò allo stipite della porta, ammiccando con lo sguardo.
Umberto si voltò verso di lei e iniziò a riflettere «Già, bisogna festeggiare...» mormorarono le sue labbra «beh, devi decidere te come vuoi festeggiare. Cos'è che vuoi fare?»
«L'unica cosa che voglio è stare con te» Giulia tornò ad avvicinarsi verso di lui con passi sensuali. Umberto arrossì, imbambolato come un cervo ferito di fronte a un predatore. Le rivolse l'ennesimo sorriso, senza notare che era particolarmente smorto, e le venne incontro con passi vogliosi ma insicuri.
«Allora stasera festeggeremo a modo nostro» mormorò «e se vuoi tiro fuori il lattice»
«Ti prego, sì. Tira fuori il lattice» rispose Giulia, prima di avventarsi su di lui. Egli la lasciò fare, un po' incupito dai pensieri del bambino ma ancora troppo stregato per resistere alle sue dimostrazioni di passione. Nelle settimane passate, lei si era diventata una macchina di seduzione senza precedenti, costantemente pronta a soddisfare gli appetiti di Umberto quando egli ne aveva bisogno, e lui non poteva resistere. Ovviamente un tale appagamento aveva un prezzo, ed era per questo che Umberto aveva dovuto gettare nella spazzatura tutti gli oggetti lievemente appuntiti della casa. Attaccapanni, forchette, matite... la casa ne era stata completamente ripulita. Solo il frullatore era rimasto in cucina, cosicché lui potesse prepararsi dei frullati senza bisogno di tagliare il cibo con coltelli e altri attrezzi a punta. Giulia aveva anche insistito per levare i quadri dalle pareti, dato che solo la vista dei chiodi che li reggevano le dava la nausea. Ma ne valeva la pena, pensò Umberto. Non poteva fare altrimenti.
«Coraggio, va' a comprare la gommapiuma» disse Giulia, carezzandogli le guance.
«Subito, amore» l'uomo si diresse verso la camera per cambiarsi i vestiti sporchi di vernice. «Faresti di tutto per me?»
«Farei di tutto per te»
«Lo prometti?»
«Lo prometto» Umberto sorrise e le diede un rapido bacio sulla guancia prima di uscire di casa.
Umberto alzò lo specchio e osservò la sua immagine riflessa. I suoi occhi erano ancora parecchio arrossati. Aprì l'anta dell'armadio per prendere le gocce prescritte dal medico e si curò di nascondere lo specchio in fondo al cassetto, sotto la pila di asciugamani. Giulia aveva insistito per togliere tutti gli specchi dalla casa e quello era l'unico che lui era riuscito a nascondere senza che lei se ne accorgesse.
«E se poi si rompono?» aveva detto lei.
«Sette anni di sfortuna» aveva risposto lui, sorridendo per alleggerire la tensione, ma questa volta Giulia non aveva riso.
«Basterebbe anche solo un frammento per ferire me. O il piccolo» lei si era accarezzata delicatamente la pancia, la fronte corrugata per l'apparente stizza che provava quando Umberto scherzava su tale questione.
«Devi toglierli tutti e portarli lontano da qui»
«Certamente, amore»
Umberto prese le gocce per gli occhi e se ne versò un'altra dose, sperando che il bruciore passasse. Era colpa delle vernici, ne era certo. Giulia lo costringeva a riverniciare i mobili ogni mese affinché non sbiadissero e la casa era sempre immersa nelle pungenti esalazioni di quei lucidi smalti. Non che a Umberto dispiacesse. Gli piacevano gli odori acri ma puri dei distillati industriali. In più, era sicuro che tutti gli insetti avessero abbandonato la casa a causa di tutti quei vapori artificiali, rassicurando Giulia che nessun ragno avrebbe potuto farla scoppiare con un suo morso. Scoppiare. Umberto si rimangiò quella parola. Giulia non poteva sentirla e lui doveva abituarsi a dimenticarla una volta per tutte per evitarle un'altra crisi nervosa.
