Ordine Genomico
Il rumore umido dei passi sulla pietra riecheggia ancora nelle mie orecchie mentre li guardo allontanarsi, con i loro cavalli, su quello stesso sentiero fangoso che li ha portati al monastero. Le luci dell'alba proiettano le ombre dei monti e nascondono la mia presenza tra le strette aperture strombate ad arco a sesto acuto che caratterizzano la facciata sud del monastero.
Sento le lacrime scorrere calde sul mio volto mentre vedo le mie congiunte rapite, lasciate penzolare mani e piedi sul dorso dei cavalli, mezze nude, mezze morte.
Gli echi delle loro urla di successo riempiono la valle sottostante mentre la brezza mattutina che solitamente accompagna il nostro saluto al Sole, ora si scaglia impietosa sul mio volto, raggelando le lacrime e l'anima.
Tento di valutare tutte le mie opzioni mentre ripercorro i corridoi di quel monastero che chiamo casa. Passo accanto all'aula di scienze, dove ho trascorso la maggior parte della mia vita, ora devastata e quasi rasa al suolo. I becher rotti, le ampolle frantumate, computer, monitor e tutto quello che serviva la scienza ridotto in pezzi.
Ancora un paio di svolte per arrivare al chiostro centrale. Il luogo dell'anima, dove ci incontravamo tutti i giorni, ora è desolato e distrutto. Le fontane, i proiettori olografici, il nostro stemma con la catena di DNA su uno scudo crociato e il motto che ci contraddistingue: "Studia, Confuta, Elabora". Gli stendardi in pietra su cui era inciso giacciono sbriciolati e abbandonati sul selciato divelto. Quel motto è stato la mia fonte di vita, il mio fervore, il mio unico scopo da quando ho messo piede qui quindici anni fa. Una bambina di dieci anni rimasta sola al mondo, con la chiara intenzione di studiare le scienze.
L'ordine nacque per questo, pochi anni dopo le Guerre di Separazione, per trovare un modo per ricongiungere i due generi e ricreare un ambiente armonioso, ma soprattutto per continuare ad avere fede che ciò potesse ancora avvenire.
Risalgo rapidamente le scale, devo recuperare i miei beni personali. Un monastero sopravvissuto a tanti eventi tragici, testimone di cambiamenti epocali, ora reso una tomba. Vedo i corpi di alcuni congiunti giacere in pozze di sangue, trafitti da proiettili che secondo le nostre informazioni non avrebbero dovuto possedere. Altri con le gole squarciate e i pantaloni calati abbandonati in posizioni oscene sui giacigli scombinati e imbrattati.
Non voglio vedere fin dove la loro crudeltà si è spinta e ingoio un altro boccone amaro di coscienza arresa.
Perché io sapevo che sarebbero arrivati, lo sentivo nelle viscere.
Ogni volta che la congiunta docente di storia ci raccontava cosa fosse successo nelle Guerre di Separazione e nei periodi precedenti, sentivo che loro non si sarebbero mai arresi. Non avrebbero mai accettato il nostro vivere da persone senza distinzione di genere, il nostro modo di condividere la vita e le nostre famiglie numerose, non avrebbero mai capito un modo diverso dal loro.
A causa di ciò, in gioventù ebbi numerosi incubi dopo le lezioni storia, e continuavano a manifestarsi ogni qual volta ospitavamo un nuovo rifugiato o una fuggitiva.
Pensando al passato le lacrime scendono ancora di più, mi fermo. Sono bloccata sullo stipite della porta che conduce al sotterraneo. Mi manca il fiato, fatico a respirare, ciò non è dovuto al freddo e all'umidità che risale dalla tromba delle scale, ma al puro panico che il nostro mondo possa divenire il loro. Che ci separino ancora per genere, che non ci permettano di auto definirci, di scegliere il nostro percorso.
So che alle femmine tolgono le ovaie per non avere problemi di gravidanze o di cicli mestruali. Quelle che ritengono più idonee le rinchiudono in strutture riproduttive dove vengono inseminate subito dopo il menarca, con il seme del loro capo, per produrre i leader di domani o le incubatrici del futuro. Inorridisco e mi blocco ancora mentre cerco di scendere e raggiungere quella che io e le congiunte del laboratorio avevamo designato come nostra eventuale fuga.
