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Lido Senza Ombre

Lido Senza Ombre (A Shadowless Shore)

Enzo si svegliò improvvisamente al volante della sua Fiat 132 color ocra. Il cruscotto dell'auto era invaso da un'intensa luce diurna – quel tipo di luce che si vede nei quadri di Salvador Dalì – e i suoi occhi impiegarono qualche secondo a mettere a fuoco gli elementi nel campo visivo. Non appena si fu abituato alla luce, quindi, Enzo guardò dritto davanti a sé. Stava guidando lungo una strada costiera deserta, con gli arbusti secchi che crescevano a bordo strada e spaccavano l'asfalto. Il mondo sembrava ondeggiare e sfaldarsi in lontananza, filtrato attraverso i fumi evaporati dal terreno, e l'aria mozzava il respiro all'interno dell'auto senza climatizzatore. Tuttavia, Enzo aveva un problema più grande del caldo torrido: non ricordava dove stesse andando. Non ricordava nemmeno ciò che era successo nelle ultime ore, anzi, negli ultimi giorni. Confuso, Enzo volse gli occhi al cielo. Il sole era così forte che non si riusciva a distinguerne la sagoma, si vedeva solo uno squarcio bianco nella mesosfera, un sovraccarico di luce intensissima. Non aveva mai visto un sole così. Tornò a guardare di fronte a sé e iniziò a studiare il paesaggio che costellava la carreggiata. Doveva trovarsi vicino alla costa, a giudicare dai nomi della sfilza di resort disseminati nel paesaggio semidesertico. "Hotel Mare", "Resort Stella Marina", "Palazzo Miramare". Gli sembrava di aver già sentito questi nomi, ma al contempo non gli erano familiari. "Palazzo Miramare". Era un hotel a cinque stelle, come si evinceva dall'insegna, eppure il suo aspetto ricordava più un condominio sovietico che una reggia per ricchi turisti. Era un parallelepipedo massiccio e sgraziato, con terrazze spigolose e una ventina di piani tutti identici, e gli dava l'idea di un edificio morto. Enzo notò che lo stesso stile architettonico era comune anche a tutti gli altri hotel, i quali differivano tra loro solo per il colore del cemento e per la disposizione di terrazze e finestre nel pattern della facciata. Lo spazio tra questi resort era costellato di ampie distese d'erba secca ed enormi impianti industriali dalle ciminiere spente come giganti dormienti. Gli ricordava il tipico paesaggio di Ostia, ma molto più brullo e desolato. Una periferia romana abbandonata a decadere coi cementi erosi dalla salsedine e le sabbie intrise delle precipitazioni chimiche delle fabbriche. Enzo si sfregò la manica sulla fronte per levare via il sudore. Forse stava andando proprio lì, a Ostia, ed era per questo che ora stava percorrendo quella strada. Per quanto si sforzasse, tuttavia, non riusciva proprio a ricordare nulla. Quel caldo infernale gli impediva di riflettere lucidamente. Accese la radio, sperando che potesse dargli qualche informazione su che giorno fosse o dove si trovasse. Le casse crepitarono per qualche secondo prima di acchiappare un segnale.
«... ed è ormai questione di giorni prima che la polizia ricorra a metodi più drastici per mantenere l'ordine pubblico...» gracchiò una voce con accento romano. Enzo alzò il volume.
«... il Ministro della Sanità sta valutando di considerare questa nuova ondata di morbo una vera e propria epidemia, nonostante gli studi siano ancora molto indietro. Nel frattempo, la fiducia nelle istituzioni sta crollando con la stessa rapidità della fiducia nelle relazioni interpersonali. Nessuno è al sicuro dal misterioso morbo che sta causando la più grande isteria di massa della storia moderna. Ricordiamo ai nostri ascoltatori di evitare contatti troppo intimi con i propri amici e familiari e di non consumare rapporti sessuali finché la situazione non sarà chiara. Ci risentiremo con un ospite dopo la pubblicità per parlare degli ultimi esodi che coinvolgono molti di voi concittadini. Ora, visto il clima afoso degli ultimi giorni, vi portiamo un po' di pioggia con "It's A Rainy Day Sunshine Girl"!»
La musica ad alto volume riempì presto l'automobile, raschiando l'aria a causa della scarsa qualità del segnale. Dunque c'era un'epidemia di qualche tipo che stava dilagando in tutta l'Italia. Almeno così aveva detto lo speaker radiofonico. Enzo si sentiva parecchio confuso. Forse la sua improvvisa amnesia era in qualche modo collegata a questo morbo ignoto. Magari ne era un sintomo, o magari quel paesaggio desertico era il rifugio verso cui lui stava fuggendo. Doveva assolutamente scoprire di più in proposito.
Un mugugno infastidito giunse dal sedile posteriore ed Enzo si voltò. Xavier era lì, seduto a strofinarsi gli occhi semichiusi. La musica doveva averlo svegliato.
«Siamo arrivati?» domandò il sedicenne, sbadigliando.
«Non lo so» rispose Enzo, tornando a voltarsi per controllare la strada «metti la cintura di sicurezza»
«Non serve a un cazzo la cintura di sicurezza» rispose l'altro, senza nascondere la stizza «non c'è nessuno per strada, guarda. E cos'è questa musica? Spegnila»
Enzo spense la radio e inspirò profondamente. Era tentato di chiedere a Xavier cosa stesse accadendo, ma non era sicuro che fosse una buona idea. Il ragazzo non avrebbe preso bene la scoperta che suo padre si era improvvisamente scordato tutto. Si girò a guardarlo; non sembrava diverso dal solito. Xavier gli lanciò un'occhiata ostile, come a dirgli di smetterla di fissarlo, e tornò a distendersi sui sedili posteriori usando il borsone da spiaggia come poggiatesta.
«Che ne dici se ci fermiamo da qualche parte? Ci prendiamo un gelato e chiediamo informazioni» disse Enzo, inclinando il volante per seguire una curva.
«Ti sei perso?» la risposta del ragazzo era intrisa di sarcasmo.
