Ottavo Comandamento [Contest Halloween 2018 @HorrorIT]
Ottavo Comandamento [Terzo Classificato]
Questa storia partecipa alla collaborazione Halloween AmbassadorsITA 2018.
P.S. La storia contiene 3498 parole, ed è in regola con il limite massimo. Se Wattpad indica un totale di più di 3500 parole, comprende frasi e parole che non c'entrano con la storia in sé.
La tramontana di mezzanotte scuoteva fredda le cappe degli immobili monaci mentre, come decrepiti guardiani di carne, scortavano la plebe dentro la chiesa del monastero. Sulle porte spalancate di legno di tasso era affisso l'ordine della contessa, scritto sul pezzo di pergamena ondeggiante al fruscio dei timorosi villici. Loro non sapevano leggere e il messaggio era solo per i monaci.
Per ordine della contessa Tormaigh, la notte del 31 Ottobre tutti i cittadini del villaggio erano obbligati a pagare il pegno del Giorno dei Morti: due monete d'argento accuratamente elemosinate e una goccia di sangue.
A mezzanotte si sarebbe tenuta la celebrazione per sigillare i morti nelle loro tombe mediante l'antico rituale monastico. La pena per la mancata partecipazione o per il mancato pagamento del pegno era la morte per impalamento.
Non appena la guardia mosse la lanterna dalla parte opposta, Ailfried sgusciò dietro all'angolo della facciata, dando un'occhiata al lacero manifesto prima di salire su per la ripida scarpata che conduceva agli alloggi dei monaci. Il fuorilegge non sapeva leggere, come tutti gli altri villici, ma sapeva riconoscere la firma scribacchiata della contessa Tormaigh, così come la descrizione della pena scritta con bruno sangue secco. Nessuno era mai stato sorpreso per la severità della punizione che seguiva la mancata consegna del pegno, tanto v'erano abituati, sia per la naturale crudeltà della contessa, sia perché quella legge maledetta vigeva da tempo pressoché immemorabile. D'altronde tutti sapevano bene che la contessa aveva dei peccati ben più sanguinari alle spalle che l'uccisione di qualche negligente villico.
Giunto affannosamente sopra alla scarpata, Ailfried torse il capo a fissare la nebbia che usciva vomitata dalle viscere della terra e la fila nera degli impalati, fiocamente illuminata da una lanterna. Come ogni anno la contessa poneva lanterne tutt'attorno al golgota dei maceri impalati come monito per gli altri villici, e i lunghi pali di legno si stagliavano macabri nel buio della cittadella di legno e fango. Il ladro aggirò silenziosamente il primo edificio del monastero, distogliendo lo sguardo dalla lugubre scena, e percorse con passi svelti e furtivi la distanza che lo separava dal sudato compenso. Sussultò quando udì gli schiamazzi del popolo, quasi tutto radunato all'interno della chiesa in attesa della cerimonia, che risuonavano pesanti nell'aria trapassando il rosone illuminato dell'abside. Ailfried scosse la testa, mentre un brivido gli percorreva la schiena, e girò l'angolo. Eccola. La finestra che portava alla sala del capitolo del monastero era lì, davanti a lui, spalancata alla nebbia della brughiera. L'uomo deglutì silenziosamente mentre si avvicinava agli scuri di vetro opaco e tese l'orecchio per percepire il fruscio di un monaco o il tentennare delle monete di un villico ritardatario. Nulla si udiva. Doveva essere veloce.