I passi sono pesanti, affaticati, le mie gambe tremano e il mio cuore non smette di battere come un tamburo al sol pensiero che un giorno potrebbero invadere il nostro territorio, allora saremo schiavizzate perché femmine.
Nel loro mondo vengono lasciate all'ignoranza, non esiste il diniego, sono solo oggetti per il loro piacere. Quello che ho imparato intervistando le fuggitive è che non avevano nemmeno un nome o non sapevano esprimere un concetto. Le guardavo torturarsi le mani, nascondere il volto e gli occhi pieni di paura, mentre mi raccontavano di quello che subivano quotidianamente spiegando con gesti espliciti e volgari ai miei occhi. Erano sempre sorprese di trovarci, non sapevano dell'esistenza di un'altra parte del mondo, dove potevano vivere una vita, non subire le volontà degli altri. Eravamo degli alieni per loro.
Cerco di andare avanti, ma in quei piani portavamo anche i fuggitivi che trovavamo nella valle ed è difficile non provare disgusto alla vista che si presenta ai miei occhi. Mi sorprendo a riversare sul pavimento di pietra la mia cena, quella consumata con tutti i miei congiunti ignari di ciò che sarebbe avvenuto.
Vomito come facevano i fuggitivi quando sotto interrogatorio ammettevano di aver ammazzato di botte almeno una donna, una volta nella loro vita. Io portavo sempre un secchio con me, e ogni volta lo riportavo pieno del loro pentimento. Essi si vergognavano, piangevano, chiedevano di essere puniti per quello che avevano fatto. Li ho sempre classificati come vermi vigliacchi, ma ci erano utili. Erano il solo mezzo che avevamo per saperne di più, per capire come funzionasse quella parte del globo che avevano colonizzato.
Mentre tento di sorreggermi appoggiata alla parete, un brivido risale la mia schiena ricordando i loro racconti sempre uguali: un festino orgiastico perpetuo a cui erano tutti invitati a partire dalla prima erezione. Mi gira la testa pensando ai ragazzini che stuprano donne con il doppio dei loro anni che non potevano ribellarsi. Andavano a scuola solo per imparare un po' la storia dal loro punto di vista, le basi della matematica, qualche accenno della loro geografia secondo la quale noi non esistevamo. Nei loro insegnamenti da un certo punto in poi il mondo era contaminato e nessuno vi poteva andare. Ora mi guardo intorno e sento solo che la mia terra è insozzata dalla loro lercia arroganza, dal loro sentimento di superiorità e supremazia.
Vago per i corridoi freddi e silenziosi, mentre intravedo ancora corpi morti di fuggitivi pentiti, che giacciono seminudi e profanati. Quale odio può portare a una tale carneficina?
Quale dottrina può insinuarsi così profondamente da far credere a un essere umano di poter disporre della vita degli altri?
Sono in ginocchio di fronte a tanta violenza. Io non capisco l'odio. Io non capisco la prevaricazione. Anche di fronte a tanta distruzione riesco solo a pensare a "perché"?
Con estrema fatica raggiungo il portone semi nascosto che avrebbe dovuto salvarci. Lo trovo spalancato e penso che le mie congiunte ci siano riuscite. Il mio cuore si ferma quando vedo il mini van ancora parcheggiato e loro dentro, sedute composte.
Mi avvicino e le vedo, immobili, gelide, grigie.
Giro intorno al van bianco e verde sopravvissuto alle Guerre di Separazione, arrugginito e sgangherato in cui avevano riposto fiducia e che ora è la loro bara.
Le loro vesti sacre ancora le avvolgono, con quel buffo copricapo che avevano insistito per portare come segno distintivo dell'Ordine. Avevano anche iniziato a pregare perché la soluzione arrivasse. Avevano recuperato degli oggetti del passato che le aiutavano nelle loro meditazioni e li hanno ancora in mano, attorcigliati a quelle dita purpuree.
Ho gli occhi in fiamme a vedere il loro sacrificio, la loro vita, rubata da una tossina venefica che ha strappato l'aria dai loro polmoni.
Quando faccio il giro del van e arrivo al lato dell'autista, lo vedo. Il cestino in vimini di congiunta Yole. Nessuno sospetterebbe mai che quel cestino possa contenere una cosa così preziosa, se solo le avessero raggiunte per assassinarle di persona forse lo avrebbero distrutto. La soluzione ai problemi di tutti, la possibilità di ricongiungersi con il resto del mondo era lì dentro.