«No, non mi sono perso. Ma ho bisogno di un gelato. È come se la mia testa stesse ardendo dall'interno»
La strada proseguiva dritta e poi curvava, costeggiando una lunga spiaggia adornata da un reticolo di marciapiedi di cemento e stabilimenti balneari in disuso. Più in là si riusciva a distinguere il mare, calmo come uno specchio e lucido di immobili bagliori solari. Scrutando il paesaggio di fronte a sé, Enzo riuscì a scorgere un piccolo bar affacciato sulla spiaggia a qualche centinaio di metri di distanza. Frenò dolcemente, aguzzando la vista per verificare che fosse aperto, dopodiché entrò nel piazzale di fronte all'edificio e parcheggiò di fianco a una Vespa color crema. Di fronte alla porta col paramosche, accanto a due palme finte, c'era un cartello di plastica blu a mostrare un catalogo di gelati confezionati. Il cemento era sporco di sabbia e ribolliva sotto il sole cocente.
«Muoviti, si muore di caldo» disse Enzo.
I due entrarono nel bar e i loro occhi impiegarono qualche secondo ad abituarsi alla penombra. Il barista era seduto su uno sgabello, intento a leggere il giornale, e non si accorse di loro finché Enzo non si schiarì la gola. Non sembrava avere fretta, perché piegò accuratamente il giornale in quattro e si alzò dallo sgabello con movenze flemmatiche. La sua fronte era tutta sudata e i suoi occhi velati di profondissima noia.
«Che vi porto?» domandò con voce annoiata.
Enzo ordinò un Winner Taco e Xavier un cornetto. Dopo aver pagato, mentre assaggiava il gelato, si rese conto di quanto caldo facesse all'interno del locale. Evidentemente quel posto sperduto era sfornito di sistema di climatizzazione, proprio come la sua auto.
«Se volete di là c'è un ventilatore» disse il barista, indicando un punto indistinto dietro una parete del locale. I suoi occhi erano del tutto inespressivi, ma la voce era quella di un uomo che non voleva seccature.
«Va bene. Molte grazie» disse Enzo senza alzare gli occhi dal gelato. Dopodiché, fece un cenno a Xavier e si avviò lungo la direzione indicata dal barista. Il locale era piuttosto spoglio, con pareti ricoperte di carta da parati giallognola e sabbia tra le fessure delle piastrelle. Le uniche decorazioni presenti, a parte qualche chincaglieria marina, erano resti di mura e colonne di quella che doveva essere un'antica domus romana. Enzo si chiese se fossero autentici. Svoltò l'angolo verso la direzione indicata dal barista e fu meravigliato di trovare un uomo seduto al tavolo col ventilatore. Era un uomo pressoché della sua stessa età, con lineamenti visibilmente mediterranei e la pelle abbronzata dal sole. Enzo si chiese se fosse un marinaio della zona ma la sua professione doveva essere più leggera a giudicare dalla posa sciolta e dalle mani delicate. Lo straniero sorrise ai due non appena li vide e si scostò per permettere loro di sedersi.
«Buon pomeriggio» disse con tono affabile.
«Buongiorno» rispose Enzo, sedendosi con leggero nervosismo. Diede un morso al gelato e chiuse gli occhi, godendosi la sensazione dell'aria soffiatagli in viso dalle pale del ventilatore. La freschezza del gelato sembrò fargli tornare un po' di lucidità mentale, dissipando i vapori d'afa che gli congestionavano il cervello. Purtroppo, però, il venticello e il gelato non erano abbastanza da fargli tornare la memoria. Lo straniero fissò le labbra di Enzo chiudersi intorno alla crema con un bizzarro interesse, come se lo divertisse vedere un adulto provare tanto piacere per un gelato preconfezionato.
«Un caldo infernale oggi, eh?» disse con cordiale malizia.
«Fa molto caldo, sì» rispose Enzo con un po' d'imbarazzo. Xavier alzò gli occhi verso l'individuo per una frazione di secondo prima di tornare indisturbato ad avventarsi sul cornetto.
«Quasi quasi me ne prendo uno anch'io, dopo. Adoro i cornetti Algida» continuò lo straniero, facendo un cenno verso il gelato «io sono Maruo, comunque, piacere di avere compagnia»
«Il piacere è mio. Io sono Enzo. Lui è mio figlio Xavier»
Non ci furono strette di mano. Maruo si limitò a studiare Xavier, le labbra inarcate in un sorriso quasi impercettibile. Enzo lo osservò con la coda dell'occhio. Non riusciva a decifrare le sue intenzioni. Nonostante sembrasse un individuo amichevole, aveva una strana espressione dipinta sul volto. Quella sorta di ghigno benevolo che di solito sfoggiano coloro che hanno imparato a dimenticare ogni preoccupazione. Enzo scrollò le spalle. Forse era solo il caldo a renderlo più diffidente del solito. Era ora di chiedere delle informazioni e fare chiarezza sulla sua situazione.
«Se non disturbo, potrei chiederle in che luogo ci troviamo? In che città siamo, intendo. Non ho visto cartelli lungo la strada» domandò, dando un altro morso al gelato.
«Lei dov'è diretto?» rispose Maruo.
Enzo si morse le labbra. Per un attimo fu tentato di porre la medesima domanda a Xavier, sperando di cavarsela con qualche scusa sul caldo che gli annebbiava la mente.
«A dire la verità... io...»
«Questo posto non ha un nome» lo interruppe Maruo, senza mutare espressione «siamo da qualche parte sulla costa romana, ma nessuno viene più in queste spiagge da anni. È una spiaggia senza turisti, questa. Non ci sono belle discoteche, ragazze col culetto al vento. Il sole arde la pelle, prosciuga la ragione e i pensieri. Le acque sono infette per gli scarichi industriali. Siete venuti qui per sfuggire all'epidemia?»
Enzo boccheggiò disorientato. Lanciò un'occhiata a Xavier, cercando una qualche conferma, ma il ragazzo era del tutto preso dal suo cornetto.
«Allora è vero, c'è un'epidemia in giro. Ne sa qualcosa in più?»
Maruo sospirò «Non ne so molto. So che la gente sta scappando dalle grandi città. Che le autostrade sono tutte bloccate, i telegiornali non parlano d'altro. Nessuno sa bene come la malattia si trasmette, c'è chi dice che sia sessualmente trasmissibile»
«Davvero? Ma quali sono i sintomi?»