Ailfried corse rapidamente e silenziosamente verso la finestra e scavalcò il davanzale di pietra. La luce della lanterna lo investì, e lo investì il riflesso delle centinaia di monete d'argento splendenti dentro al cesto di vimini. Il ladro sorrise trionfante, pur restando con i nervi in allerta, e mosse qualche passo verso il tesoro del Giorno dei Morti. Estrasse con rapida mano il sacchetto di iuta e subito afferrò un pugno di monete dal cesto. L'argento tentennò pericolosamente, come un lugubre sonaglio d'allerta, e al fuorilegge si gelò il sangue nelle vene. Doveva fare in fretta. Arraffò altre monete con il sudore che iniziava a colare sulle palpebre. Le orecchie erano tese per captare il minimo rumore, i tendini in allerta come quelli di un cervo. Ne prese altre, e altre ancora. Il sacchetto iniziava a pesare sempre di più, come sempre di più sentiva pesare l'ansia nelle sue vene. Aveva svuotato il cesto quasi per metà. Forse se ne sarebbero accorti. Ne aveva prese troppe, ecco. Doveva fermarsi. Ordinò alle membra di fermarsi in quei gesti colmi di bramosia, ma il terrore lo soffocava, paralizzandolo in quel gesto.
Alle sue orecchie, più tese che mai, parve di udire dei passi. Fu allora che la sua mano lasciò gli ultimi pezzi d'argento, serrò in una pallida morsa il sacchetto e si aggrappò al davanzale per fuggire da quel luogo di peccato. Fece a tempo a scavalcare col cuore in gola la finestra che la porta della sala si aprì, dopodiché udì un monaco afferrare il cesto per portarlo nella chiesa.
La tensione sbollì improvvisamente e, mentre il cuore del fuorilegge continuava a galoppare palpitazioni nelle orecchie, i suoi polmoni tirarono un profondo sospiro di sollievo. Guardò con gli occhi sgranati il sacchetto gonfio di monete che ora le sue mani ghermivano. L'aveva fatto. La disperazione lo aveva portato a sconfiggere il suo terrore. La fame gli aveva fatto superare la legge. Ancora non si era abbattuta su di lui la frusta impietosa di Dio, ma non sarebbe mancato molto. Era un disgraziato, un maledetto disgraziato a rubare alla gente. Sarebbe morto impiccato, con i corvi a beccargli le vuote orbite degli occhi, solo per sprofondare nell'inferno come meritava. C'erano almeno cento monete d'argento in quel sacchetto. Abbastanza per comprarsi da mangiare per un anno.
"Ailfried!"
Il ladro trasalì mentre di nuovo l'ansia gli pervadeva i capillari. Torse dolorosamente il collo a destra e manca, sgranando gli occhi colmi di terrore per scrutare nel buio chi lo avesse colto in flagrante. La mano con destrezza celò il sacchetto di monete dietro la schiena con un gesto rapido.
"Che diavolo ci fai seduto lì?"
Una figura magra e deforme si materializzò nella nebbia, dai contorni lividi e sfumati. Il petto del ladro smise di pulsare e terminarono le convulsioni alle tempie. Non c'era pericolo. Conosceva quell'uomo.
"Salve, Colum" biascicò il fuorilegge con uno spasimo dei bronchi.
"Non sei in chiesa per il rituale?" domandò lo scarno contadino, storcendo la tumefatta mascella da masticatore di pula.
"Stavo giusto recandomi lì, ma la salita è ripida, e quindi ho pensato di riposare un attimo" mormorò Ailfried, mentre i brividi si erano ormai quasi del tutto placati.
L'uomo sfoggiò un giallastro sorriso sdentato "Stai già invecchiando, disgraziato..." disse con voce roca, quindi tese l'orecchio al vento. Una monotona litania stava riempiendo l'aria, così come l'odore dell'incenso dei sacri turiboli che sanciva l'inizio della celebrazione.
"Sarà meglio sbrigarsi..." gracchiò Colum, allungando l'allampanata gamba. Fissò il fuorilegge con diffidenza, forse sospettoso riguardo al suo atteggiamento circospetto.
Ailfried deglutì silenziosamente ed espose il più falso sorriso che potesse produrre "Certamente" rispose, alzandosi in piedi con melliflua disinvoltura. La sua mano sostenne il gonfio sacchetto di iuta, continuando a celarlo dietro la schiena, poi lo legò furtivamente al cordone che sosteneva le brache consunte. Le sue viscere tirarono un sospiro di sollievo quando realizzarono che non si era prodotto alcun tintinnio che potesse far sospettare il compagno.