«Umberto!» la sua voce stridente risuonò dal salotto.
«Dimmi, amore» gridò Umberto di rimando, rimettendo le gocce oculari nello scaffale dei medicinali.
«Vieni qui subito!»
Umberto aggrottò le sopracciglia. Giulia sembrava più nervosa del solito quel giorno. Uscì dal bagno e attraversò il corridoio con un sospiro rammaricato. Le sue scarpe emettevano un suono stridulo a contatto con la plastica grigia con cui aveva rivestito il pavimento.
«Che c'è?» Umberto fece capolino in soggiorno e vide che Giulia stava fissando con orrore qualcosa dietro il divano.
«Vieni qui» disse lei, gli occhi strabuzzati che raggrinzivano la pelle intorno alle orbite. Umberto sbuffò dentro di sé mentre camminava verso la donna strascicando i piedi. Non appena raggiunse il divano, notò qualcosa di marroncino e disgustoso per terra. Doveva essere un insetto morto a giudicare dalle zampette contratte verso l'addome. Probabilmente un qualche tipo di blatta.
«Hai visto? Guarda le sue tenaglie» disse Giulia, reggendo il proprio ventre con le mani come a proteggere il bambino da quella vista.
«Tesoro, non ha nessuna tenaglia» Umberto si chinò per esaminare la carcassa più da vicino «è solo un innocuo scarafaggio»
«Sai bene che non è innocuo» il tono della donna si fece più stizzito «vuoi forse che tuo figlio cresca in una casa dove vivono creature del genere? In cui la sua vita potrebbe essere in pericolo in ogni momento?»
«No, certo che no» sbuffò Umberto. Estrasse un fazzoletto dalla tasca posteriore dei pantaloni e raccolse accuratamente l'insetto morto mentre la donna lo fissava disgustata. Dopodiché si alzò e si diresse verso la cucina per gettarlo nel bidone dell'indifferenziata.
«Devi fare qualcosa, e subito» continuò a borbottare nervosamente Giulia «gli odori dello smalto non bastano a ucciderli. Devi trovare un insetticida più potente. Non deve restarne neanche uno in vita»
«Magari questi odori non bastano ad uccidere loro, ma di certo bastano a uccidere me» rispose Umberto, sovrappensiero. Si rese conto solo dopo pochi istanti di ciò che aveva detto. Si voltò verso Giulia e notò che si era immobilizzata nei suoi passi, esterrefatta dalle parole dell'uomo. I suoi occhi si fecero spenti, completamente abbattuti dalla delusione, ed ella strinse il ventre gonfio con ancora più foga.
«Non l'ho chiesto io di nascere così» disse, rassegnata di fronte alla freddezza di Umberto «credevo che lo capissi»
«Lo capisco» rispose lui con tono rammaricato.
«E allora perché dici così? Ti ho dato quello che potevo dare e in cambio chiedo solo che tu t'interessi della mia sicurezza»
«Tesoro... mi dispiace» la zittì Umberto, gettando via il fazzoletto.
Giulia tirò su col naso. Umberto sapeva che lei non aveva nessuna secrezione all'interno del naso e lo stava facendo solo per farlo sentire in colpa. Se la sua pelle di polimeri avesse avuto ghiandole lacrimali, forse si sarebbe sforzata il più possibile per piangere. Era davvero patetico.
«Domani comprerò l'insetticida più potente che trovo, va bene? Ma dovrò stare qualche giorno fuori casa»
«Come?» protestò Giulia «Perché? Vuoi abbandonarmi?»
«Non posso stare qui dentro quando avrò spruzzato l'insetticida. Cerca di capire» rispose Umberto con tono calmo.