«Nessuno sa di preciso neanche questo. Alcuni dicono una cosa, altri ne dicono un'altra. Nessuno si fida di quello che dicono gli altri»
«Ma cosa si dice?» mormorò Enzo, la voce ormai ridotta a un sibilo nervoso.
Il rumore di Xavier intento a leccare la carta del cornetto li interruppe bruscamente.
«Grazie mille per il gelato, oggi c'è un caldo assurdo» disse il ragazzo, poi si voltò verso Maruo «è mica tua la Vespa parcheggiata qui fuori?»
Le labbra di Maruo si distesero in un ampio sorriso, come se stesse aspettando quella domanda dall'inizio della conversazione.
«Certo che è mia. L'ho comprata qualche mese fa» rispose, infilando le mani in tasca con finta noncuranza.
«E che modello è?»
«PX 125 Arcobaleno. Nuova di zecca, è praticamente uscita dalla fabbrica l'altro ieri»
«Ma dai...»
Enzo volse uno sguardo contrariato a Xavier. Gli occhi del ragazzo erano improvvisamente scintillanti, drenati della tipica noia adolescenziale che li rendeva fiacchi, e Maruo si piegò in avanti per parlargli con più intimità.
«Ti va di farci un giro?» domandò.
«Farci un giro?» Enzo si sentì intimorito da quella proposta, ma l'espressione di Xavier si era già illuminata.
«Oh, sì! Grande!» esclamò il ragazzo. Divorò ciò che restava del cornetto in un paio di morsi e seguì lo straniero fino alla porta del locale, il tutto sotto gli occhi allibiti di Enzo. L'uomo non si riscosse finché non sentì il freddo tocco dei rivoli del gelato che gli si stava squagliando in mano. Finì il Winner Taco più rapidamente possibile, poi si alzò e seguì gli altri due fuori dal locale. Rimpianse di essere uscito all'aperto non appena la luce solare tornò a trafiggergli gli occhi.
«Ma dove andate?» gridò a vuoto, senza convinzione. Era inaccettabile che suo figlio lo ignorasse in quel modo per seguire un uomo appena conosciuto di cui a malapena sapevano le intenzioni. Enzo sentì una strana angoscia iniziare a fermentargli nelle viscere. Schermandosi gli occhi, vide che Maruo era già montato sulla Vespa color crema e che Xavier si era seduto dietro.
«E il casco? Non mettete il casco?» disse.
«Non serve. Non c'è nessuno per strada» rispose Maruo. Si era infilato un paio di guanti di pelle e degli occhiali da sole.
«Ma non è meglio...»
«Abbia un po' di fiducia, guardi che glielo riporto tutto intero» lo interruppe Maruo con una risata, poi avviò il motore. La Vespa emise un forte ruggito e Xavier lanciò un gridolino di eccitazione.
«Non preoccuparti, papà. Facciamo solo un giro qui intorno» dalla voce sembrava piuttosto sereno, per nulla intimorito dal fatto di conoscere appena quello straniero. In fondo era bello vedere il suo viso con un'espressione che non fosse la noia giovanile, pensò Enzo. Lasciati andare, sussurrava l'inconscio. Lasciati andare e non fare il bigotto. Arretrò di qualche passo, ancora piuttosto confuso e insicuro. La Vespa ruggì una seconda volta e Xavier ululò, carico di adrenalina. Dopodiché, Maruo partì a tutto gas verso la carreggiata costiera. Enzo quasi ebbe un mancamento quando li vide curvare bruscamente, piegandosi verso l'esterno fino a sfiorare l'erba secca con i capelli. L'angoscia lo paralizzò per un tempo indefinito mentre i suoi occhi seguivano la Vespa sfrecciare lungo la carreggiata e accelerare repentinamente tra le strilla euforiche di Xavier. La moto imboccò una strada secondaria, salendo su per una scarpata, e ne ridiscese a velocità folle. Enzo seguì ogni movimento del veicolo con gli occhi strabuzzati e i pugni stretti al punto da sbiancare le nocche, certo che qualcosa sarebbe andato storto a momenti. Il timore era più intenso del rombo del motore e della puzza di miscela nell'aria.
Dopo poco più di due minuti, Maruo tornò al parcheggio e spense il motore con un sorriso soddisfatto. Xavier stava ancora schiamazzando per le intense scariche di adrenalina. Enzo cercò di darsi un contegno schiarendosi la gola e drizzando la schiena, ma era evidente dal suo pallore che aveva passato un paio di minuti in estrema apprensione.
«Sei forte, ragazzo» disse Maruo, raddrizzando gli occhiali da sole sul naso «anche tu hai uno scooter?»
«No, mio padre non mi permette di comprarne uno. Ma me li fanno provare i miei amici» Xavier scese dalla Vespa e si strofinò il viso con la manica. Gli sguardi dei due individui si posarono su Enzo, facendolo sentire inspiegabilmente mortificato.
«Tuo padre vuole solo che tu stia al sicuro. Immagino che per lui sia un atto d'amore, non una proibizione. Un buon padre è sempre preoccupato della salute dei suoi figli»
Xavier annuì, senza staccare gli occhi da Enzo.
«Può darsi. Ma vorrei che si fidasse più di me»
«E tu ti fidi di lui?» domandò Maruo. Un lungo silenzio senza sguardi o sospiri seguì, dopodiché il motociclista smontò e fece un sorriso imbarazzato. Anche il suo imbarazzo, tuttavia, sembrava perfettamente dosato per non rompere l'illusione di coolness che finora aveva mantenuto.
«Bisogna avere fiducia di questi tempi. È la fiducia nel prossimo a tenerci uniti,» disse «ora venite, vi mostro la spiaggia»
I tre uomini si avviarono a piedi verso il lungomare, che distava solo poche centinaia di metri dal parcheggio. Enzo si sentiva a disagio per ciò che aveva detto Xavier, ma in fondo ci era abituato. Frenare l'impulsività del ragazzo era un'impresa parecchio ardua, perciò egli nel tempo aveva imparato a ignorare i suoi sfoghi verbali. Sapeva che in fondo lo rispettava, anche se non tanto quanto rispettava quello straniero. Quel pensiero lo innervosì.
