Requiem
(N.B.
Suggerisco la lettura dello spazio autrice prima di iniziare con la storia)
Nel silenzio della notte, gli unici suoni udibili erano un gioviale e sommesso canticchiare ed il sottile ronzio degli strumenti atti a rendere la zona sufficientemente illuminata per poter lavorare -luci, aspiratore, seghetto per ossa-.
"Sei un mostro."
La voce continuava ad intonare sommariamente le sue note, imperterrita, e ben presto a quei rumori si unì anche il rapido e leggero gocciolare di un liquido per terra.
Drip, drip, drip, drip.
"Fai schifo."
Drip, drip, drip, drip.
"Assassino."
Una volta terminato, posò il seghetto sul carrellino accanto al tavolo d'innanzi a lui. Il gocciolare tanto insistente era diventato ben più rapido, frenetico, ma il ragazzo parve non farci caso.
"Se morissi, il mondo sarebbe un posto migliore, e non lo credi solo tu."
Questa frase gli strappò una secca risatina un po' isterica, che quasi sovrastò il suono di plastica smossa, quella di alcuni sacchetti dei rifiuti. Iniziò a riporre con estrema cura il suo operato all'interno di questi, avvolgendo più volte ciascuna parte, assicurando ogni sacchetto con del nastro da pacchi.
"Animale."
Un piccolo tic nervoso sfuggì al suo controllo. Era uno dei termini che più disprezzava, ma si ripeté di non prestare attenzione ai commenti che continuava ad udire. Riprese a canticchiare ed iniziò a pulire l'ambiente.
"Mostro, mostro, mostro."
Ripose il seghetto, rimosse il telo dal lettino, prese i prodotti per la sanitizzazione, e via di olio di gomito.
Fu mentre si trovava in ginocchio a terra, con uno straccio impregnato del prodotto trovato nello stanzino subito fuori dalla sala operatoria che superò il limite.
"I tuoi genitori hanno ragione."
Si alzò di scatto, con tanto impeto da sbattere il capo contro la parte inferiore della brandina. Gemette leggermente di dolore, e si portò una mano al capo mentre si rialzava, decisamente adirato.
<Quei due coglioni non sanno un cazzo.> sibilò, decisamente aggressivo.
"Ah, sì che sanno. Sanno tutto, sanno che tipo di animale tu sia."
<Zitta. Sta' zitta.>
Gettò lo strofinaccio nel secchio, generando un suono umido, fastidioso, e tingendo rapidamente l'acqua lì presente di un tenue rosso, e fece vagare lo sguardo attorno a sé, rapidamente, come per ispezionare l'ambiente circostante.
La sala operatoria risultava pulita alla perfezione, immacolata; gli aloni lasciati dai prodotti per pulire sarebbero evaporati nel giro di pochi minuti, ben prima dell'orario in cui sarebbe stata nuovamente utilizzata. Una rapida occhiata all'orologio appeso sulla parete gli fece realizzare di avere poco più di tre ore e mezza per poter tornare a casa, lavarsi, vestirsi, mangiare qualcosa e recarsi allo studio.
Poco male, aveva fatto ben di peggio in molto meno tempo.
Iniziò a spingere la barella lungo i corridoi dell'ospedale fino a raggiungere il montacarichi. La zona a quell'ora era prevedibilmente deserta, quindi nessuno gli impedì di usufruire del mezzo per scendere nei sotterranei. Poi, dritto, quarta a destra, sinistra, sinistra, ed in fondo al corridoio, eccola: la porta antincendio gialla, sporca e rovinata dal tempo, dietro cui si celava il forno crematorio dell'ospedale. Era ancora acceso, visto che l'ultimo ciclo di distruzione del materiale organico a rischio sanitario era iniziato da poco, e fu quindi costretto ad indossare degli indumenti protettivi prima di aprire il pertugio atto a controllare lo stato del materiale all'interno del forno.
Con lentezza e precisione, fece scivolare nella stessa i vari sacchetti, uno alla volta, ed un vago sorrisetto fiorì sulle sue labbra nel notare come la plastica iniziasse a fondere prima ancora di toccare il ripiano del forno. Una volta finito, si liberò anche dei guanti chirurgici indossati fino a quel momento, e mise ogni oggetto utilizzato al suo posto, meticoloso.
Ogni traccia del suo operato sarebbe stata ridotta in cenere prima ancora dell'inizio ufficiale della sua giornata.
~•~•~•~
La sveglia in quel posto era sempre stata un'esperienza... Interessante.
Quel giorno, però, nessuno gridò in modo disumano, né si sentì il suono di arti sbattere contro le inferriate delle celle. Al contrario, nell'aria vigeva una particolare quiete decisamente fuori luogo, lì.
Provò ad alzarsi, ma un dolore lancinante lo costrinse a desistere; la fitta partiva dal torace, di lato, e si espandeva verso il centro ad ogni respiro che prendeva. La testa gli pulsava, e per coronare il tutto aveva la bocca piena di un acre sapore metallico facilmente riconducibile al sangue.
Prese un respiro, per mantenere la calma e rallentare il battito cardiaco, poi iniziò ciò che nell'ultimo periodo era diventata una routine: fece passare lentamente una mano sul dorso di quella opposta, applicando una leggera pressione intermittente, per poi risalire lungo l'avambraccio, il braccio, la spalla, e ripetere il gesto con l'altra mano sull'altro arto; poi, passò al torace, e per poco non gli sfuggì un verso di dolore. Non demorse, continuando fino a terminare il costato, e passò poi alle gambe. Per fortuna non rilevò nessun osso rotto, ma aveva sicuramente almeno due costole incrinate.
Poco male.
