Cirque de la Décadence - Il Paesaggista
Era il diciotto Febbraio 1949 quando io e mio marito Giuseppe ci recammo alla mostra d'arte del museo di Vicenza. Giuseppe non era mai stato un particolare amante dell'arte, almeno non al punto da sborsare più di millecinquecento lire per qualche ritrattista ambulante, ma era un uomo colto e raffinato, capace di sostare per più di qualche minuto in contemplazione dei dipinti che gl'interessavano. Amava le tele neoclassiche e romantiche, o, come le descriveva lui, "le tempeste di colore e le tempeste di natiche", con una forte predilezione per Ingres, Friedrich e le ingarbugliate sculture del Canova. La mostra di quel giorno, ben pubblicizzata dai colleghi vicentini di mio marito, era incentrata sulle pompose tele di Francesco Hayez, ma girava la voce che fossero esposti dei disegni del Canova, e Marietto, un grande amico di famiglia, era stato tanto cordiale da offrirsi di accompagnarci sulla sua auto fino a Vicenza. Naturalmente accettammo il generoso invito e ci recammo a Vicenza con infinita serenità, totalmente ignari di ciò che ci aspettava. Una volta giunti alla mostra Marietto, molto più ferrato in storia dell'arte di mio marito, incominciò a decantarci le meraviglie dei quadri di Hayez, descrivendone la natura e l'immancabile retroscena storico con la perizia che solo un esteta come lui poteva dimostrare. Noi ascoltammo sorridenti, affascinati dai muti respiri di quelle tele e dall'evangelica drammaticità delle pose di quei personaggi ormai appartenenti ad un'epoca ammantata da un'armonia remota, e presto ci rendemmo conto che il tempo scorreva più in fretta del previsto. Ormai sazi di Hayez, ci spostammo quindi verso la fine della mostra, dov'erano esposti i quadri di second'ordine, e fu lì che mio marito trovo quel dipinto. Quel dipinto che ora maledico giorno e notte. Quel dipinto che trasformò la mia benevolenza verso l'arte nel più profondo odio, e che trasfigurò il mio innocente marito in un essere il cui ricordo ancora mi sprigiona tempeste di brividi nel cranio. Quel dipinto che ora brucia tra le fiamme dell'inferno insieme al suo autore, ed insieme entrambi si lacerano la gola strillando e ridendo per quanto è divertente l'antica bugia del perdono divino.
Non diedi molto peso a Giuseppe quando si piantò davanti a quel quadro, e gli sorrisi amorevolmente. Conoscevo quello sguardo. Era assorto nella contemplazione artistica del neofita buongustaio, stregato dalle policrome pennellate come lo stregavano i dipinti del suo beneamato Friedrich, e non c'era verso di ridestarlo finché l'esplorazione non fosse terminata. Ma quella volta fu diverso. Il suo sguardo non era solo assorto, ma infinitamente immerso nel paesaggio di quel terribile quadro, cieco ad ogni stimolo al di fuori delle rifiniture lignee della cornice. Per nulla inquieta, gli sfiorai il braccio impietrito e incominciai anch'io ad osservare il quadro. Era un ampio scorcio paesaggistico dalle tinte romantiche, e rappresentava una fattoria in rovina immersa in una bizzarra landa di terreno fangoso, completamente attorniata da campi da cui spuntavano come ortaggi braccia, gambe e altre membra umane, come coltivati da qualche folle contadino. Il cielo era giallastro, carico di quella che sembrava polvere fluttuante, ed ogni pennellata impressa sulla tela sembrava essere stata scagliata con violenza. Una vista molto suggestiva, probabilmente ispirata da qualche stravagante romanzo di fantasia, e piuttosto surreale nelle sue pennellate pregne di furia, ma senza dubbio incredibilmente affascinante.
«Qual è il nome dell'artista?» domandò improvvisamente Giuseppe, voltandosi verso una delle guardie della mostra. L'uomo fece qualche passo in avanti e sorrise sotto un paio di baffi untuosi.