«Sai, Enzo, non stai facendo nulla di sbagliato» la voce di Maruo lo riscosse dai suoi pensieri. A quanto pare si era già permesso di dargli del "tu". I tre uomini giunsero al viale di cemento armato che percorreva la spiaggia longitudinalmente e lo superarono per affondare le scarpe nella sabbia.
«Non c'è un modo giusto e un modo sbagliato di fare il padre, vedi. Il trucco è avere fiducia. Fiducia in se stessi, intendo. La cosa principale in ogni ambito è sempre la fiducia»
Enzo annuì lentamente. Tutti quei discorsi sulla fiducia stavano iniziando a nausearlo e lo straniero sembrò intuirlo, poiché assunse un'espressione più seria.
«Davvero, non esistono scelte sbagliate. Le orse, per esempio, sono simbolo dell'amore materno in natura. Ma se d'estate gli nasce un solo cucciolo, invece che due o tre, spesso decidono di abbandonarlo. Non vale la pena sprecare energia per crescerne uno solo, capisci? Non è una scelta sbagliata»
«Non so cosa lei stia cercando di dirmi. Ero solo un po' in ansia per le impennate» si difese Enzo, cercando di mascherare la sua irritazione «e poi non siamo diversi dagli animali? Perché mi sta raccontando questo?»
«So leggere le persone, ecco tutto» rispose Maruo. Camminava sulla sabbia fresca in modo innaturale, con i piedi che non sprofondavano neanche di un centimetro. Il calore era intensissimo sulla spiaggia e la luce del sole tanto forte che sembrava avvolgere ogni oggetto da tutte le direzioni, senza lasciare ombre sulla sabbia.
«Mi scusi, non sono un amante delle ostentazioni di spericolatezza. Lo dico con tutto il rispetto. Lei ha mai avuto un figlio?» domandò Enzo. Dopotutto lo straniero stava mettendo in discussione le sue abilità di padre, pur nascondendolo sotto quel tono affabile.
«Oh, sì» la risposta di Maruo lasciò Enzo stupito «ho avuto un figlio e vorrei essere stato un buon padre»
«Perché dice così?»
«Quando aveva cinque anni, Pavel non riusciva a socializzare né con i bambini né con le maestre della scuola materna. Però sapeva già leggere in tre lingue diverse: russo, inglese e giapponese. I bambini di cinque anni tendenzialmente non sanno leggere il giapponese, neanche se vivono in Giappone. Gli diagnosticarono il mutismo selettivo e mi dissero che aveva una sorta di sindrome di Savant, una genialità controbilanciata dalla più totale incompetenza in altri ambiti. Mi diedero una selezioni di manuali che spiegavano come crescere un figlio prodigio. Ti pare? Una fottuta enciclopedia che mi spiegasse cosa dovevo fare per crescere al meglio il mio bambino, come se fosse una cavia da laboratorio su cui testare teorie psicologiche e strategie statistiche. Mio padre mica aveva dovuto studiare un libro per crescermi»
Enzo annuì mentre faticava a star dietro le falcate decise degli altri due. Xavier camminava in silenzio di fronte a lui, ammirando gli enormi stabilimenti industriali che si trovavano alla loro sinistra. Si poteva udire un leggerissimo ronzio sovrastare lo sciacquìo delle onde in bonaccia, come se l'eco dei macchinari industriali non si fosse del tutto spento dopo i loro decenni di letargo. Ogni suono, compresa la voce di Maruo, era distorto dalla temperatura dell'aria finendo per somigliare a una vibrazione vuota e inaridita. Enzo non sapeva spiegarlo, ma l'acustica di quella spiaggia gli stava facendo venire il mal di testa. C'era qualcosa di sbagliato, di irreale, ma Maruo sembrava perfettamente a suo agio mentre continuava a narrare.
«Così ho seguito alla lettera le istruzioni. Costrinsi Pavel a entrare a far parte di greggi sociali scolastici e universitari, di ottenere dei piccoli premi in cambio di uno studio disciplinato e ordinato, senza permettergli di ascoltare né il suo né il mio istinto. L'unico premio che voleva lui era stare da solo, forse masturbarsi dopo aver lanciato i boxer sulla videocamera che gli avevamo nascosto vicino al letto. Adesso non ne sono sicuro. Un padre non dovrebbe mai sapere quando un figlio si masturba, trovi? Quante volte si masturba Xavier?»
Enzo corrugò la fronte, imbarazzato. Non era il tipo di domanda che si aspettava di ricevere senza preavviso. Lanciò un'occhiata preoccupata a Xavier, che si voltò a guardarlo con una strana espressione beffarda. La situazione iniziava a stordirlo sempre di più, sembrava che i due sapessero qualcosa di cui lui era all'oscuro.
«Cos'è questo posto?» domandò con un tono di voce più nervoso «Perché lei mi sta raccontando questa storia?»
«Ti senti bene?» Maruo rallentò il passo e scrutò il volto di Enzo con lieve preoccupazione «Non hai un bell'aspetto. Sei pallido e tutto sudato»
«Come mi dovrei sentire con questo caldo? E dopo quelle... quelle impennate con la moto!»
«Era solo per divertirsi...»
«La conosco?»
«Non credo, o non ti starei raccontando la mia storia»
«Mi sembra che lei si stia spingendo troppo oltre. Dovrei proprio tornare alla mia macchina»
Enzo fece per girare i tacchi, ma Xavier si voltò e sbuffò teatralmente.
«Eddai, papà! Voglio sentire la fine della storia!»
Parlava come un infante, le parole deformate in capricci dall'intensa canicola estiva. Enzo gli lanciò un'occhiataccia, intimorito da come la situazione stesse sempre più sfuggendo al suo controllo. Era come se il caldo li stesse prosciugando di ogni pensiero ragionevole, rendendo loro difficile resistere all'impulso di lasciarsi trasportare dalle parole dello straniero. Enzo non sentiva le gambe mentre camminava, né riusciva a dare un senso a ciò che stava facendo, eppure non poteva farci niente. La confusione per la propria amnesia e l'incombente pensiero dell'epidemia atrofizzavano ogni altro pensiero.
«E poi devo cacare» aggiunse Xavier, fermandosi di fronte un'autocisterna abbandonata sulla spiaggia. Il metallo bianco e giallo non aveva neanche un po' di ruggine nonostante sembrasse abbandonato da anni. Maruo si grattò il mento ispido e volse lo sguardo a uno dei tanti resort lì vicino: un tozzo monolite di cemento armato che si ergeva nel cielo con una ventina di piani tutti uguali.