Si spinse finalmente in piedi ed usò il piccolo bagno presente nella sua cella nel modo più celere e meticoloso possibile; nonostante il tempo già trascorso tra quelle mura, non poté fare a meno di provare ancora un brivido di umiliazione nel non poter godere di quel minimo di privacy riservata a qualsiasi altro essere umano, compresi i carcerati per altre imputazioni. Decadi di pratica furono perfettamente sufficienti a non mostrare alcun segno di quell'emozione, inducendolo anzi a ridacchiare vagamente nel notare una guardia guardarlo mentre si lavava le mani al piccolo lavandino presente. Gli sorrise, appena, come per salutarlo, e l'agente schioccò la lingua contro il palato con palese disgusto. Mormorò qualcosa in un'altra lingua, portoghese o messicano a giudicare dalla sua nazionalità, ma il prigioniero non vi prestò alcuna attenzione.
Provò a risvegliare i muscoli intirizziti dal prolungato inutilizzo di quel periodo, ma riuscì a fare ben poco col dolore che gli tormentava il torace; optò quindi per tornare a sedersi sul letto, a gambe incrociate, con la schiena poggiata ben dritta contro la parete della sua cella.
Prese l'unico libro che gli era stato concesso di tenere, ed accarezzò la copertina con la punta di due dita -come per imprimere ulteriormente a mente le imperfezioni sulla pelle vecchia e rovinata dall'incuria dei precedenti possessori- prima di aprire il volume ed arrivare alla pagina di suo interesse, la 148.
Mentre era immerso tra le righe -noiose, considerando che era almeno la ventiduesima volta che le rileggeva, ma non aveva altro modo di passare il tempo, lì dentro-, una voce proveniente dal lungo corridoio in cui era situata la sua cella lo riportò alla cruda realtà.
<Bastardi! Bastardi! Siete dei bastardi figli di puttana! Non potete fare così! Non potete!>
Si sentì gridare, alcune parole a stento comprensibili, sovrastate da numerosi tonfi generati da una sorta di colluttazione.
La consapevolezza che la vittima fosse impossibilitata a difendersi fece affiorare un sorrisetto sul suo viso, e nell'udire quei suoni protrarsi nel tempo decise di chiudere il libro e scendere dal letto, avvicinandosi alle sbarre della propria cella per poter curiosare fuori.
Al centro del corridoio, tre guardie stavano accerchiando colui che pareva essere un nuovo arrivato, a giudicare dai vestiti ancora troppo puliti per essere lì da molto, dall'abbronzatura sulla pelle e, soprattutto, dall'impudenza compiuta lamentandosi.
Socchiuse un occhio nel momento in cui il prigioniero subì un meschino calcio subito sotto la rotula, che lo costrinse a terra, la gamba stretta al corpo per cercare in qualche modo di alleviare il dolore, ma la risatina che lo colse subito dopo non aveva alcunché di sano o nervoso. Era semplicemente divertita.
<Se volete fargli male sul serio, dovreste colpire il lato del ginocchio.> Intervenne, del tutto inopportuno ed indesiderato, ma poco gli importava. <Ci sarebbe una buona probabilità di lesionare l'articolazione, rompendo magari anche uno dei crociati!>
<Ed eccolo che riprende.>
Intervenne un'altra voce maschile, proveniente da una cella posta sul muro di fronte al suo, poco più sulla destra -e più vicino alla zona del pestaggio-.
<Potresti anche evitare di incitarli, dottore.>
"Ed eccolo che ricomincia. Non è capace di stare zitto, quello? Ma ha ragione. Oh, se ha ragione. Dovresti proprio stare zitto, cucirti quella bocca."
Anziché lasciarsi fuorviare da quanto udito, si limitò a rivolgere un sorriso decisamente divertito al suo interlocutore, soffermandosi per qualche secondo con lo sguardo sui suoi lunghi capelli rossi, e su quel poco che si intravedeva di un suo braccio -dalla pelle tatuata di nero-, questo poggiato comodamente contro le sbarre. Ed ignorò volontariamente l'accezione di scherno di cui era intriso l'appellativo usato dall'altro carcerato.
Prima ancora che potesse replicare, però, venne interrotto dal fastidioso suono di metallo che sbatte contro dell'altro metallo: il nuovo arrivato era stato gettato in una cella, la porta sbattuta dietro di lui. Al che, il dottore alzò lo sguardo al cielo per qualche secondo, accompagnando il gesto da un profondo sospiro palesemente annoiato.
<Non sapete gestire a dovere il divertimento. E nemmeno infliggere dolore. Se solo mi ascoltaste, una di queste volte, sentireste quanto cazzo si può far urlare qualcuno prima che gli si lesionino permanentemente le corde vocali!> esclamò, infastidito dall'apparente incompetenza di quelle guardie.
<Ah, quello l'ho sperimentato. Non è niente male, posso confermarlo, ma ho sempre preferito la tranquillità delle fasi successive.> fu il semplice e spassionato commento del criminale dai capelli rossi -"Jason Meyer, aka Jason the Toymaker", come riportato sul cartellino"-, che pareva prevalentemente disinteressato a quanto avveniva in quel corridoio; come biasimarlo? La parte più divertente era appena terminata.
Di nuovo, però, il discorso venne interrotto dall'intervento dei poliziotti.
<Chiudete quella fogna, brutti bastardi!>
La sequela di insulti sputati dall'uomo proseguì ancora per qualche secondo, ma il Dottore aveva già smesso di prestare attenzione. Tornò al suo libro, e si sedette nuovamente sul materasso -soffocando un piccolo mugolio dovuto al dolore al costato- prima di aprirlo nuovamente e recuperare la pagina di suo interesse. Si prospettava come una lunga giornata, l'ennesima di molte.
Troppe.
Aveva iniziato a sentirsi insofferente poco dopo il suo arrivo, ma scendere a patti con l'idea di non avere nulla da fare per impiegare il suo tempo era stato decisamente più difficoltoso.
D'altro canto, gli eventi cui lo portavano erano spesso sufficienti ad intrattenerlo, anche se brevemente, così come lo erano le poche lettere di minacce che gli venivano spedite dalla popolazione di quasi tutto lo Stato; alcune erano esilaranti, soprattutto quelle dei genitori o dei parenti dei pazienti con cui si era... Intrattenuto, per così dire.