«E se uno di quegli insetti esce allo scoperto? Se l'intera colonia cercando di scappare dovesse strisciare fuori dalle pareti e aggredirmi? Vorresti abbandonarmi da sola? Abbandonare tuo figlio?» insistette lei, guardando per l'ennesima volta verso la sua pancia tesa nel tentativo di commuoverlo. Umberto sospirò profondamente per riflettere. Quel giorno era davvero nervosa. Forse soffriva di una fobia degli insetti e la vista di quella blatta l'aveva scossa più del solito.
«E va bene» si arrese infine Umberto «resterò qui per un paio di giorni e indosserò una maschera per proteggermi dall'insetticida. Ma non potrò mangiare né baciarti mentre indosso la maschera. Dovrò uscire di tanto in tanto»
«Se non puoi baciarmi nei prossimi giorni allora è meglio esagerare ora» rispose lei, avvicinandosi a lui mentre si dondolava sulle cosce. Come al solito, invece di ringraziare, tornava alle sue elaborate tecniche di seduzione. Umberto la lasciò fare, permettendole di strusciarsi addosso al suo corpo e di imprimervi i feromoni a base d'idrocarburo che le impregnavano la pelle dopo l'evaporazione degli smalti casalinghi. I due si baciarono e si abbracciarono con la porticina del bidone dell'indifferenziata ancora aperta dietro di loro, gli occhi inespressivi della blatta asfissiata fissi sulle loro labbra. Eppure i baci di Umberto diventavano sempre più amari ogni giorno che passava. La sua pelle era irritata, il suo cervello atrofizzato dal costante isolamento casalingo. Ma ormai la dopamina era tutto per lui. Non poteva fare altro che percorrere le curve di Giulia con le dita e applicare pressione, percependo le sue membra gonfiarsi e mallearsi sotto il suo caldo abbraccio. La passione era la sua nuova realtà. In fondo, anche se iniziava a soffrire l'apatia, Umberto non avrebbe mai permesso a niente e nessuno di fare del male a Giulia. E mentre con la lingua assaporava il ruvido tocco dei polimeri, si pentì di ciò che aveva detto. E carezzò il pancione al cui interno sentiva un lievissimo palpitare di vita.
Umberto aprì la porta di casa con circospezione. Strabuzzò gli occhi, che si erano disabituati alla luce del sole, e controllò il vicinato. Dopo aver vissuto per mesi a contatto con le tinte lucide e perfette con le quali aveva verniciato la casa, vedere la scabrosità dell'asfalto del vialetto gli fece venire la nausea. Anche la luce solare, così accecante e diversa dalle lampade a neon del soggiorno, era tossica ai suoi occhi. Aveva lavorato duramente per rendere l'interno del suo appartamento più adatto per Giulia, cristallizzando gli spigoli in lisci poliedri di gommapiuma e silicone, smaltando ogni poro delle pareti in levigature sovrumane e illuminando tutto con luci neutre. E tutto ciò che ne aveva ricavato era un'allergia al calore del sole e all'organico sospiro del vento. Allora aveva sigillato ogni finestra, impedendo che la puzza dei bidoni dell'immondizia del vicino penetrasse nel loro nido, simbolo della massima purezza artificiale. E quando il familiare olezzo gli sfiorò le narici, fu come ricevere un calcio in faccia.
Sopraffatto da quell'invasione sensoriale, Umberto armeggiò disperatamente con la cassetta della posta. Era piena zeppa di lettere di sua madre e dei suoi colleghi di lavoro che gli chiedevano perché avesse abbandonato un posto tanto prestigioso. Ma lui non poteva leggerle. Non poteva curarsi della preoccupazione dei suoi familiari, perso nel labirinto dei suoi pensieri a vagare in una casa che ormai sembrava più un surreale rendering di grafiche tridimensionali che un appartamento vivibile. Annaspando, tastò le lettere che intasavano lo stomaco della cassetta della posta finché le sue dita non incontrarono un pacco più grosso e ruvido. Era cartone. Eccolo, il suo pacco. Umberto lo agguantò e diede un ultimo sguardo ai dintorni prima di tornare dentro casa. Quando la porta si richiuse dietro di lui, poté tirare un lungo respiro di sollievo. Non pensava che fosse possibile sviluppare una tale reazione fisiologica all'aria aperta, e di certo non si aspettava che si sarebbe ridotto così mesi dopo aver fatto l'amore con Giulia la prima volta.