«È scritto sulla targhetta» rispose, indicando la placca dorata accanto al dipinto «L'artista si chiama Ettore P. Vilmar. Surrealista dalle origini spagnole. È morto in giovinezza qualche mese fa a Brescia. Il titolo di quest'opera è "Los campos de Corona"»
«Ottimo. E quanto mi costerebbe se volessi acquistarlo?»
Strabuzzai subito gli occhi, stupefatta da quell'interruzione, e subito incominciai a ridere senza staccare il braccio dal fianco di mio marito.
«Giuseppe! Suvvia!» gli diedi uno strattone amichevole, divertita dal suo intervento, ma lui rimase immobile come una roccia. Doveva piacergli davvero molto quel quadro!
La guardia sorrise imbarazzata e incrociò le mani dietro la schiena «Questa è una mostra d'arte, non un'asta, signore. Non può acquistare quel dipinto. Mi dispiace»
«Lo perdoni. Sta solo scherzando» lo rassicurai io, le rughe ancora tese per l'ilarità «È un gran giocherellone. Non abbiamo mai comprato nessun quadro in realtà...»
«Capisco. Posso allora chiedere a chi appartiene?» m'interruppe Giuseppe, inspiegabilmente impassibile. Il comportamente di marito era un po' troppo bizzarro rispetto alla norma; il suo tono era serissimo, quasi solenne, senza la minima ombra di umorismo, e il mio sorriso sbiadì in fretta.
«Appartiene a un collezionista privato» rispose la guardia, perplessa dall'insistenza di Giuseppe e dal suo sguardo imperturbabile «Se vuole più informazioni può chiedere al dottor Gervasi, che si occupa delle transazioni. Lo trova al piano di sopra, ma sta assistendo a un restauro, quindi la prego di aspettare che scenda»
«Scherzi, Giuseppe? Non vorrai davvero acquistare questo dipinto!» squittii io. La stretta affettuosa si era appena trasformata in un'incerta morsa d'affetto, eppure Giuseppe non mostrava segni di dolore o turbamento di alcun tipo.
«Non ho mai desiderato qualcosa così tanto in tutta la mia vita» disse con tono quasi malinconico «Ho bisogno di comprarlo. Non userò i soldi del fondo familiare, puoi star tranquilla. Ma ho davvero bisogno di quel dipinto»
Allentai la presa, improvvisamente sbalordita. La disarmante sincerità con cui quei vocaboli erano usciti dalla sua bocca non lasciava spazio a dubbi. Era vero: non aveva mai desiderato qualcosa con un ardore tanto intenso fino ad ora. E anch'io rientravo in quella categoria. Anch'io ero inesorabilmente stata detronata nella classifica da quel quadro surreale, e quasi annaspai nel timore che improvvisamente provavo per Giuseppe.
«Se lo desideri così tanto compralo pure. A me non dispiace affatto» risposi io, infinitamente imbarazzata. Egli mi ringraziò con un affettuoso cenno del capo, dopodiché si sedette su una delle poltrone di raso rosso ad aspettare il dottor Gervasi. La guardia ci salutò togliendosi il berretto e se ne andò, lasciandomi piantata in mezzo al corridoio con le gambe vacillanti. Giuseppe stava ancora fissando il dipinto con occhi spiritati, e io rabbrividii mentre prendevo posto accanto a lui. Quella giornata aveva improvvisamente assunto delle tinte inspiegabilmente cupe e preoccupanti. Non avevo mai visto un'espressione capace di condensare così tanta bramosia e ossessione in uno sguardo, e mai mi sarei aspettata di vederla sul placido volto di mio marito. Il mio timore, però, non riuscì ad offuscare l'amore che provavo per l'uomo che avevo sposato, e quindi restai lì con lui ad aspettare in silenzio, totalmente immersa nel groviglio di confusi pensieri che tempestava dentro di me.