Qualche volta aveva anche avuto l'audacia di rispondere. Con un vago brivido, ignorò i ricordi dei massacranti pestaggi di cui era stato vittima subito dopo; era stato proprio in una di quelle occasioni che aveva perso qualche dente. Quattro, se non ricordava male, di cui due scheggiati. Ed uno in un'altra occasione. Passò la lingua contro la parte interna di entrambe le arcate, enormemente sollevato nel non percepire alcuna assenza.
L'intervento ricostruttivo cui era stato sottoposto qualche anno dopo era stato provvidenziale -così come lo erano ovviamente stati i contatti che aveva, unico motivo dietro a quell'infrazione al sistema carcerario-. Certo, il periodo post-operatorio privo della benché minima anestesia lo consiglierebbe solo al suo peggior nemico, ai figli di puttana che l'avevano arrestato ed al coglione in fondo al corridoio. Jeff, gli pareva.
Lui.
Non faceva altro che far innervosire le guardie senza alcun riguardo verso il fatto che, così facendo, si dava la cazzo di zappa sui piedi da solo; certo, era esilarante vederlo prendere qualche calcio ogni tanto, questo è innegabile.
In ogni caso, dopo interminabili minuti trascorsi a riflettere, tornò finalmente alla realtà. Alla sua tediosa, poco entusiasmante realtà.
Sbuffò vagamente e cercò la riga a cui era arrivato poco prima che quegli idioti lo interrompessero.
~•~•~•~
Era al terzo caffè, ed iniziava finalmente a sentirsi sufficientemente operativo per poter iniziare il turno alla clinica in cui stava svolgendo praticantato in vista dell'esame che si sarebbe tenuto di lì a pochi mesi.
Essendo tra i migliori del suo corso, gli era stato concesso di scegliere ove svolgere quel periodo, e lui aveva optato per un ospedale sufficientemente vicino a casa da potervisi recare rapidamente, ma non abbastanza da attirare attenzioni indesiderate.
La notte precedente era stata particolarmente fruttuosa: aveva svolto una perfetta peritonectomia sul suo paziente, un vecchio gatto randagio che gironzolava nei pressi di casa sua. Catturarlo era stato più difficile che operarlo, purtroppo, e questo l'aveva privato di buona parte del divertimento. I suoi miagolii straziati avevano sopperito a questa carenza, ma non si sentiva sufficientemente soddisfatto.
Sperò che il lavoro fosse sufficiente a distrarlo.
Ma durante il corso della giornata non riuscì a pensare ad altro che non fosse la sensazione del calore del sangue sulle mani, della vischiosità dello stesso sui guanti, ai piccoli movimenti compiuti dagli organi interni di quel randagio, che pulsavano minutamente a ritmo col battito cardiaco sempre più accelerato della bestiola.
Sospirò appena, con aria sconsolata, e si accinse a riporre al loro posto ogni strumento utilizzato durante quel turno; la data dell'ultimo esame della sua carriera universitaria si stava avvicinando sempre più, e quella notte aveva già in programma una lunga sessione di studio. O, per meglio dire, ripasso. D'altronde, la pratica che effettuava autonomamente era estremamente utile per comprendere il funzionamento effettivo di molti organi ed apparati; molti animali sono estremamente simili agli esseri umani, sotto questo punto di vista.
~•~•~•~
Tra quelle mura, l'unico modo per scindere giorno e notte era fornito esclusivamente dall'alternarsi dei turni delle guardie, e dall'affievolirsi o meno delle sterili luci che illuminavano l'ambiente.
E questa era una delle cose più fastidiose cui era mai stato sottoposto.
Non sapendo come intrattenersi, spesso il Dottore lasciava vagare la mente tra i ricordi o i pensieri che lo tormentavano sia nel sonno che nella veglia. Spesso e volentieri risalivano al periodo precedente al suo arresto, poche volte alla sua infanzia; preferiva relegare quei giorni nei recessi più reconditi della memoria, senza rispolverarli volontariamente.
Un altro discorso era ovviamente quello riguardante ciò che il suo strizzacervelli chiamava pensieri intrusivi; fantasie relative ai crimini che aveva commesso, il desiderio di ripeterne alcuni, l'impazienza di sperimentarne degli altri, ma anche riflessioni sulla sua situazione attuale, sia fisica che psicologica.
Non era uno stinco di santo, l'aveva sempre saputo, sin dal momento in cui aveva iniziato a provare i primi impulsi.
Impulsi verso altri esseri umani, s'intende.
Impulsi che l'avevano portato a commettere alcuni tra i più raccapriccianti crimini, non tanto per il modus operandi quanto per il range d'età delle sue vittime. Per quanto ricordava, la più grande aveva circa tredici o quattordici anni, ed in base alle sue conoscenze poteva benissimo affermare quanto fosse una delle meno favorite dai tabloid. Forse, non l'avevano citata nemmeno una volta, come se il fatto che fosse poco più grande degli altri la rendesse meno interessante, meno degna d'esser attenzionata.
Ne aveva parlato con lo psichiatra che di tanto in tanto lo interrogava per avere ulteriori dettagli da fornire agli organi di stampa, ma l'unico risultato che aveva ottenuto da una provocazione di tale portata erano state delle decisamente spiacevoli scariche di un taser.
Poco male. Non che fossero sul serio cazzi suoi, in fondo.
"Ma a te interessa, eccome se ti interessa. Vuoi che quello che hai fatto resti segreto, non vuoi che il mondo ti veda per il viscido essere che sei."
Si guardò distrattamente attorno, e notò il vassoio con la cena che era stato fatto scivolare in una piccola fessura situata nell'angolo in basso a destra dell'inferriata della cella, troppo piccola affinché qualcuno possa sgusciare fuori, ma sufficientemente grande da consentire il transito di piccoli oggetti, come buste o, appunto, un vassoio.