I due poveracci s'incamminarono, aggirando il monastero e scendendo per la nebbiosa scarpata che poco prima uno dei due aveva salito per compiere il suo misfatto. La voce tonante dei monaci, baritona e roca, riempiva l'aria, ovattata dal silenzio della notte e dallo sbiadito granito delle mura della chiesa. I passi erano silenziosi sull'erba umida di rugiada e l'aria era lacera di tensione come la bruma prima del temporale.
Dei brividi di freddo percorsero le ossa di Ailfried quando i due arrivarono davanti alle pesanti porte di legno della chiesa, entrambe spalancate a rivelare il rito che si stava svolgendo all'interno. Uno strano nodo iniziò a stringergli il petto non appena la suola del sandalo varcò la sacra soglia e la carne venne a contatto con i fumi aromatici dell'incenso. Un nodo che non sapeva spiegarsi, come se un improvviso parassita d'ansia si fosse appena insinuato nelle vene, iniziando a divorarle dall'interno. Il suo cuore ebbe un tumulto e la testa iniziò a girargli, contorcendo le visioni già irrequiete delle ombre dei villici nella chiesa.
Colum tossì e il compagno sussultò per lo spavento. Tutto d'un tratto i suoi nervi erano tornati tesi, sensibili alla minima percezione. Il suo corpo era tornato in allerta e il nodo che gli stava confondendo la vista e le idee gli suggerì che c'era qualcosa che non andava. Non che prima fosse tornato in pace con se stesso, mentre discendeva la scarpata, ma ora la sua ansia si era moltiplicata, e un senso di inquietudine lo aveva pervaso tutto. I villici sfilavano silenziosamente, in fila indiana, e si recavano presso il cesto di monete, posto sopra l'altare. L'abate era lì, scavato e serio, e incideva con il coltellaccio un taglio sulla mano di ciascuno dei contadini, che successivamente dovevano accertarsi di versare del sangue sui pegni per poi tornare al posto. La vista del denaro nauseò Ailfried al punto che l'uomo non riuscì a sostenerne la vista per più di pochi secondi.
Cercando di non destare sospetti, mentre le tempie pulsavano dolorosamente, si dispose in fila con gli altri, attendendo il turno mentre l'incenso confondeva e deformava le ombre della stanza e il lugubre canto dei monaci. Perché diavolo Colum si trovava da quella parte della collina proprio in quel momento? Lo aveva costretto a partecipare a quella nauseante celebrazione, che ora non stava facendo altro che accrescergli l'irrequietezza e il senso di colpa di sfilare davanti allo stesso cesto di monete che aveva appena rubato. Quelle dannate monete. Ailfried gettò un occhiata al sacchetto, pendente dietro la sua schiena, e gli parve più pesante di prima, celato nei densi fumi dell'incenso. Il sudore gli stava improvvisamente imperlando la fronte o erano solo allucinazioni? Il nodo dentro di lui sembrava sogghignare, o avvertirlo. Non capiva. Avvertirlo di cosa?