Il dottor Gervasi scese dopo pochi minuti, e poco ricordo di ciò che accadde in seguito, annebbiata com'ero dallo strano comportamento di Giuseppe. Ciò che so per certo è che egli riuscì in qualche modo a convincere il dottore, e, dopo lo strappo di un assegno e una vacillante stretta di mano, ci allontanammo dalla mostra. Giuseppe sembrava soddisfatto dell'acquisto, e ciò mi allietò molto, eppure continuò a mantenere un atteggiamento estremamente turbato e pensieroso finché non giungemmo presso l'auto di Marietto, che ci aspettava impaziente da parecchio tempo. Una volta a casa Giuseppe sembrò rasserenarsi un poco, e lo vidi ridere mentre giocava a carte contro nostro figlio Samuele, ma pareva estremamente distratto e meditabondo. Si dimenticò addirittura di recitare la preghiera prima di cena, cosa che non era mai accaduta in dodici anni di matrimonio, e ciò mi spinse a tenerlo d'occhio ogniqualvolta potevo. In qualche modo sapevo che era colpa di quel dipinto, e che dentro la mente di Giuseppe il pensiero di quelle membra coltivate a maggese aveva iniziato a fagocitargli la ragione e la memoria, eppure non feci nulla per impedire che il quadro venisse consegnato. L'amore per mio marito e il ricordo del suo sguardo ricolmo di infinita bramosia mi dissuasero, e ancora adesso mi maledico per non essere stata una moglie più forte. Il dipinto fu consegnato a casa nostra dopo una settimana, e, dopo averlo appeso in salotto, Giuseppe incominciò a studiarne tutta la superficie. Restò davanti a quel quadro per ore, immerso in un'estasi che solo lui poteva comprendere, e rispose con muti cenni del capo alle mie domande cariche di rimorso e preoccupazione. Ricordo di aver pianto quella notte, aggrappata al suo corpo seminudo sotto le coperte di lana, e ricordo che egli non reagì minimamente, come se la sua mente si fosse immunizzata dal mio amore e dal mio dolore. Nei giorni seguenti Giuseppe acquistò un paio di autobiografie all'edicola di fianco alla villa. Non volle dirmi di chi fossero, ma io lo sapevo bene. Avevo intravisto il titolo durante un suo momento di disattenzione, e avevo riconosciuto la violenza di quelle pennellate. Si trattava di Ettore P. Vilmar. Fu quello il momento in cui raccolsi la paura e il coraggio che avevo tumulato nel profondo del cuore e sfogai tutto contro di lui. Da quando aveva visto quel quadro non era più lo stesso di prima. Non era più l'uomo che avevo sposato, e terribili lampi di terrore mi accecavano ogniqualvolta il suo sguardo traboccante di bramosia si posava sulla mia livida figura. Egli strinse il maledetto libro tra le braccia, allontanandolo da me come un padre che protegge un infante nato da poche ore, e rispose bruscamente che mi preoccupavo troppo. Con occhiate glaciali e furiose mi rimproverò a lungo, ricordandomi come lui fosse sempre stato al mio fianco, come si rompesse le ossa lavorando giorno e notte per il bene della famiglia e come io fossi debole e stupida nel crederlo ammattito semplicemente perché era germogliato in lui un interesse per la pittura. Il mio amore per lui e la mia debolezza mi spinsero ad accogliere quei rimprovermi e a scusarmi. Era vero, avevo sopravvalutato la cosa. Era solo un dipinto, dopotutto. Ma c'era qualcosa che ancora mi turbava nel profondo dell'inconscio. Qualcosa nei suoi occhi e nel suo tono di voce, improvvisamente più cupo e tonante, e mentre lo abbracciavo percepii le sue guance raggrinzirsi fredde come quelle di un cadavere. Per tutto il resto della giornata Giuseppe rimase a studiare quelle autobiografie, e io non mi azzardai ad interromperlo, affetta da una timorosa riverenza che ormai da giorni mi impediva di sorridere di nuovo. I miei figli mi raccontarono che c'era qualcosa che non andava tra me e papà, ma gli dissi che era tutto a posto. Avrei dovuto ascoltarli.