«Quello è un hotel a quattro stelle. Non ci va molta gente. Puoi usare uno dei loro bagni» disse.
«Va bene, andiamo» rispose Xavier, avviandosi verso l'imponente edificio. Enzo non poté fare altro che seguirlo. Almeno avrebbe potuto riposarsi all'ombra per un po'. Nel frattempo Maruo continuò il suo racconto.
«Insomma, alla fine Pavel ebbe un'infanzia piuttosto scontenta. Non avendo fatto molta esperienza dell'imperfezione dei rapporti umani, era cresciuto come un ragazzo debole e voluttuoso. Era al contempo congelato in una reclusione totale e in un disperato bisogno di socialità passiva. Per lui le persone erano come le macchine, totalmente comprensibili e prevedibili dalla loro facciata, ed era pronto ad aiutarle per soddisfare un logico bisogno di piacere. O meglio, a farsi sfruttare. L'indipendenza a quanto pare non è la virtù dei geni, dico bene? Avrei fatto meglio a frustarlo per ogni bugia detta a fin di bene, a torcergli le dita a ogni "per favore" detto in tono troppo formale. Capisci cosa ho sbagliato? Adesso credo proprio che lui abbia contratto il morbo»
«Il morbo?» l'attenzione di Enzo si ravvivò improvvisamente.
«L'epidemia, capisci? Ha contratto il morbo molto prima degli altri. Ha contribuito a diffonderlo. Ora non posso più fidarmi di lui. Nessuno può fidarsi di lui» continuò Maruo, il viso totalmente inespressivo. Non sembrava provare rimorsi, nonostante parlasse con una certa malinconia.
«Non riesco a capire»
Maruo scoppiò in una risata amara «Se riuscissi a capire, non saresti venuto qui»
I passi dei tre uomini presto passarono dalla sabbia all'asfalto, dopodiché si arrestarono di fronte al palazzo. A Enzo parve che anche quello non gettasse nessun'ombra sulla spiaggia, ma forse era dall'altro lato. Era difficile a dirsi, visto che non si poteva guardare direttamente il sole. L'atmosfera era comunque piuttosto surreale di fronte all'imponente monumento dalla cima tremula nell'aria torrida. Enzo aveva già visto hotel con un'architettura così rigida nelle grandi città, ma mai vicino al mare. Ormai si era arreso all'idea che forse Maruo aveva ragione. Forse quel luogo era così solitario e desolato da aver dimenticato il suo stesso nome, trasformato in una reliquia dell'era moderna e intrappolato come un fossile nella resina del cemento armato. Strabuzzando gli occhi, Enzo provò a trovare una qualsiasi irregolarità nel pattern di terrazze e finestre sempre uguali che si ripetevano per tutta la facciata. Tuttavia, sentì le gambe cedergli per le vertigini e dovette abbassare lo sguardo.
I tre uomini si addentrarono nel palazzo e i loro occhi impiegarono molto tempo ad abituarsi alla penombra. Le luci nei corridoi erano accese e la reception sembrava pulita e in ordine, eppure non c'era anima viva.
«Di qua» disse Maruo, dirigendosi verso le scale. Salirono cinque piani avvolti in un silenzio irreale, interrotto solo dall'ansimare di Enzo e dall'eco dei passi sui gradini di marmo. Dopodiché aprirono una porta tagliafuoco e si trovarono in un corridoio dalle pareti bianche e spoglie. Anche lì le luci erano accese e si poteva udire il debolissimo ronzio dei cavi elettrici nelle tubature sopra di loro. La totale assenza di segni di vita stava iniziando a inquietare Enzo. Era come se tutti gli esseri umani fossero improvvisamente svaniti da quelle sale, lasciando i mobili e le lampade artificiali senza uno scopo, nell'attesa perpetua di un inquilino che non sarebbe mai arrivato. Enzo camminò sulla moquette color caffelatte fino a raggiungere il bagno a metà corridoio e si poggiò nervosamente alla parete.
«Faccio in fretta» disse Xavier, svanendo dietro la porta. Maruo lo seguì standogli dietro ed Enzo gli rivolse uno sguardo infastidito.
«Anche a me scappa» si giustificò. L'espressione sul suo viso era molto seria. Enzo sospirò e scrollò le spalle, dopodiché si mise a guardare distrattamente le lampade a neon. Era sollevato di poter stare all'ombra per qualche istante, ma più il tempo passava e più l'inquietudine gli incrinava il respiro. Si sentiva come un rettile in procinto di sfogliarsi la pelle, avvolto in un guscio invisibile che alterava le sue sensazioni e amplificava il disorientamento. Si chiese se quell'epopea allucinata fosse causa di una qualche droga che aveva assunto, ma non ricordava di averne mai possedute. No, la sua vita era sempre stata molto noiosa. O perlomeno Enzo aveva questa impressione. Dopo un po', il rumore degli sciacquoni ruppe il silenzio e Maruo e Xavier uscirono dal bagno.
«Ecco fatto» disse Maruo con un sorriso soddisfatto. La sua espressione, tuttavia, si deformò improvvisamente in un agghiacciante sudario di terrore. I suoi occhi si fecero sbarrati, fissi in un punto indistinto della penombra, e il suo respiro si tramutò tutt'a un tratto in uno spasimo strozzato.
«Chi va là?» gridò. Enzo si voltò di scatto verso la direzione in cui guardava Maruo e notò una donna che li fissava in fondo al corridoio. Il sangue gli si gelò nelle vene. Non riusciva a vederla bene da quella distanza, ma la reazione di Maruo fu abbastanza da gettarlo in uno stato di panico abbacinante. Xavier arretrò di qualche passo, anch'egli improvvisamente turbato.