Nonostante le luci più soffuse, si alzò, avvicinandosi a ciò che avrebbe dovuto rappresentare la sua cena, e gli sfuggì una visibile smorfia nell'identificare il cibo presente: direttamente adagiato alla bell'e meglio negli spazi concavi del vassoio vi erano ciò che all'apparenza sembravano delle uova strapazzate, pane raffermo e del riso in bianco, senza nulla da bere.
O senza posate, come da prassi.
Raccolse il vassoio ed andò a sedersi sul gabinetto, essendo così più vicino al lavandino; avrebbe bevuto da lì.
Non aveva alcuna intenzione né voglia di consumare quel pasto, ma aveva già saltato il pranzo -come da regolamento-, e non gli sarebbe di certo convenuto rischiare di arrivare completamente affamato al prossimo periodo di isolamento, che era certo sarebbe iniziato nel giro di poco, considerando l'aria che tirava in quel posto.
Era perfettamente consapevole di non stare simpatico a nessuno, lì dentro, in parte per via dei suoi crimini, in parte grazie al suo carattere, e con l'avvicinarsi di un nuovo evento avrebbe preferito pararsi preventivamente il posteriore.
~•~•~•~
Nella sua mente vi era un susseguirsi di emozioni e stati d'animo completamente contrastanti.
Soddisfazione e delusione.
Compiacimento e disgusto.
Estasi e disperazione.
L'aveva fatto. Finalmente l'aveva fatto, aveva saziato quella fame che l'aveva attanagliato per anni ed anni. Sotto di lui, il corpo inerme del bambino era immobile, scosso da qualche sporadico tic nervoso; lo sguardo, invece, era perso. Probabilmente si era dissociato dal suo stesso corpo, per non dover vivere in prima persona gli orrori subiti dentro le quattro mura di quell'ospedale.
Dentro le quattro mura di un posto che avrebbe dovuto aiutarlo, e non consentire a quel laureando di abusare di lui in tutta comodità, mentre sua madre attendeva la fine della visita nella sala adiacente.
Il Dottore si allontanò dal lettino, sistemandosi rapidamente i vestiti ed il camice.
Sì, aveva soddisfatto i suoi impulsi, ma a che prezzo?
Posò lo sguardo sul povero, piccolo paziente, che intanto stava riprendendo lentamente il controllo del suo corpo, per così dire; i tic non fecero altro che aumentare, ed il suo sguardo, nonostante non fosse più fuori fuoco, era ugualmente spento.
<Rivestiti.> Lo istruì semplicemente, non sapendo in che altro modo colmare il silenzio che si era andato a creare.
Il bambino obbedì all'istante, con una scioltezza decisamente innaturale, considerando quanto appena accaduto; il suo esile corpo era costellato di lividi in via di formazione, che andavano a sommarsi a quelli che, secondo la sua cartella clinica, si procurava accidentalmente da solo per via della sindrome di Tourette, già diagnosticata in precedenza. Sindrome che lo portava anche a ferirsi da solo, in alcuni casi, se correlata ad un'altra patologia ancora sconosciuta, che apparentemente agiva sul suo sistema nervoso periferico, alterando o annullando del tutto la percezione delle sensazioni tattili, dolore e variazione di temperatura inclusi.
Come scritto nella sua cartella, e come testimoniavano varie cicatrici sul suo corpo -soprattutto di ustione-, capitava che si facesse del male autonomamente, a tratti senza nemmeno accorgersene.
Usò questa scusante per giustificare il sangue che macchiava le cosce del ragazzino, e che lo stesso stava provando a ripulire con dei fazzoletti di carta posati lì vicino.
"Modo singolare per confermare la presenza di una malattia."
Il Dottore per poco non si diede uno schiaffo da solo.
Non era proprio in vena per questo.
Una volta che il giovane ebbe finito, alzò lo sguardo sul medico, ma non lo guardò in viso, o negli occhi: si limitò a studiarne la postura, come se, così facendo, potesse trovare una risposta alle domande che l'avevano colto, ma che non aveva il coraggio di porre.
Eppure, dopo qualche secondo, riuscì a prendere parola.
<La-... La visita è f-f-finita...?> Chiese, con una vocina sottile, un po' acuta, non spaventata, ma nemmeno a suo agio.
Per nulla a suo agio.
Il più grande non si aspettava di certo di sentirlo parlare, e perso nei pensieri com'era quasi si spaventò. Alzò il capo di scatto, smettendo di fingere di leggere un documento, ma ebbe bisogno di qualche ulteriore secondo per registrare il quesito prima di poter rispondere.
<Si. La visita è terminata. Parlerò con tua madre riguardo altri esami a cui dovrai sottoporti, ma sono abbastanza sicuro che questo sia stato sufficientemente chiaro.>
Disse, prima ancora di poter riflettere a fondo su come poter plagiare la giovane mente di quel bambino, su come convincerlo che quanto accaduto fosse normale.
Lui si limitò ad annuire appena, ancora senza guardare l'altro in viso, poi si avvicinò alla porta, a piccoli passi. Era di spalle quando parlò nuovamente.
<Devo-... D-devo fare come con p-papà? Ch-che non dico niente alla mamma qua-quando esce il sangue...?> Balbettò, in modo decisamente confuso.
Il giovane dottore colse la palla al balzo prima ancora di poter assimilare quanto appena udito.
<Esatto. Sarà un segreto, d'accordo?> Propose, tirando un sorriso che, nonostante non potesse vedere in terza persona, percepì come viscido.
Il bambino annuì vagamente, con aria combattuta.
<O-okay... Ciao, Dottor Novak...> Mormorò semplicemente, senza voltarsi, ed uscì dal piccolo studio senza attendere risposta.
Solo quando nel silenzio della stanza risuonò il sottile click della porta il peso di quanto appena successo ricadde addosso al giovane Dottore, col peso di un macigno.