La settimana seguente Giuseppe si licenziò da lavoro e acquistò delle tele e dei colori ad olio. Furibonda per quell'atto sconsiderato m'imbarcai con lui nella lite più folle e allucinata della mia vita, ma ebbi di nuovo la peggio. Egli arrivò a minacciarmi di divorzio, lasciandomi fradicia di lacrime sul letto dove avevamo concepito i nostri figli, e mi raccomandò di trovare un lavoro ora che lui si era dedicato alla pittura. Non ne potevo più. Ero improvvisamente mortificata e soggiogata dalle sue assurde manie pittoriche, ma non mi rassegnai mai a quella terrificante metamorfosi. Trovai un impiego come segretaria e mi adoperai con tutte le forze per mantenere il vacillante equilibrio nella famiglia. Non guardavo più Giuseppe negli occhi, né gli rivolgevo la parola, e presi l'abitudine di dormire sul divano, lontano dalla creatura che era diventato mio marito. I miei figli assorbirono la malsana tensione che improvvisamente era calata dentro casa nostra, e incominciarono a cercare uno sfogo nel fumo e nelle male compagnie, ma a mio marito non importava. Ora gl'importava solo di dipingere, e nel giro di una settimana concluse il suo primo quadro. Rappresentava una desolata catena montuosa vista dall'alto le cui vette erano disposte in cerchi concentrici, il tutto illuminato da una luce rossastra e ferrigna, e si potevano scorgere delle formiche dalla testa umana trasportare rocce in lunghe file disordinate lungo le pendici dei monti. Giuseppe non aveva mai imparato a dipingere, eppure quell'odioso e terrificante quadro era stato realizzato con eccezionale maestria, e le violente pennellate di colore sbiadito mimavano alla perfezione lo stile di Ettore P. Vilmar. Non avrei mai pensato che Giuseppe potesse imparare a dipingere in una settimana, per giunta studiando un singolo quadro appeso in salotto, eppure vi riuscì, e da quel momento decisi che mi sarei tenuta il più possibile lontana da lui. Insoddisfatto del suo primo quadro Giuseppe continuò a dipingere, restando chiuso nello scantinato talvolta per giorni interi, e io non diedi mai alcun giudizio sui suoi lavori, ignorandolo così come lui ignorava me. In due settimane dipinse un'altra tela, simile alla precedente ma raffigurante una spiaggia di cenere e lapilli, sempre impiastrata con quelle frustrate e violentissime pennellate plagiate da Vilmar. Dopo aver completato una decina di tele nell'arco di due mesi, quindi, Giuseppe uscì di casa per la prima volta da tempo immemorabile.
«Queste sono le nuove tele di Ettore P. Vilmar» si presentò così ai responsabili della nuova mostra d'arte di Bologna «E non chiederò una lira se le esporrete insieme ai miei lavori precedenti»
Gli uomini d'affari in giacca e cravatta si dimostrarono subito interessati. Vilmar era morto da molti mesi ormai, e l'improvviso ritrovamento di alcune tele pareva un'opportunità davvero squisita. In più quei nuovi dipinti erano molto più vividi e dettagliati rispetto ai lavori precedenti del pittore, e la violenza infusa nelle pennellate sembrava davvero un genuino riversarsi di sadiche emozioni sulla tela. La mostra ebbe un grande successo, ma Giuseppe sembrò frustrato. Sebbene la provenienza delle tele fosse indiscutibilmente autentica, dato che nessun'altra mano avrebbe potuto dipingere con una forza emotiva paragonabile a quella di Vilmar, nessuno credeva a mio marito quando sosteneva di averle dipinte lui. Diceva che lo spirito di Vilmar lo aveva posseduto, che la sua volontà si era instaurata nella mente di quel sarcofago di carne come un simbiote tornato dal mondo dei morti. Incominciò ad assillare anche me con questa storia, raccontandomi quanto la sua arte fosse male interpretata dai mortali che pullullavano in questa società mentre schiaffava il pennello sulla tela con gli occhi velati di rabbia.
«Nessuno capisce. Credono che queste tele siano come delle cartoline. Che siano merce da scambiare per denaro e da stampare sulle copertine degli abbecedari. Ma Vilmar ha visto l'inferno e ha scelto me per dipingerlo. Questi paesaggi rappresentano l'Aldilà...»