«Chi va là? Vattene! Vattene subito!» gridò Maruo con tono più aggressivo. La donna non si mosse di un millimetro. Enzo non riusciva a vederle il viso, ma era certo che i suoi occhi fossero puntati su di loro. Vide Maruo voltarsi verso di lui, le membra completamente irrigidite dal terrore, e fargli cenno di tornare lentamente verso le scale. Avere davanti il suo volto stravolto dall'angoscia gli mozzò il respiro in gola. Maruo aveva perso ogni traccia di sicurezza di sé, scosso da brividi mentre teneva gli occhi fissi sulla donna. I tre uomini arretrarono con estrema cautela, i loro passi tremanti attutiti dalla moquette. La donna non si era ancora mossa ed Enzo sussultò quanto una delle lampade a neon sfarfallò per qualche secondo. Abbassando gli occhi, vide Maruo alzare l'orlo della sua camicia e sfilare qualcosa che era infilato nei pantaloni.
«Sono armato! Non muoverti! Guarda che sono armato!» strillò. Enzo sgranò gli occhi quando notò un oggetto metallico luccicare tra le mani di Maruo. Era un piccolo revolver a canna corta che l'uomo puntò lentamente verso la donna. Le sue braccia tremavano in maniera incontrollabile. Per una decina di secondi tutto fu immobile, immerso in un tesissimo silenzio mentre Maruo e la donna si fissavano a vicenda. Dopodiché, l'uomo si voltò un'altra volta.
«Scappate, ora!» sussurrò.
Enzo e Xavier non se lo fecero ripetere e iniziarono a correre forsennatamente verso le scale. Si fiondarono giù per i gradini di marmo saltandoli a due a due, senza voltarsi indietro. Il cuore martellava nel petto di Enzo e la sua vista si era fatta annebbiata. L'idea che quell'apparizione li stesse seguendo gli scuoteva le membra, portandolo a correre in maniera scoordinata. Solo l'adrenalina gli impedì di non ruzzolare giù per le scale durante la fuga disperata. Presto Enzo raggiunse il piano terra e si precipitò verso la porta d'uscita a tutta velocità. Una volta fuori, tornato sotto l'abbraccio del sole, si piegò sulle ginocchia e ansimò pesantemente. Voltandosi, vide che Maruo e Xavier erano proprio dietro di lui, entrambi con un'espressione stravolta dalla paura. I tre uomini impiegarono qualche secondo a riprendere fiato, ansimando nel silenzio che ammantava la spiaggia, poi Maruo rinfoderò l'arma.
«C'è mancato poco» gracchiò dopo un respiro affannoso.
«Già» gli fece eco Xavier.
Enzo annuì e volse uno sguardo preoccupato al ragazzo, come per accertarsi che stesse bene. Xavier rispose con un cenno della testa.
«Siamo stati fortunati» continuò Maruo.
«Porti sempre una pistola con te?» gli domandò Enzo. Improvvisamente si era reso conto che lo straniero aveva avuto l'arma infilata nei pantaloni per tutto quel tempo.
«Già, non si sa mai» rispose l'altro, ancora piuttosto turbato dall'esperienza.
«Ma chi era quella?»
Maruo non rispose. I tre uomini continuarono ad ansimare per un po', fissando collettivamente il vuoto, poi Enzo tirò su col naso e raddrizzò la schiena.
«Ora che facciamo?» domandò.
Maruo gettò un'occhiata all'orologio che portava al polso.
«Tra poco ci sarebbe il teatro»
«Il teatro?»
«Sì, c'è un antico teatro romano a pochi minuti da qui. Oggi dovrebbero fare una tragedia di Euripide. Ippolito coronato, se non ricordo male. Penso che ci farebbe bene distrarci un po'»
«Avevi detto che questo posto era disabitato»
«Lo è, ma c'è ancora qualcuno che va a teatro» disse Maruo «non temere, non la rivedremo più»
Enzo annuì, ancora piuttosto scosso dall'inspiegabile reazione di Maruo di fronte alla donna del corridoio. La testa gli girava vorticosamente e si sentiva la bocca impastata. Provò a controbattere, a protestare contro l'insensata proposta di quell'uomo armato di pistola, ma Xavier e Maruo si erano già avviati lungo la spiaggia. Enzo li raggiunse barcollando e provò a fermarli, ma a ogni suo passo loro ne facevano due. Presto raggiunsero il teatro: un ampio semicerchio di tufo scavato a gradini verso il basso. Enzo sapeva che a Ostia antica c'era un teatro romano, ma quello era diverso. Sembrava perfettamente conservato ed era incastonato nella sabbia a poche centinaia di metri dal mare. I gradini biancastri riflettevano la luce solare facendolo sembrare un'enorme opale fluttuante tra le dune, una rovina splendente che cozzava con i ciclopici edifici industriali che circondavano la spiaggia. C'era un filo di vento, eppure il mare era immobile come in un quadro impressionista.
Maruo e Xavier si sedettero sugli spalti ed Enzo li raggiunse poco dopo. Era troppo stanco e confuso per parlare, così si limitò a guardarsi intorno. Il motociclista aveva ragione: c'erano altre persone sedute sui gradini del teatro. Una presenza umana avrebbe dovuto rassicurare Enzo, invece la loro stasi raccolta e silenziosa lo innervosì ancora di più. Enzo affondò il viso nelle mani. Le domande che gli galleggiavano in testa erano ingarbugliate in un groviglio inestricabile, mischiate con le insicurezze di fronte al soggiogamento verso Maruo e alla confusione ribollente per il caldo. Nel centro del teatro gli attori avevano già iniziato la tragedia, intenti a declamare le loro battute indossando vesti bianche e maschere dorate. Dietro di loro, le schiere di ciminiere e il gruppo suburbano di resort facevano da scenografia sfrigolando come miraggi in lontananza. Enzo sembrò perdere la cognizione del tempo mentre il guscio intorno a lui si faceva sarcofago e lo intrappolava in un'espressione vuota come quella degli altri spettatori.
La tragedia durò alcune ore. Quando fu finita, tutti si alzarono e applaudirono. Anche Enzo e Xavier applaudirono. Enzo fu lieto di vedere che il sole stava finalmente calando e il cielo si era tinto di un intenso blu estivo, il blu che le antiche civiltà usavano per dipingere la sera.
«Si sta facendo tardi. Meglio se torniamo a casa» disse Xavier, osservando gli spettatori abbandonare il teatro in silenzio.
«Forse è meglio» disse Maruo «io però devo ancora mangiare il mio cornetto»
«Allora ne prendiamo uno e poi andiamo» disse Xavier. Volse uno sguardo interrogativo al padre, chiedendogli implicitamente se gli stava bene, ed Enzo annuì.