Giorno e notte erano concetti arcaici, dimenticati da tempo alla luce bianca delle lampade. Non c'era ciclicità nella plastica, era infinita. Le lunghe catene di carboni potevano protrarsi per eoni, sempre uguali, senza minimamente vedere intaccata la tensione o la rigidità. L'unico a cui la ciclicità era concessa era il suo amico benzene, che Umberto sognava di notte come un serpente che si mordeva la coda. Eppure le conversazioni con lui non era piacevoli quanto quelle con altri suoi fratelli, come l'Etilene o il suo preferito, il Neoprene. Molto bravo a raccontare barzellette, come quella di Efesto e la vulcanizzazione. Però Giulia non capiva mai quelle barzellette, nata ieri. Insopportabile. Forse anche il suo apparato circolatorio non era più ciclico, dopo tutta la dopamina che lo aveva infettato nel corso di quei mesi. Era come una Bottiglia di Klein, impossibile da percepire con i sensi umani ai quali non poteva fuggire, ma lo sentiva dentro. Umberto sentiva anche che qualcosa non andava con la sua gola quando deglutiva. Era come se qualcuno ci avesse spruzzato continuamente strati e strati di lacca, incrostandogli la laringe con le diavolerie collose che fluttuavano nell'aria. Ogni suo respiro era faticoso e pungente. Se avesse respirato una mosca, gli sarebbe rimasta appiccicata nella gola come in una ragnatela. Umberto tossì con forza, assecondando i tentativi del corpo di rimuovere quella placca chimica dal suo organismo, ma era inutile. Era da mesi che tossiva e quella non si smuoveva.
Umberto strappò il cartone del pacco postale a mani nude e ne osservò il contenuto. Era uno stetoscopio di plastica. Non poteva certamente prenderne uno di metallo; Giulia lo avrebbe preso come un affronto. Lo testò prima su se stesso, infilando i gommini nelle orecchie e premendoselo contro il petto. Sì, era senz'altro ancora vivo. Una delle cose era fatta. Ora mancava la seconda. Umberto si avvicinò di soppiatto alla camera di Giulia e aprì la porta. La donna stava dormendo di sasso, le delicate palpebre di plastica posate sopra gli occhi come petali di un fiore richiusi nella notte. Umberto si tolse le scarpe e continuò a procedere verso il letto stando attento a non provocare il minimo rumore. Il suolo foderato di gommapiuma lo aiutò ad avvicinarsi nel silenzio più assoluto e Umberto trattenne il respiro quando fu sopra di lei. Continuava a dormire. Non si era accorta di niente. Umberto indossò lo stetoscopio, poi si chinò con cautela verso il ventre sporgente di Giulia. Essendo al settimo mese, la sua pancia era ormai molto gonfia. La sua pelle si era drammaticamente tesa, come quando si strizza un palloncino tra le dita, e assottigliandosi appariva ancora più fragile e delicata. A causa di questo assottigliamento, era più facile vedere ciò che traspariva dal suo ventre rarefatto, e la luce attraversava il corpo di Giulia mostrando il vuoto che c'era dentro di lei.