"L'hai fatto. Hai rovinato la vita di quel bambino. E tutto per cosa? Sette secondi d'orgasmo? Ti sembra una cosa giusta?"
Si passò una mano tra i capelli, prendendo un profondo respiro, e tirò con forza le ciocche scure. Se da un lato condivideva quel pensiero, dall'altro l'euforia provata nell'avere il pieno controllo sulla piccola vita che aveva davanti -sotto di lui, in realtà- era stata talmente intossicante da fargli desiderare di ripetere l'atto ancora ed ancora, fino a saziarsi del tutto.
Il Dottore si concesse una manciata di minuti prima di alzarsi e lisciarsi il camice; poi, mandò a 'fanculo ogni cosa: riflessioni, moralità, senso di colpa. Tirò il più sincero ed accomodante dei sorrisi -e si sorprese di quanto facile fu per lui non dover nemmeno fingere- ed aprì personalmente la porta, rivolgendosi alla donna fuori da questa, ancora seduta su una delle poltroncine della sala d'attesa.
<Chiedo scusa per averci impiegato tanto. Prego, signora Rogers, entri pure.>
~•~•~•~
<Fallo entrare.>
La voce che aveva pronunciato queste parole era cinica, fredda, abituata a vedere eseguiti i suoi ordini.
Cosa che accadde nuovamente.
Con le mani costrette avvolte attorno al busto dalla camicia di forza e delle pesanti catene alle caviglie, atte a limitare i suoi movimenti, venne portato all'interno di uno studio che ormai conosceva fin troppo bene: quello dello strizzacervelli del carcere.
Una guardia lo spinse dalle spalle non appena varcarono la soglia, costringendolo ad incespicare per non cadere, e l'unica cosa che potè fare fu fulminarla con lo sguardo prima di venire costretto a sedersi sulla scomoda sedia posta al centro della stanza, davanti alla poltrona su cui era già sistemato lo specialista.
Questi sedeva con le gambe elegantemente accavallate, una carpetta di cuoio posata sul ginocchio ed una penna stretta nella mano dominante.
<Daniel Novak, detto anche "Doctor Smiley".> Iniziò, sottovoce, come se stesse parlando tra sé e sé; posò brevemente lo sguardo sul costoso orologio da polso che portava -e che il Dottore desiderava piantargli nello sterno- e segnò data ed ora di inizio colloquio sul documento che aveva davanti.
Il Dottore prese un silenzioso respiro, come per mantenere la calma, e tirò un vago sorriso cortese al punto da risultare palesemente falso.
<Precisamente.>
<Non credo ti sia stato chiesto di confermare le informazioni.> Fu il semplice ed asettico commento dello psichiatra; attivò poi un registratore portatile, e ripeté quanto affermato in precedenza, annunciando nuovamente l'identificativo del paziente di fronte a lui, il quale continuava a fissare lo specialista in viso, sempre con quel sorrisetto snervante, in silenzio.
<Interrogatorio numero trentadue. Dunque, Daniel, provi alcun tipo di senso di colpa nei confronti delle atrocità che hai commesso?>
Il carcerato alzò gli occhi al cielo, non riuscendo ad impedirselo, infastidito sia dal quesito, che dall'utilizzo -improprio- del suo nome.
"Non dirglielo, ti conviene. È inutile, tanto. Sa che ti fa incazzare essere chiamato così, e ti chiama così apposta. Non dirglielo."
<In realtà è Dottore, se non le dispiace. E no, non provo alcun senso di colpa.>
"Sei un coglione."
<Anzi, devo ammettere che mi manca la libertà d'azione che avevo al di fuori di questo posto di merda! A quest'ora potrei benissimo essere a scoparmi il figlio di qualche coglione che l'ha lasciato al primo medico referenziato che ha trovato pur di pagare meno l'assicurazione!> Aggiunse, intonando una risatina vagamente isterica, come per sottolineare quanto affermato.
Giusto perché era particolarmente bravo nello scavarsi da solo la fossa sotto ai piedi.
Ipotesi confermata nel momento in cui percepì prima i capelli sulla nuca rizzarsi, poi, a distanza di pochi millesimi di secondo, un terribile bruciore in due punti distinti del collo -di lato, ove la pelle è più sottile e sensibile- ed, in concomitanza, la scarica elettrica indotta dal taser che gli attraversava il corpo, facendolo irrigidire, contraendo dolorosamente i muscoli, strozzandogli il fiato in gola, impedendogli di respirare e, persino, di lamentarsi. L'unico suono che riuscì a lasciare le sue labbra fu un rantolo, forte a sufficienza da superare per un istante il suono emesso dal dispositivo usato per punirlo.
O meglio, per torturarlo.
Era perfettamente consapevole del fatto che quello non fosse un normale taser, ma bensì uno modificato, in qualche modo, somigliando dunque più ad un dispositivo adibito al controllo del bestiame. Ergo, dotato di una potenza decisamente maggiore, e della possibilità di far durare la scarica quasi il doppio di un taser comune.
Dopo una decina di secondi di agonia -quando in realtà ne basterebbero appena due per rendere un uomo di stazza media inoffensivo, considerò tra sé e sé, rispolverando le nozioni imparate durante i suoi studi- il dispositivo venne spento ed allontanato dal suo corpo; il Dottore si accasciò sulla sedia, chino in avanti, sorretto esclusivamente dalle cinghie che gli legavano il busto allo schienale della sedia. Teneva il capo a penzoloni, incapace di reggerlo dritto, ciocche corvine a nascondergli il viso dallo sguardo dello psichiatra; il lato del collo offeso pulsava sordamente, e poteva distintamente percepire un sottile rivolo di sangue colare lungo l'incavo dello stesso, ma era troppo impegnato a non perdere i sensi per notificare altro. Al punto che impiegò un'intera ventina di secondi prima di riuscire a riprendere a respirare normalmente, e quasi un minuto prima che i brividi e gli involontari spasmi che colpivano casualmente i suoi muscoli cessassero.