Quando quella frase gli fuoriuscì dalla bocca mi si bloccò il respiro per il terrore. Anche questa volta il suo tono furibondo esprimeva la più pura e terrificante sincerità senza il minimo cenno di esitazione. Riguardai i suoi paesaggi, e sentii qualcosa nel profondo del mio petto gorgogliare, come se i miei peccati stessero scalciando nella sacca in cui erano contenuti, improvvisamente chiamati per nome. Arretrai quindi, sbigottita da quell'improvvisa sensazione di terrore cosmico risvegliatasi nel mio animo, e mi domandai come avevo fatto a non notarlo prima. La pesantezza che avvertivo nell'osservare il suo sacrale gesto di pennellare veniva dagli abissi profondi e orrorifici della condizione umana. Aveva ragione. Quelle tele provenivano dall'Aldilà. Subito incominciai a piangere, disperata per la sorte ch'era toccata al mio innocente marito, e raccontai tutto ai nostri figli, quasi soffocandomi inghiottendo le lacrime. Insieme decidemmo di parlare con l'unico uomo che avrebbe potuto consigliarci qualcosa: l'esorcista della diocesi Paolo Benvoglio. Don Paolo ascoltò la mia storia con attenzione, porgendomi un fazzoletto ogni volta che il dolore prendeva il sopravvento, e mi chiese di visitare il paziente di persona. Doveva accettarsi che si trattasse di una vera e propria possessione, e non di comune follia o nevrosi da stress lavorativo. Lieta di aver trovato un animo gentile e disposto ad aiutarmi, condussi titubante l'esorcista da mio marito, e trovai Giuseppe assorto nell'atto di dipingere un promiscuo lago di pallidi corpi nudi.
«Chi sei?» domandò don Paolo, stringendo il crocifisso e la bibbia con mani nodose.
«Non mi conosci? Sono Ettore P. Vilmar» rispose Giuseppe con voce recondita.
«Non parlo con te, demone!» ribatté il prete, turbato dal gelo che improvvisamente aveva invaso la stanza «Parlo con Giuseppe Verani. L'uomo innocente in cui ti sei permesso di entrare. So che ci sei, Giuseppe. Rispondimi! Posso liberarti da questa prigione»
«Prigione!» esclamò improvvisamente l'uomo, scaraventando via lo sgabello «Non è una condizione di prigionia quella in cui ora mi trovo. Semmai è una condizione di gloria infinita!»
Arretrai spaventata, quasi inciampando sulle assi storte del solaio, e impallidii tutta.
«Rispondimi, Giuseppe, se vuoi che ti liberi!»
«Non capisci, prete?» incalzò la demoniaca figura, che non conservava più alcun tratto del viso gentile di mio marito «Verani non vuole liberarsi di me. Io sono Vilmar, e ho dato un senso alla sua finita esistenza, donandogli l'arte suprema di dipingere ciò che l'umanità non può contemplare. Egli non vuole che io lo abbandoni per tornare alla sua misera vita da mediocre padre di famiglia soltanto perché un'inutile sgualdrina si consuma le guance per le lacrime. Ora la mia vita ha un altissimo scopo. Sono finalmente stato consacrato per la memoria eterna. Quindi vattene, prete, e vattene anche tu, femmina. Io non ti conosco»
Detto ciò Giuseppe tornò a sedersi sullo sgabello e riprese a dipingere. Non ricordo di aver mai pianto così violentemente mentre riaccompagnavo il prete alla porta d'ingresso, straziata dal dolore che quel parassita mi aveva iniettato in ogni capillare del corpo. L'esorcista mi disse che non era sicuro se si trattasse di possessione, e io lo liquidai disperata. Chiamai subito i miei figli mentre preparavo le valigie, abbandonata alle miserie e completamente lacerata dal dolore, e insieme lasciammo quella villa maledetta senza degnarci di salutare l'uomo che un tempo era mio marito. Chiedemmo quindi aiuto a Graziella, una mia vecchia amica, che ci aiutò a trovare una nuova sistemazione in Svizzera. Qui ho potuto crescere i miei figli in solitudine, lontana dal demoniaco pericolo che aveva infettato il mio sposo con le tenebre dell'Inferno, ma di notte ancora non riesco a dormire ripensando al viscerale terrore che quelle tele risvegliano in me. Non riesco a trovare pace sapendo che, in fondo, dopo tutte quelle follie, mio marito non era davvero posseduto...
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