Umberto continuò a chinarsi con estrema lentezza, respirando pianissimo. Si asciugò una goccia di sudore dai capelli con la mano tremante, poi allungò la campana dello stetoscopio verso il gonfio ovale di plastica rosa che sporgeva dalle coperte. Giulia era troppo stanca per accorgersi del cono di plastica che approcciava il suo ventre senza ombelico con la delicatezza di un rover spaziale in fase di atterraggio. Umberto ebbe un sussulto quando poggiò lo stetoscopio sulla pancia. Lei non reagì. Non se n'era accorta. Umberto aguzzò le orecchie e gli parve di udire qualcosa che echeggiava all'interno dell'involucro di plastica, palpitante e arido. Il battito di un cuore. Di un singolo cuore. Come immaginava.
Improvvisamente Umberto si bloccò. La sua gola stava raschiando le nervature sotto il derma, comunicando che doveva tossire di nuovo. No. Non adesso. Sapendo di non poter fermare l'imminente attacco, Umberto freneticamente spostò lo stetoscopio lungo il corpo di Giulia. Lei mugugnò e contrasse i muscoli facciali, facendo intendere che aveva percepito quel tocco, ma Umberto continuò a far scivolare il cono di plastica lungo la pelle che lui aveva baciato e tastato fino al completo esaurimento. E c'era solo un battito.
«Per la miseria!» imprecò Giulia. Umberto si allontanò dal letto e prese a tossire incontrollabilmente, piegato in due mentre i suoi polmoni corrosi dal diisobutiliftalato si contorcevano in violentissimi spasmi. La donna lo osservò disgustata mentre egli spargeva la sua saliva sui mobili lucidi.
«Che stavi facendo?» sbraitò, senza aspettare che egli finisse di tossire.
«Ti ammiravo. Sei bellissima quando dormi» rispose Umberto, asciugandosi le labbra umettate di vernice.
«Ti ho già detto quello che penso. Non puoi avvicinarti a me finché non sistemi ciò che ti ho detto. Non mi sento sicura in tua presenza» ribatté lei, voltandosi dall'altra parte con fare esasperato.
«Ma tesoro...» Umberto sospirò profondamente prima di drizzare la schiena «togliere i denti fa un male cane. Non bastano i canini?»
«No. Anche i denti dietro hanno delle punte. Li ho visti mentre mi baciavi. E li ho sentiti. E quando sentivo i tuoi denti con la lingua sudavo freddo, tu non puoi capire. Io rischiavo la vita per darti piacere esplorando il tuo palato. Sei un ingrato»
Qualche secondo di imbarazzato silenzio trascorse.
«E tu sei una bugiarda» rispose Umberto senza scomporsi. Giulia alzò lo sguardo, offesa e confusa, e corrugò la fronte.
«Come ti permetti? Che intendi dire?»
«Che sei una bugiarda» Umberto fece qualche passo verso il letto «non c'è nessun bambino dentro di te»
«Come osi!» Giulia sgranò gli occhi e ghermì istintivamente le coperte, improvvisamente intimorita dall'uomo.
«Ho ascoltato bene. Ho controllato. Ora che sei al settimo mese si può vedere la tua pancia controluce. Ed è vuota»
«Ti sbagli! Dopo tutto quello che ho fatto per nostro figlio...»
«Non c'è nessun figlio» Umberto non stava ghignando, né la stava minacciando. Stava semplicemente camminando verso di lei con una strana luce negli occhi.
«Ti prego!» lo implorò lei «Se poggi l'orecchio, puoi sentire il suo battito!»
«Non è vero. È il tuo battito, non il suo. Non c'è nessun bambino. Ti sei solo gonfiata la pancia per farmi credere di essere incinta»
«Credi che sia capace di qualcosa del genere?»
«Sì»
Giulia contrasse le gambe e si raggomitolò sul letto mentre Umberto si faceva sempre più vicino. I suoi occhi saettarono disperatamente verso la porta della camera da letto, ma non c'era via di fuga. Ormai il viso di Umberto era a pochi centimetri di distanza. Se avesse cercato di scappare, era certa che lui l'avrebbe presa per il braccio senza sforzo e se la sarebbe trascinata a sé. I suoi occhi erano improvvisamente vuoti come quelli di un bovino, imprevedibili nella loro folle inespressività. Le finestre erano sigillate, l'abat-jour troppo distante per poterlo usare come arma. Lei era completamente indifesa di fronte alla sagoma dell'uomo, per la prima volta scossa da genuini tremiti di paura.