Durante tutto il tempo, era stato costretto ad ascoltare il soliloquio dello psichiatra, intento a blaterare su come la sua sociopatia fosse sempre più accertata ed accentuata, su come fosse un paziente irrecuperabile e dovesse soltanto giovare del privilegio che aveva nel poter colloquiare con lui.
Tutte stronzate.
Il Dottore si umettò le labbra, recuperando ben presto il vago sorriso che lo caratterizzava: spietato, crudele, disilluso, sottilmente divertito forse dalla situazione, forse dal suo interlocutore, chissà.
Sarebbe stata una seduta decisamente interessante.
~•~•~•~
Aveva appena terminato l'operazione svolta su Andrew Moore, nove anni, bisognoso di un semplice intervento di rimozione delle tonsille, e che si ritrovava invece ammanettato al lettino medico posto al centro del luogo che Daniel aveva adibito come sua personale sala operatoria.
Il bambino era stato pressoché vivisezionato: l'intestino tenue era stato rimosso, lo stomaco spostato di lato, il torace fratturato per garantire l'accesso ai polmoni; uno di questi era stato poi asportato e sostituito da una camera d'aria, il tutto mentre il cuore della povera, piccola vittima ancora batteva, seppur sempre più lentamente.
Purtroppo non aveva potuto godere delle sue grida, né durante l'operazione, né durante la violenza che l'ha preceduta: i suoi genitori si trovavano nella stanza adiacente, ed aveva preferito essere cauto, optando per la recisione preventiva delle corde vocali.
D'altro canto, ormai il divertimento era finito: il piccolo era ufficialmente deceduto da circa un minuto.
Si sarebbe occupato dei genitori, poi avrebbe pensato ad un modo per liberarsi dei corpi. L'ultimo nascondiglio era stato scoperto, e le autorità avevano già reso pubblici alcuni dettagli della morte della giovane vittima.
Ancora non avevano redatto un identikit, ma avevano sufficienti informazioni per sospettare di un medico.
Terminare gli studi ed essere costretto a lasciare l'ospedale in cui praticava era stato un imprevisto per cui non si era preparato a sufficienza: fino a pochi mesi prima aveva potuto usufruire dell'inceneritore adibito allo smaltimento del materiale organico per coprire i suoi crimini, indipendentemente dalla natura delle sue vittime, che queste fossero animali o meno.
Adesso, si ritrovava al trentaquattresimo omicidio, il settimo commesso da quando era diventato ufficialmente medico, e già tutto stava iniziando ad andare a rotoli.
Avevano trovato quattro cadaveri, le ricerche si avvicinavano sempre più alla collocazione del quinto, il sesto era fortunatamente ancora disperso, mentre il settimo era davanti a lui, e coloro che diventeranno l'ottavo ed il nono attendevano trepidanti nella sala d'attesa i riscontri dal gentile, cortese e comprensivo chirurgo che si era preso la responsabilità di operare il loro figliolo ad un terzo del prezzo richiesto da un ospedale legale.
Era una situazione di merda in cui si era cacciato da solo, e se ne rendeva conto sempre più man mano che i livelli di endorfine nel corpo scendevano.
Poco male, avrebbe risolto la situazione.
D'altronde, se l'era sempre cavata. L'unica cosa che gli sarebbe servita era solo un po' di fortuna.
~•~•~•~
Il Dottore si accasciò sulla sedia per l'ennesima volta, stremato.
Non aveva nemmeno la forza di alzare il capo, e non si lamentò neppure quando la guardia dietro di lui lo strattonò dai capelli sulla nuca per costringerlo a mostrare il viso. Teneva gli occhi socchiusi, incapace anche solo di mettere a fuoco, e nell'aria vi era un'angosciante puzza di bruciato, proveniente sicuramente dai vari punti sul suo corpo contro cui era stato attivato quel dannato taser. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva percepito le due punte fare contatto con la sua pelle, ma era sicuro che la zona maggiormente interessata era stata quella del collo, perché gli doleva al punto da non percepirla più, così come insensibile era ormai il costato.
Le mani erano intanto percorse da piccoli ma frequenti spasmi muscolari involontari, che gli coglievano anche le braccia, le gambe ed, a tratti, anche le spalle.
Lo psichiatra, ancora seduto di fronte a lui, gli disse qualcosa, ma non una parola arrivò alle sue orecchie, inizialmente.
Dopo qualche altro tentativo, riuscì a capire il quesito che gli veniva posto. E fu incredibilmente sollevato nel sentirlo, nonostante fosse pressoché ormai di routine.
<Un'ultima domanda, poi sarai libero di tornare in quel buco di merda dove meriti di stare. Ci sono altri crimini che vuoi confessare?>
Rifletté per un paio di secondi, sufficienti tuttavia affinché la guardia gli piegasse il capo in modo doloroso, applicando un'ulteriore tensione sulla zona del collo lesionata.
Il gesto gli strappò un gemito mal trattenuto, assieme ad una smorfia.
<Un attimo, cazzo. La lista è lunga da ricordare.> Mormorò semplicemente, con voce bassa e rauca per l'inutilizzo di quei minuti -o forse ore? Non ne era sicuro.-
Si umettò le labbra, poi deglutì a vuoto, cercando di dare in qualche modo sollievo alla gola secca.
<Nathaniel Crest, credo si chiamasse così. Nella tubatura sotto al ponte, quello vicino alla ventisettesima strada.>
Disse infine, con un vago sorriso che, agli occhi dello specialista di fronte a lui, doveva sicuramente risultare malato.
Ma d'altronde come poteva non sorridere nel ricordare le dolci grida di quel ragazzino? O il terrore nel suo sguardo?
Quest'esternazione di compiacimento gli causò una lunga sequela d'insulti ed un naso sanguinante, ma poco gli importava, ormai.