I tre uomini tornarono al bar sulla carreggiata costiera, camminando attraverso le distese di erba secca e scavalcando il guard-rail lucido di umidità serale. Il sole era poco sopra l'orizzonte quando raggiunsero il parcheggio, dove la Fiat 132 color ocra e la Vespa color crema erano lì ad aspettarli. Aprirono la porta con paramosche e si poggiarono col gomito al legno del bancone.
«Per me un cornetto Algida» disse Maruo.
«Anche per me» aggiunse Xavier.
«E per me un Winner Taco» disse Enzo.
Il barista portò loro i gelati dopo un lungo sospiro annoiato e afferrò le banconote da cento lire con lentezza nauseante.
«Il ventilatore è lì dietro se volete rinfrescarvi» disse, indicando il medesimo tavolo dove si erano seduti di pomeriggio.
«Mille grazie»
Maruo, Xavier ed Enzo si sedettero al tavolo, godendosi per l'ultima volta il soffio del ventilatore che sembrava risvegliare le loro menti dal torpore della giornata. Maruo divorò il suo gelato in un attimo, poi si mise a fissare Enzo e Xavier con lo stesso sogghigno che aveva in volto quando lo avevano incontrato per la prima volta.
«Bella giornata, eh? È stata una bella giornata tutto sommato» disse con tono soddisfatto. Il suo sorriso non riuscì a dissipare la tensione. Fuori si potevano udire le cicale che avevano iniziato a cantare tra le sterpaglie.
«Posso dare un morso?» domandò, indicando il cornetto di Xavier. Il ragazzo aggrottò la fronte, colto alla sprovvista dalla richiesta. Ne aveva appena mangiato uno intero, a che gli serviva provare un assaggio?
«Dai, solo uno» insistette Maruo. Le sue dita tamburellavano sul tavolo, fremendo di indecifrabile trepidazione. Xavier staccò le labbra dal gelato, piuttosto perplesso, e sembrò titubare per qualche secondo prima di decidersi ad allungare il braccio verso lo straniero. Enzo non disse nulla, ormai completamente disinteressato. Vide Maruo affondare i denti nel cornetto e leccarlo tutto per bene, cospargendolo abbondantemente della sua saliva e chiudendo gli occhi in un'espressione estatica, quasi un orgasmo. Dopo qualche secondo Xavier ritrasse il gelato verso di sé e Maruo si leccò le labbra.
«Mille grazie» disse, poi si rivolse verso Enzo «posso provare anche il tuo?»
Enzo non rispose, limitandosi a spostare più in là lo sgabello e gettare un'occhiataccia verso lo straniero. Non si fidava più di lui, non gli avrebbe permesso di assaggiare un bel niente. Iniziò a leccare il gelato più in fretta e questo sembrò incrinare l'espressione di Maruo.
«Ti prego, fammelo assaggiare» ripeté l'uomo, stavolta con tono più fermo. Si poteva quasi dire che ci fosse una leggera irritazione in quella richiesta. Un lungo silenzio trascorse ed Enzo continuò a fissare in cagnesco lo sconosciuto, il cornetto stretto tra due mani in un atto di possessione morbosa. Le dita di Maruo iniziarono a tambureggiare più nervosamente e ogni traccia di ilarità svanì dal suo volto.
«Fammi dare un morso»
Dal suo tono era evidente che quella sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe chiesto in modo gentile. Enzo non rispose, incurante delle minacce implicite dell'uomo, e non distolse lo sguardo dal suo volto sempre più irritato. Presto la stizza iniziò a trasformarsi in vera e propria rabbia. Il respiro di Maruo si fece più pesante e i morsi di Enzo sempre più rapidi e disperati.
A un tratto, senza alcun preavviso, Maruo si alzò drammaticamente in piedi scalciando via lo sgabello. Si avvicinò in modo minaccioso a Enzo, le mani strette a pugno e il respiro pesante.
«Fammi dare un morso!» ripeté, scandendo ogni parola. Ogni traccia di autocontrollo e spensieratezza era completamente svanita, lasciando spazio solo all'imprevedibilità della furia. Ma anche allora, Enzo non disse niente e continuò a divorare il suo gelato sfidando l'uomo con il suo sguardo inespressivo. Un altro silenzio colmo di tensione seguitò, durante il quale i due uomini si studiarono a fondo. Dopodiché, Maruo sferrò un forte pugno in direzione della testa di Enzo.

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Enzo si sentì stordito dopo il primo pugno. Le sue membra ebbero una forte scossa e la sua mascella sembrò formicolare mentre il sapore ferrigno del sangue gli invadeva le gengive. Riuscì a malapena a socchiudere gli occhi e a scorgere la sagoma di un altro pugno che saettava verso il suo naso prima di perdere conoscenza. La sua vista si fece nera e il suo corpo si paralizzò, troppo confuso per assorbire l'adrenalina che gli scorreva nelle vene. Gli parve di cadere in un sonno profondo interrotto solo dalla costante sensazione di pugni e calci che gli martoriavano il corpo. I suoi nervi, però, erano spenti. Perciò Enzo non sentiva dolore, sapeva solo che il suo fisico stava venendo fatto a pezzi un colpo alla volta. I suoi organi interni si stavano squagliando in una poltiglia informe, poteva sentire anche quello dall'orlo della sua dissociazione. La sua carne era solo un ammasso di lividi che si tumefacevano di secondo in secondo, gonfiandolo come un cadavere in decomposizione. Quando iniziò a sputare sangue, il pestaggio si fermò. Enzo riuscì a sentire diverse voci confabulare sopra di lui prima di perdere definitivamente i sensi.

Enzo si risvegliò in una sala operatoria. Attrezzi tubulari erano stati infilati nel suo corpo, violandolo sotto la pelle, e ogni respiro provocava in lui una scarica di dolore. Sbatté le palpebre più volte e vide il viso accigliato di un dottore chinarsi sopra di lui. Una torcia gli venne puntata sulle pupille, facendolo sussultare. Il medico mugugnò sottovoce.
«Sei fortunato a essere ancora vivo, riesci a sentirmi?»
La sua voce giunse ovattata e indistinta alle orecchie di Enzo. La luce degli apparecchi medici gli stava bruciando la pelle, lo faceva sudare.