«Baciami» le disse Umberto, con lo stesso tono con cui l'aveva detto la prima volta.
Giulia scosse la testa e la testa di Umberto si fece più vicina, ancora più vicina. Così vicina che lei poteva vedere il suo fiato smuovere le particelle chimiche dell'aria.
«Baciami» ripeté lui. Le afferrò le guance in una morsa d'acciaio e a nulla valsero i tentativi della donna di scalpitare e divincolarsi. La sua stretta era selvaggia, un asfissiante impeto di passione che l'uomo aveva trattenuto troppo a lungo. Non c'era più nulla che stimolasse la dopamina di Umberto dopo tutto quel tempo, se non un solo pensiero. Un solo pensiero che al contempo lo eccitava e lo disgustava oltremisura, una bolla di plasma passionale come una supernova nella sua mente levigata come i mobili che aveva verniciato.
Umberto costrinse la donna a premere le sue labbra contro le sue. Giulia continuò a lottare per qualche secondo, finché la stretta dell'uomo non si allentò. Lei gli lanciò uno sguardo furioso, ma aveva solo un'arma in quel momento. Doveva placare la sete della bestia che risiedeva in lui in attesa di trovare una soluzione. A malincuore, Giulia aprì la bocca e infilò la sua lingua nella cavità orale di Umberto. Continuò a tremare mentre il muscolo guizzava in una danza erotica con la lingua di Umberto, esplorando il palato e mescolando i feromoni dell'amore carnale e della paura in un chimico distillato di passione. Umberto la prese tra le braccia, invaso, e la baciò invadendole la bocca con la sua lingua, le sue gengive, i suoi denti. Giulia, che si era appena sciolta, tornò a sbracciarsi disperatamente, ma non servì a nulla. Umberto presto iniziò a masticare e i gemiti della donna crebbero d'intensità, sovraccarichi d'indescrivibile terrore, finché ella non scoppiò.
Umberto sobbalzò quando accadde. Aveva fatto lo stesso rumore di un palloncino, nonostante lei avesse sempre odiato quando lui anche solo pensava una cosa simile in sua presenza. Umberto si tolse i pezzi di plastica rimasti incastrati sul canino e uscì dalla stanza. Andò in bagno e si guardò allo specchio. Aveva davvero una brutta cera. Le tonsille gli comunicarono che c'era un altro colpo di tosse in arrivo, stavolta ancora più travolgente e cataclismico di prima. Giulia doveva aver rilasciato in aria le sostanze che riempivano il suo corpo vuoto, perché un acre odore gli assalì le narici e lo costrinse a un forte colpo di tosse. A quel colpo di tosse ne seguì un altro, e un altro, e un altro ancora. Sempre più violenti. Umberto si rese conto che non riusciva più a smettere. Si accasciò a terra e implorò i propri bronchi di smetterla, di quietarsi per un momento e lasciarlo respirare, ma i suoi polmoni intrisi di sostanze estranee come spugne non gli diedero ascolto. Umberto continuò a tossire, e a tossire. La vista gli si annebbiò. Egli digrignò i denti. Qualcosa gli aveva bloccato la gola. Forse i bronchi erano riusciti a risputare qualcosa rimasto incastrato e ora questo gli aveva ostruito tutto il corpo. Umberto percepì la plastica intasargli le vene e i suoi muscoli avvizzire per venire rimpiazzati da un vuoto arioso. E i colori andarono via via sbiadendo finché l'ultimo colpo di tosse non scosse il suo cadavere in un ultimo spasmo. E Umberto vide la lampada al neon sopra di lui sfarfallare fino a spegnersi del tutto.
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