Lanciò un'occhiata ai documenti sulle gambe del medico, per quanto possibile, e gli sfuggì un ennesimo ghignetto di soddisfazione nel leggere quanto vi era scritto: "Daniel Novak, trentadue anni. 17 omicidi confermati, sospettato di altri 21."
Le precedenti cifre, 16 e 22, erano state barrate dallo psichiatra, e sostituite da un appunto coerente con le nuove informazioni ottenute.
D'altro canto, quel cadavere era già stato trovato, mancava esclusivamente una confessione.
Inizialmente l'uomo non disse nulla, limitandosi a rivolgere un secco cenno alla guardia, e questi costrinse il Dottore ad alzarsi su gambe instabili e tremanti.
Provò a fare un passo, ma per poco non cadde addosso al poliziotto, impedito non solo dalle scariche subite, ma anche dalla precarietà data dalla camicia di forza; venne spinto bruscamente, ma riuscì a tornare sui suoi piedi.
Poi, si rivolse al medico, guardandolo dritto negli occhi, in attesa.
<Che vuoi?> Domandò finalmente lui, intento a scrivere sul documento.
<Lo sa benissimo, caro collega.>
<Non osare metterti sul mio stesso piano, verme.> Venne subito ripreso, ma anziché umiliazione provò esclusivamente divertimento, che gli strappò un sorrisetto compiaciuto.
<Puoi andartene.>
<La mia ricompensa. Ho confessato, d'altronde.>
<Uno scarto come te non merita un cazzo. Anzi, solo quello, ma ne prendi abbastanza, a giudicare da tutte le volte in cui sei stato in infermeria.>
Ecco, questo gli strappò una vaga smorfia irritata, ma si costrinse a reprimere il tutto.
Non amava essere dal lato delle sue vittime, non gli piaceva per niente, ma non poteva di certo lamentarsi. Un aggettivo che voleva mantenere il più lontano possibile dalla propria persona era "ipocrita".
"Beh, ipocrita lo sei. Cazzo, salvarli? È la scusa più patetica che potesse venirti in mente. Come fai a salvare una persona se l'ammazzi?"
Ignorò anche questo pensiero intrusivo, come tanto amava chiamarlo, e si limitò a mantenere la sua caratteristica -ed intimidatoria- compostezza.
<Posso dunque rilasciare informazioni confidenziali durante i prossimi interrogatori di quei coglioni che studiano per far parte di questo sistema di merda, dico bene?>
Domandò semplicemente, ovviamente retorico, accompagnando il quesito da un sorrisetto provocatorio.
Lui e lo psichiatra avevano già avuto questa conversazione altre volte, fin troppe, per i suoi gusti; se da un lato al Dottore non avrebbe personalmente giovato fornire ulteriori indicazioni autoincriminanti, dall'altro la perdita di credibilità dell'istituto sarebbe stata eccessiva, soprattutto considerando i movimenti per i diritti dei carcerati che iniziavano sempre più a farsi sentire.
Il medico strinse visibilmente i denti, irritato, e scambiò uno sguardo con il poliziotto prima di sbuffare.
<E sia. Che cazzo vuoi?>
Il Dottore non aspettava altro.
<Un libro. "I fratelli Karamazov", di Dostoevskij.> Rispose infatti, all'istante, cogliendo la palla al balzo.
Non ottenne risposta, e venne riaccompagnato alla sua cella, in cui venne gettato con uno spintone che lo fece cadere a terra.
Nemmeno gli tolsero la camicia di forza, si limitarono a chiuderlo nuovamente lì dentro.
La sua richiesta venne soddisfatta nel giro di pochi giorni: nel corso della notte, un poliziotto di ronda entrò nella sua cella, lo immobilizzò, gli confiscò il vecchio libro e gettò quello che il Dottore aveva richiesto sul letto. Poi, lo liberò e lasciò la cella.
Il Dottore controllò subito la copertina e lo stato del volume: malridotto, come tutti gli altri, ed erano state appositamente strappate alcune pagine, scelte in modo casuale, ma poco gli importava.
Finalmente aveva un nuovo modo per trascorrere il tempo in quel posto.
~•~•~•~
Non li aveva dimenticati.
Non ne aveva dimenticato nessuno.
Ricordava ancora tutti i nomi, tutti i visi, tutte le grida, tutte le sensazioni che aveva strappato ai suoi piccoli pazienti.
Desiderava ricordarlo alla folla accalcata sotto al palco, desiderava renderla partecipe del suo modo di vedere le cose.
Desiderava elencare ogni singolo nome, desiderava riportare ciascuno di loro in vita affinché confermassero che era vero, che era il loro salvatore: stavano soffrendo, non avrebbero più potuto vivere una vita normale dopo quanto accaduto loro, e lui, Doctor Smiley, aveva posto fine alle loro sofferenze.
Li aveva aiutati, li aveva salvati, impedendo loro di diventare come lui.
O come Toby.
Ma non ne aveva il tempo, ne era perfettamente consapevole.
Sapeva dei poliziotti alle sue spalle, delle armi puntate contro di lui.
Nonostante la brevità di quegli attimi, al Dottore quel tempo parve protrarsi all'infinito.
Mentre parlava gli tornò in mente la sua prima operazione, il suo primo omicidio.
Aveva deciso di non voler più provare la disperazione che l'aveva attanagliato nel momento in cui aveva realizzato quanto fatto al suo primo paziente, a Tobias Erin Rogers. Non riusciva a convivere con l'idea di non essere riuscito ad aiutarlo a stare meglio dopo quanto accaduto.
Nemmeno vedeva i volti delle persone venute fin lì per godere di una forma di divertimento rozza ed inumana quasi quanto quella da lui prediletta durante i suoi anni di libertà.
<Sono il dottor Daniel Novak, ma puoi chiamarmi Doctor Smiley.>
<Io sono Doctor Smiley.>
"Sei ancora in tempo per fermarti."
"Forse è la prima decisione giusta della tua vita."