La faccia monolitica dell'abate gli apparve davanti agli occhi come uno spettro nella nebbia, strascicando i piedi gonfi. Senza mutare espressione l'uomo di chiesa lo guardò negli occhi come uno spirito antico, poi alzò la lama già nera di sangue secco. Il taglio non fu doloroso, bensì allucinato. La goccia di sangue precipitò lentissima nella nebbia, diretta al cesto con le monete. Ailfried sgranò gli occhi quando le vide. Quelle monete. Era così vicino a quel cesto, dannazione. Non avrebbe dovuto avvicinarsi così tanto. Il nodo nel profondo delle sue viscere stringeva, lanciando vagiti organici come un feto immerso nell'orrore. La goccia di sangue bagnò le monete, spargendosi tutt'intorno come inchiostro maledetto. Fu allora che il nodo morse con i suoi denti di ansia e terrore e i brividi assorbirono Ailfried. Avevano cercato di avvertirlo, di dirgli che quello che stava facendo era sbagliato. Ormai era troppo tardi. Le vene furono percorse da tremiti mentre ogni muscolo dell'uomo si immobilizzava. Il canto gli parve più sfocato, distorto, come un tintinnio di monete. L'incenso non era più fumo, ma una nebbia maligna che celava all'uomo la sua follia. Le pupille intrise di sudore si mossero a destra e a sinistra mentre il resto del corpo si paralizzava lentamente dall'orrore. L'abate aveva ancora il coltello in mano, ed era rimasto immobile a fissare l'uomo. Il nodo nelle viscere lo obbligò a fissare gli occhi del vecchio, cerulei e pallidi, profondi di arcano rimprovero. Qualcosa sembrò mutare in quei vecchi e stanchi occhi, che troppe volte erano rimasti chini a dipingere sacre miniature su fredde pergamene. Non un capello dell'abate si muoveva, come fosse una statua, e le rughe sembrarono dilatarsi, deformate dalla nebbia e dalle allucinazioni.
All'improvviso il vecchio si mosse. Afferrò confusamente le spalle di Ailfried, ghermendole con le decrepite dita ossute, e spalancò la bocca rugosa e sdentata. Il contado fu avvolto da un comune orrore quando egli iniziò a parlare con voce innaturale e disumana.
"La brulla terra rigurgita le ossa e la carne,
i tamburi di morte come lamenti empiono l'aria
i volti dei morti la nebbia non può nascondere.
Le unghie si consumano sul legno delle bare
le madri bagnano di orride lacrime i loro nati
poiché i morti tornano a camminare sulla terra".
Troppo orrore saturò allora Ailfried, impedendogli di muoversi, di ragionare, di pensare. L'abate spalancò la gola rugosa, esponendo l'ugola e le viscere in faccia al ladro. Un qualcosa di nero stava facendo capolino dal suo esofago. Tra le allucinate strilla d'orrore del contado e il terrore che impediva ad Ailfried di distogliere lo sguardo, cinque dita nere emersero da quella gola vermiglia. L'abate drizzò la gobba schiena e sollevò la testa a guardare il soffitto della chiesa. Qualcosa si muoveva nel suo esofago, contorcendosi sotto la pelle come un ammasso di vermi, deformando le grinze del monaco e straziandone le viscere. Le cinque dita avanzarono, afferrando la rugosa mascella dell'abate per rivelare un nero braccio ricoperto di setole, e i villici iniziarono a correre fuori dalla chiesa, mischiando l'incenso alla nebbia lattiginosa. Il gomito della creatura apparve dalla rigida gola, mentre un grosso corno caprino trapassava la spalla dell'abate, e iniziava a lacerare la carne e i muscoli. Il sangue iniziò a scorrere, bagnando la pietra sacra del monastero, e la spalla della creatura squarciò il cranio dell'abate, strappando tendini e pelle, mentre il corno risaliva il collo procedendo nello squartare la giugulare.
Fu in quel momento che un paio di gocce di sangue bagnarono il volto di Ailfried, riscuotendolo dall'orrida paralisi per frustargli i midolli delle ossa con brividi di terrore e adrenalina mai sentiti prima. Se fino ad allora la paura non aveva fatto altro che avvolgerlo nelle sue spire, immobilizzandolo e seccandogli gli occhi per il non poter abbassare le palpebre dalle macabre scene, ora tutto il suo corpo era preso da fremiti e tremori, e la sua mente era improvvisamente più lucida che mai. Il fumo prese improvvisamente consistenza, divenendo materia ottenebrante, e le urla della plebe crebbero d'intensità fino a diventare chiare e limpide d'orrore. La creatura lacerò l'aria con un muggito mentre si liberava dell'involucro di carne e sangue dell'abate, e Ailfried si voltò verso le porte spalancate della chiesa. Iniziò quindi a correre.