La formula giusta era arrivata da poco, avevamo elaborato un siero per sradicare il seme della violenza in modo definitivo e poter ricominciare, basato sulla combinazione di DNA, esso avrebbe modificato i geni della portatrice, inserendosi in ogni sua prole ed eliminando ogni traccia di DNA maligno.
Ricordo lo sguardo di congiunta Yole quando guardammo le simulazioni sul monitor, quanto aveva creduto e quanto aveva lavorato perché ciò avvenisse.
Le mie gambe tremano, il mio cuore esplode.
Dovrei prendere quel cestino e portarlo nel più vicino monastero per continuare la ricerca, la produzione in massa del rimedio e lo studio della strategia per farlo arrivare nell'altro mondo.
Tuttavia nelle mie orecchie echeggiano ancora il rumore dei passi nei corridori e il fragore dell'esplosione che ha fatto breccia nel portone principale.
Erano arrivati improvvisamente dalla valle a ovest, scendendo per gli scoscesi pendii che circondavano la valle mentre il sole tramontava. I raggi dell'astro calante erano lame sottili infilate in quelle strette gole, che si riflettevano sulle loro armature di metallo facendoli apparire come di fuoco.
I congiunti guardie avevano dato l'allarme, ma forse troppo tardi. Per quanto il nostro sia un Ordine devoto alla scienza e alla tecnologia non siamo addestrati alla battaglia, né possediamo armi. L'avevo reputata una scelta corretta a suo tempo, oggi provo solo rimorso.
Continuo a guardare le mie congiunte in quel van e pensare che le menti più brillanti che io avessi mai incontrato, le più ispirate coscienze che mi avevano cresciuta, ora erano gelide statue. Non vedrò più i loro sorrisi, non faticherò più a seguire i loro ragionamenti perfetti, non elaboreremo mai più nessuna teoria.
Mi ritrovo con i pugni serrati che quasi mi sanguinano le mani.
Ho sentito le loro urla disperate. Ho sentito oggetti cadere e infrangersi mentre quegli esseri immondi portavano via le mie congiunte femmine contro la loro volontà, ridendo e denigrando ogni loro tentativo di ribellione. Li ho sentiti sparare e ridere, suggerirsi atti perversi da compiere al loro rientro.
Non sento più le mani dal dolore.
Guardo il cestino mentre la mia mente elabora un piano per infiltrarsi in quel mondo corrotto per distruggerlo, raderlo al suolo.
Sento una profonda rabbia ancestrale che si arrampica sulle mie gambe, raggiunge il mio inguine, il ventre, il cuore che improvvisamente trova un ritmo naturale.
Non dovrà rimanere nulla di quel posto infame, come non rimarrà nulla di questo monastero.
A cosa sono valse le nostre ricerche? A cosa è servito tanto sacrificio? Nessuno verrà qui per controllare, nessuno crede nel nostro ordine, il più vicino monastero è a centinaia di chilometri di distanza mentre il confine è solo alla fine della valle a sud. Mi sento sola, ma anche potente. Perché so che posso distruggerli.
Prendo una delle boccette e con l'ausilio di una siringa custodita all'interno del cestino, me la inietto nelle vene.
Mi spoglio dei nostri abiti sacri e indosso qualcosa che quelle menti possano capire, la seduzione, la femminilità e tutto quello che posso concedere. Diventerò complice della loro arroganza, concubina degli ignoranti, dea dei miscredenti.
Con la tanica di combustibile che doveva alimentare il van ripercorro i miei passi a ritroso. I capelli raccolti sulla nuca, l'abito inconsueto per questo ambiente e la torcia che porto in mano mi trasformano in ciò che diverrò per la mia prossima missione.
Spargo un po' di benzina e do fuoco a ogni piano. Le lacrime sgorgano come sorgenti.
Finché non arrivo a voi, mie congiunte, compagne di una vita.
Con il fuoco purifico lo scempio avvenuto sui vostri corpi, trovate la pace che meritate. Il crepitio delle fiamme e l'alta colonna di fumo che oscura il cielo del mattino, saranno il mio saluto a queste terre.
Con il fuoco purifico il mio dolore, la mia amarezza e la mia disillusione.
Brucia!
Brucia tutto e che vedano il fuoco dall'alto!
Voi sarete le ultime e io distruggerò tutto!
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