<Come già avrai capito, sono un medico. Il mio compito è quello di farti stare meglio.>
<Stupratore di bambini, assassino di innocenti. L'unico diritto che la legge mi ha lasciato è quello della vita.>
'Piantala. Smettila. Riduci il dosaggio dell'anestetico e lascialo fottutamente andare."
"Fallo. Non tirarti indietro, codardo. Fallo."
<Ma sai cosa? Ho intenzione di divertirmi un po', prima.>
<Ma sapete cosa? Io ci sputo sopra a questa vostra benevolenza.>
"Fai schifo."
"Mamma e papà avevano ragione."
<Spero che anche tu possa imparare qualcosa da quest'esperienza.>
<Questo vostro falso perbenismo mi dà la nausea.>
"Dovresti esserci tu al suo posto."
"Non risolverai un cazzo, ma almeno brucerai all'Inferno, come meriti."
Presente e passato si mischiavano, ormai.
L'unica cosa di cui era certo era la vischiosità del sangue caldo sulle mani, ma non sapeva se appartenesse al ricordo o alla realtà.
Non riusciva a respirare bene, si era assicurato di premere sufficientemente con la lama da non rischiare di sopravvivere; lo sparo esploso dal poliziotto dietro di lui gli facilitò enormemente il lavoro, comunque: si sentì cadere in avanti, ma non percepì né l'impatto del proiettile, né quello col suolo. Si ritrovò semplicemente steso a terra, prono, le narici e la bocca subito piene della polvere presente sul terreno sotto al palco.
Ora oltre che il dolore alla gola ed al petto percepiva anche un sordo pulsare al capo. Probabilmente l'aveva battuto.
Non riusciva più a formulare un pensiero logico o coerente, ne era perfettamente consapevole; d'altro canto, stava morendo, e sapeva persino questo.
"La prima fase vede i muscoli del corpo contrarsi e rilassarsi spasmodicamente; dura una manciata di secondi. Poi ogni muscolo si rilassa, compreso il diaframma. Se non è ancora sopraggiunta la morte, avverrà adesso per soffocamento. Tu creperai prima, o per dissanguamento, o perché annegherai nel tuo stesso sangue. Incredibile, non trovi? Il corpo umano è così interessante. È capace di rigenerarsi, di guarire, di adattarsi alle novità, ma anche di distruggersi da solo. Basta un po' di liquido dove non deve esserci, et voilà: morto in pochi minuti. Meraviglioso, vero?
Poi inizi finalmente a perdere coscienza. Il dolore passa in secondo piano. La cosa della vita che ti passa davanti agli occhi è una cazzata, no? Altrimenti adesso staresti rivedendo tutta la merda che hai fatto. Morire non è così male. Alla fine è come addormentarsi, se non consideri il dolore ed il fatto che non ti sveglierai più.
... Non ti sveglierai più. Cazzo, non ti sveglierai più. Smettila. Riprenditi. Resta sveglio. Chiameranno qualcuno, ti ricuciranno e tutto tornerà come prima. Sta' sveglio. Non morire. Non osare morire. Non vuoi morire. Non vuoi fottutamente morire!"
Non aveva mai saputo a chi appartenesse quella voce. Forse era ciò che viene comunemente chiamata coscienza. Non le aveva mai dato ascolto, e non aveva di certo intenzione di iniziare adesso.
Come se potesse farlo, poi.
Per quanto incredibile fosse il corpo umano, il Dottore non poteva impedire al proprio sangue di scorrere sul pavé della piazza, di mischiarsi e raggrumarsi a causa del contatto con l'aria e con la polvere lì presente; non poteva ricostruire la parete della carotide, recisa dal bisturi, o quella della trachea, scalfita a sufficienza da rendere difficile -se non addirittura impossibile- respirare. Per non parlare della calca generata dalla folla in fuga. Era sicuro d'esser stato calpestato a sufficienza, in quei pochi secondi, da non avere più abbastanza ossa intere per muoversi nemmeno se avesse potuto farlo, ma non provava dolore.
Sapeva di avere gli occhi aperti, ma non vedeva più nulla; il centro del suo campo visivo era pressoché oscurato, come se si trovasse in una stanza in penombra, mentre la parte periferica era illuminata di una luce bianca forte al punto da stordirlo più di quanto già non fosse.
Non riusciva a ragionare, a pensare. Non aveva paura, nemmeno le parole che quella dannatissima voce continuava a ripetere nella sua testa riuscivano a fargliene provare.
Anzi, si sentiva sorprendentemente in pace. Non era riuscito a portare a termine la missione che si era prefissato, non era riuscito ad assolversi dai suoi peccati -o da una parte di essi-, a trovare finalmente la quiete nonostante le atrocità commesse in vita.
La voce interruppe la sua litania composta da "alzati" soltanto per formulare un'ultima, sprezzante frase nei suoi confronti, una delle tante udite durante quei trentaquattro lunghi -ma al contempo brevi, così brevi- d'esistenza.
"Col cazzo che morirai in pace. Finirai all'Inferno, dov'è giusto che tu stia, mostro."
Ironico -pensò D̶a̶n̶i̶e̶l̶ il Dottore- mi hanno sempre definito un demone. Forse là sotto mi troverò meglio che qui.
Fu il suo semplice, ironico, spassionato commento, prima di lasciarsi cadere definitivamente nel buio.
𝑆𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜 𝐴𝑢𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒
... Ebbene, dopo due lunghi anni, rieccomi con un nuovo aggiornamento c:
Si tratta di una storia ispirata ad un libro presente qui su Wattpad, ed intitolato "Into the Madness"; la scrittrice, una mia carissima amica e caposaldo del genere, è nientepocodimeno che I3venticinque . Se volete avere un quadro più chiaro di questa one-shot dovreste leggere la fanfiction in questione, concentrandovi sui capitoli 4 e 54.
Auguro a tutti una buona serata, ed una buona lettura.
•De Hoc Satis•
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