Si addentrò nella nebbia, lasciandosi alle spalle gli strazianti latrati di ciò che aveva appena partorito il monaco, e corse a perdifiato lungo la via principale. Sentiva il suo respiro, affannoso e colmo di terrore, mentre le orecchie esploravano il resto del villaggio captando ogni vagito lancinante e ogni spasmo di fuga. Non percepiva i muscoli muoversi, ma era certo di essere intento a correre follemente, fendendo la nebbia nel buio come un cinghiale selvatico della brughiera. Il ruggito della nera bestia riempì l'aria, ovattato dalla nebbia, e Ailfried si voltò allarmato, col sangue che gli pulsava nelle orecchie. Il suolo sembrò iniziare a tremare dalla furia con cui scalpitava la creatura, e già l'uomo percepiva il caldo fiato di quella sui tendini scoperti del collo.
Ailfried continuò a correre, voltandosi indietro di continuo. Una luce apparve nella nebbia, e fu allora che il terrore assestò un'altra coltellata nel petto all'uomo, quasi facendolo inciampare sui sassi per lo sgomento. Era la luce della lanterna, la quale illuminava fiocamente i morti impalati sulla via principale, ma non fu lo spettrale alone nella nebbia a riempire Ailfried di orrore. Ciò che lo terrificò fu la furia con cui quegli stessi impalati allungarono le braccia e le unghie per ghermirlo nella nebbia, lanciando laceranti strilli di furia e dolore nell'aria umida. I morti erano tornati, affamati di carne, traboccati dall'inferno per punirlo del suo delitto insieme alla bestia nera che gli stava alle calcagna.
Ailfried schivò le membra rancide e decomposte dei morti, dopodiché aumentò la velocità della corsa, muovendo forsennatamente le gambe con terrore scoordinato, quasi fosse un burattino di fiera manovrato da un sadico demone. Si voltò indietro, e vide che gli impalati, nonostante fossero ormai piuttosto distanti, continuavano a sbracciarsi bramosamente per afferrarlo. Gli parve inoltre di scorgere due occhi rossi nella nebbia. Occhi che sembravano avvicinarsi sempre di più.
Tornò a torcere il volto verso la strada che si snodava davanti a lui e si arrestò improvvisamente. Era appena giunto al capolinea. Davanti a lui si stagliava imponente e diroccato il possente castello della contessa Tormaigh, che gli bloccava la strada con la sua mole imponente. Il cervello di Ailfried iniziò a lavorare febbrilmente, cercando di trovare una soluzione. Mentre rifletteva, lucido dell'istinto di sopravvivenza e delirante dal dolore per il suo peccato, egli si guardò intorno con ansia e terrore, scrutando nella nebbia per scorgere quanto fosse ormai vicina a lui la nera creatura.
Impallidì quando finalmente la vide, illuminata dalla luce danzante della lanterna degl'impalati. Somigliava a una bestia caprina, con corna lunghe e demoniache. Gli occhi rossi da predatore spiccavano sul pelo nero ancora bollente del sangue del monaco. Si dirigeva correndo verso di lui, fissandolo con bestiale bramosia, e si avvicinava velocemente, metro dopo metro, alla sua vittima prediletta, macchiata del peccato che aveva fatto infuriare chissà quali altri obbrobri pagani.
Smise di pensare, colto da un altro potente flutto di quell'oceano d'orrore che quel giorno gli stava corrodendo gli organi, e alzò lo sguardo all'edera che ricopriva le pietre diroccate del castello. In qualità di fuorilegge, se c'era qualcosa che sapeva fare molto bene a parte borseggiare e fuggire dalle guardie della contessa, questo era arrampicarsi agilmente su qualsiasi tipo di parete con dei buoni appigli. L'edera rigogliosa che avvolgeva gran parte delle mura era un'ottima compagna di scalata, come pure le fessure e le crepe che saturavano gli spazi vuoti tra una pietra e l'altra. Non trovando altre opzioni, e constatando che gli rimaneva ormai poco tempo, Ailfried si precipitò verso le mura con le mani che già tremavano per l'esitazione e la concentrazione.