«Sì» mugugnò Enzo. Muovere la mascella era incredibilmente difficile, doveva essersi dislocata durante il pestaggio.
«Bene» continuò il dottore con voce aspra «hai subito un forte trauma cranico, ricordi come ti chiami?»
«Enzo... Enzo Corradini» rispose lui dopo un attimo di esitazione. Provò a muovere la punta delle dita ma non lo sentiva. Gli pareva di avere un arto fantasma, delle terminazioni nervose a penzoloni su un abisso. Era una sensazione orribile.
«Ricordi dove sei?» continuò a chiedere il dottore, trafficando con delle siringhe.
Enzo provò a riflettere, ma non ricordava niente. Ricordava solo Xavier e la spiaggia, e lo straniero che li aveva accompagnati per tutto il giorno. Come si chiamava quello straniero? Maruo, ecco come si chiamava.
«No» la sua risposta giunse come un lamento.
«Sei nella casa circondariale di Velletri, nell'infermeria del carcere» rispose il dottore, impassibile «ti hanno conciato davvero male»
Enzo aggrottò la fronte e il medico sembrò accorgersi della confusione che lo aveva travolto, perché sospirò profondamente.
«Il trauma cranico deve averti provocato una sorta di amnesia. Capita spesso che succeda in queste occasioni. Io avevo consigliato alle guardie di darti una cella singola ma loro fanno quello che gli pare»
«Una cella?» gli occhi di Enzo si inumidirono. Evidentemente i lividi intorno agli occhi non avevano messo fuori uso le sue ghiandole lacrimali.
«Una cella, sì» sbottò il dottore «sei imputato giudicabile in attesa di processo. La prossima udienza dovrebbe essere a Settembre ma credo proprio che la rinvieranno viste le tue attuali condizioni»
Enzo cercò di articolare delle parole, ma la sua gola risuonava a vuoto. Singhiozzò per alcuni istanti, annaspando incredulo alla notizia, finché non riuscì a sputare una parola tra il sangue e il catarro.
«Perché?»
«Perché, mi chiedi? Non ricordi nemmeno questo?» il dottore smise di trafficare con le siringhe e assunse un'espressione livida.
«Sei sotto processo perché tuo figlio si è suicidato gettandosi in una piazza piena di persone. Aveva contratto l'AIDS e non ha retto la scoperta, il suo corpo aveva iniziato a dimostrarne i sintomi. Quando la polizia ha analizzato il sangue dei suoi amici e familiari, solo tu eri positivo. Non ci hanno impiegato molto a scoprire quello che gli facevi. Anche se tuo figlio non ha lasciato nulla per iscritto, le prove sono schiaccianti. I telegiornali non parlano d'altro»
I telegiornali non parlano d'altro.
Il dottore sospirò profondamente prima di riempire una delle siringhe di liquido giallognolo.
«Non c'è da stupirsi se i tuoi compagni di cella ti hanno fatto questo. Non prendono molto bene chi fa certe cose ai propri figli. Specie se è coinvolto l'AIDS...»
«L'AIDS?»
Enzo impiegò qualche secondo a elaborare ciò che gli aveva detto il medico. Non era possibile. Un'altra scossa di panico lo costrinse a digrignare i denti e una strana, violenta incredulità s'impadronì improvvisamente del suo corpo, portandolo a divincolarsi tra i lividi enfiati in una danza selvaggia e disperata. Enzo iniziò ad agitarsi, accelerando i respiri irregolari e sentendo le lacrime che sgorgavano fino a ostruirgli la vista.
«No...» mormorò con voce rauca e disumana. Ciò che restava delle sue viscere si torse in una morsa d'acciaio mentre i ricordi sfocati tornavano a galla.
«No, io non ho fatto nulla. È stato l'uomo della spiaggia. È stato l'uomo della spiaggia a passarci il virus. C'era un'epidemia, un'epidemia terribile. Non dovevo fidarmi...»
Ha contribuito a diffondere il morbo, capisci?
«Questo è ciò su cui punta la sua difesa, ma non c'è nessuna prova e non c'è bisogno di raccontarlo anche a me. Io sono solo il medico del carcere» lo interruppe il dottore. Improvvisamente il cellulare gli squillò in tasca ed egli fece un cenno a Enzo prima di allontanarsi per rispondere.
«Sì?» disse. Enzo provò a ruotare la testa per guardarlo, ma muovere ogni singolo muscolo era un calvario. Lo stordimento per la violenza subita era ormai passato e i nervi si erano riattivati per immergerlo in un'acre culla di sofferenza. Eccolo, il guscio si era finalmente solidificato e aveva calcificato fin dentro le vene, lasciandolo in balia del latrato chimico delle terminazioni nervose.
«Va bene, possiamo fare un'emorragia interna... sì... già» bofonchiò il dottore al telefono.
«L'uomo della spiaggia...» riuscì a singhiozzare ancora una volta Enzo, le sue parole come un sussulto gutturale.
«Capisco, sì»
«L'uomo della spiaggia...»
«Probabilmente è una buona idea»
Il dottore chiuse la telefonata e trasse un sospiro profondo. Afferrò una delle tante siringhe posate sul vassoio d'argento, senza curarsi di indossare i guanti, e si avvicinò nuovamente a Enzo. L'uomo disteso sul lettino cercò di protestare, agitando i muscoli del corpo che sembravano provocargli meno dolore, ma le membra tornarono a pietrificarsi dal terrore quando la mano del medico gli sfiorò la pelle.
«Ora ti farò un'iniezione, così non sentirai nulla» disse il medico. Per un attimo il suo volto indistinto si deformò nello stesso sogghigno di Maruo, o almeno così parve a Enzo.
«No...» l'eco suonò a vuoto dentro il suo corpo e dentro la stanza che iniziava a scurirsi sempre di più.
«Fidati di me, non sentirai più niente»
Fidati di me.
«No... È stato... è stato l'uomo della spiaggia. Non gettava l'ombra sulla sabbia» Enzo sussultò quando sentì l'ago perforargli le pelle e bucare la sua vena infetta.
«Devi avere fiducia»
Fiducia.
«Mi dispiace, Xavier. Mi dispiace per tutto»
Silenzio.

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