Salì con velocità, ansimando come un cinghiale. La sua concentrazione era massima, e il suo cervello tentava di ignorare le urla laceranti dei villici mentre sceglieva accuratamente in quali pertugi della pietra incastrare mani e piedi, ben conscio di ciò che lo attendeva sotto di lui se avesse messo piede in fallo. Non guardò in basso per vedere se la creatura fosse già giunta nei pressi del castello e lo stesse inseguendo, ma fece l'errore di guardare di lato, laddove si stendevano le brulle colline che abbracciavano il villaggio. Ciò che vide gli raggelò il sangue, spandendo brividi di terrore lungo tutti gli arti dell'uomo, tanto che per poco non perse la presa sugli squarci delle mura. Dalla terra lunghe braccia stavano iniziando ad uscire, vomitate dalle tombe sconsacrate e dagli ossari maledetti della regina Tormaigh, lividi di macera carne. Oltre a quell'orrida creatura che scalpitava e muggiva sotto di lui, ora anche i defunti tornavano a tormentarlo, oltraggiati dal suo scellerato crimine e bramosi di cacciarlo nel più profondo girone dell'inferno.
Ailfried continuò a salire, tentando di non guardare, non sentire e non perdere la presa. Un sorriso di sollievo gli stirò le labbra sudate quando tastò con la mano una delle colonnine che sostenevano un terrazzo sopra di lui. Lanciando un ultimo sguardo ai morti che ancora emergevano dalla nebbia un arto alla volta, Ailfried si issò sulla balconata, lieto di non riuscire a scorgere la famelica creatura, ed entrò nella sala a cui conduceva quel terrazzo. Spalancò gli occhi dallo stupore quando realizzò in quale stanza del castello era appena sbucato.
La sala era piccola, e quasi tutto lo spazio era occupato dal letto a baldacchino che si ergeva davanti a lui. Una fiaccola sola illuminava le umide pareti, ricolme di dipinti di figure femminili, insieme ai mobili artigianali in legno di frassino ricolmi di libri e strumenti per la cura del corpo. Quella stanza era la camera da letto della contessa Tormaigh, e il fatto che lui ora vi fosse appena penetrato senza permesso implicava che le guardie avevano tutto il diritto di giustiziarlo senza processo. Non che cambiasse qualcosa.
Un'ombra si mosse di fianco a lui, e Ailfried balzò di lato, allarmato. La contessa Tormaigh era lì, davanti a lui, pallida come un cencio e con gli occhi sgranati. Affondò il coltello che teneva nella delicata mano dritto nel petto del fuorilegge, che barcollò all'indietro prima di cadere a terra, sconvolto e confuso.
"Sii dannato all'inferno, o malandrino. Sei tu che hai omesso di pagare il pegno, e ti sei condannato a questo. Ho sigillato il patto con Lui per scampare al crudele destino che mi meritavo, poiché troppi uomini innocenti ho ucciso in vita, i quali ora stanno risorgendo dalla terra per punirmi a causa del tuo misfatto. Mi merito forse questo destino, disgraziato fuorilegge? Sono io peggiore di te, che disprezzi l'ottavo comandamento della legge di Dio? E ora mi tocca morire alla luce della luna per aver ammazzato troppo! D'altronde ognuno di noi è una luna, ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno. Perciò ti maledico, bastardo e assassino, prima che lasci questo mondo!".
Ailfried fissò il suo petto sgorgare caldo sangue, sbigottito dalla velocità con cui era successo tutto. Sentì le forze abbandonarlo piano, mentre le meningi non avevano più la forza di mandargli brividi d'orrore giù per la schiena. La sua vista e la sua mente si offuscarono mentre fissava la regina scoppiare a piangere isterica e la porta spalancarsi a rivelare il grosso caprone nero, che finalmente era giunto a compiere il suo giudizio.
Visto ciò, e sapendo che era finalmente terminato il suo calvario, Ailfried finalmente spirò zuppo di sangue.
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