Stanza 111
L'ultima seduta mi aveva lasciata spossata, per non dire stremata. Le tempie pulsavano con insistenza così, rimasta sola nella sala, chiusi gli occhi. Abbandonai indietro la testa, sciogliendo la coda e ravvivando le morbide onde dei capelli. Mi concentrai sul respiro, profondo e regolare, ma era come se l'aria mi bruciasse i polmoni. Riaprii le palpebre e fissai l'ormai flebile fiamma della candela, sistemata al centro del tavolino.
"Spegnila!", tuonò una voce gracchiante che solo io potevo udire.
Sorrisi.
Presi col cucchiaino d'argento un po' di sale e disegnai un cerchio attorno alla candela. Un ringhio stridulo, feroce e morente mi perforò i timpani.
«Signorina, la vedo più provata del solito».
La voce cortese del concierge, arrochita dall'età, mi indusse a sollevare lo sguardo su di lui. Faticai qualche istante per metterlo a fuoco, ma era normale dopo una trance. Cercai di sorridere con gentilezza.
«È stata una serata impegnativa», gli confermai. «Appena la candela avrà finito di bruciare, raccoglierò le mie cose. Ho fatto piuttosto tardi, mi scusi».
In cuor mio speravo che un po' di buone maniere e qualche innocente moina lo avrebbe dissuaso dal chiedermi di pagare un sovrapprezzo per lo spazio occupato. Più che altro perché, ancora stordita, non avevo pensato di domandarlo a mia volta alla cliente. Sospirai.
«In effetti è piuttosto tardi e c'è aria di tempesta fuori», disse il vecchio Demetrio, con un cenno del capo alla finestra, proprio di fronte a lui. «Siete la miglior cliente, di sicuro la più fedele da almeno un anno».
«Tredici mesi e ventuno giorni», precisai.
Un sorrisetto gli tese le labbra sottili, ma restai impassibile. Erano state le voci a condurmi lì e quel giorno cambiò del tutto la mia vita. Con loro seppellii sogni e speranze per immergermi in questo inferno.
«Già», convenne laconico. «Se volete, potete fermarvi qui per stanotte. Non ci sono molti clienti, non sarà la stanza per una notte a mandarmi in rovina».
"Rifiuta", mi sussurrò una voce, sovrastata da altre che la contraddicevano.
"Accetta... Accetta e riposati".
Scossi la testa, pur sapendo di non poterle scacciare, e una nuova fitta mi costrinse a stringere i denti in una smorfia di dolore.
«Va bene, accetto volentieri. La ringrazio».
Demetrio si allontanò allegro, per tornare poco dopo con due chiavi, che fece penzolare davanti al mio sguardo confuso.
«È venuta a cercare un letto qui perché è sola», esordì sornione e io inarcai un sopracciglio, ma non mi lasciò il tempo di ribattere. «Potrei darle un letto dove dormire, naturalmente», precisò alzando la chiave che teneva nella mano destra, «ma posso fare anche una cosa diversa per lei».
Cosa stava blaterando? Per qualche istante temetti volesse provarci con me, il che sarebbe stato alquanto imbarazzante.
«Questa è una chiave, una chiave come tutte le altre. Però, nella camera che apre c'è già una persona, una persona sola come lei».
Sgranai gli occhi, ma le voci si fecero assordanti e dovetti lottare con un crampo allo stomaco, per non piegarmi in due.
«Questa persona sa che questa notte nella sua stanza potrebbe entrare qualcuno. Se accetterà di essere quel qualcuno, tutto quello che succederà nella stanza riguarderà solo voi due.»
Riportai lo sguardo su Demetrio, ansimante, supplice di un po' di pace. Non desideravo altro.
«Perché non si possono mettere più solitudini in una stanza, a meno che non si voglia che si dissolvano».
Mi mancò il fiato. Perché aveva detto quelle cose?
"Tu non sei sola", rimbalzarono le voci nella mia testa. "Noi siamo sempre con te".
Ero sola nel mio inferno.
Posò entrambe le chiavi sul ripiano di legno lucido, a pochi centimetri dal bordo, tenendosi a debita distanza dal cerchio di sale. Scostò leggermente avanti quella che prima teneva nella sinistra e di cui mi aveva spiegato le particolarità.
Silenzio.
Per almeno un minuto regnò il silenzio, dopo che se ne era andato, e pensai di essere in paradiso. Poi, d'un tratto, si levarono tutte in un coro cacofonico che mi intimava a non prendere la chiave. Grida, sussurri, rantolii, tutte dicevano di non andare, di restare soltanto con loro.
Mi sembrò di impazzire, cominciò a girarmi la testa e riuscii a distinguere solo la fiamma avere gli ultimi sussulti prima di spegnarsi. Una sensazione di gelo mi strisciò lungo la schiena e un vento innaturale attraversò la sala. Tutto tacque. Senza più esitare afferrai la chiave e mi diressi verso l'ascensore, con passo incerto, ma cercando d'essere il più veloce possibile. Quando le porte metalliche si aprirono sul corridoio del primo piano, i capogiri aumentarono; a ogni passo mi sentivo peggio, consapevole che dipendesse dalle voci. Non volevano che raggiungessi quella camera e dovevo scoprirne il motivo.
Mi fermai davanti alla placca metallica in ottone, il numero lavorato in bassorilievo era decorato con piccole foglie di acanto. Faticai a infilare la chiave nella toppa e, non appena la girai, grida lancinanti risuonarono dentro di me; gli occhi mi si riempirono di lacrime mentre, piegata su me stessa, mi trascinai dentro, accasciandomi a terra col fiato corto, tenendomi la testa tra le mani.
«Basta... Basta...», biascicai implorante.
Un contatto caldo mi fece sussultare. Alzai lo sguardo e mi specchiai nel buio profondo di due iridi scure, nere. Le sue mani erano posate delicatamente sulle mie e sorrideva, rassicurante.
Silenzio.
Accennai un sorriso anch'io e lasciai che mi accompagnasse le mani in grembo, strette tra le sue. Osservai il suo viso, seguii i lineamenti marcati della mascella per soffermarmi sullo zigomo, sulla pelle perfettamente rasata. Mi protesi in avanti e vi posai le labbra, inspirandone il profumo, in un bacio sulla guancia che voleva essere un grazie, espresso senza spezzare quella magia.
Il silenzio. Fuori e dentro di me.
Scostò una ciocca di capelli che mi era scivolata davanti al viso, la tenne tra le dita, arrotolandola, e così notai come il mogano dei miei capelli contrastasse con la sua carnagione chiara. Mi aiutò ad alzarmi, tuttavia, mi ritrovai inchiodata con le spalle sulla porta, il suo volto a una spanna dal mio. Soltanto in quel momento mi accorsi dei lunghi capelli argentei che gli ricadevano morbidi lungo la schiena e, nonostante la luce tenue e calda che illuminava la stanza, sembravano lucenti come seta pregiata. Sollevai la mano per accarezzarli, ma lui mi bloccò ghermendo il polso con decisione, senza farmi male, portando anch'esso a restare inerme sulla superficie di legno.
«Chi sei?», chiesi con un filo di voce.
Non ricevetti alcuna risposta. Le sue labbra si posarono sulle mie e, senza alcuna esitazione, la sua lingua si insinuò tra esse alla ricerca di spazio, di un gioco lento e seducente che mi fece fremere, col suo corpo sempre più vicino.
Delle voci non c'era alcuna traccia e questo era ancora più strano; da quando erano entrate di prepotenza nella mia vita, non ero più riuscita ad avere un contatto con un uomo. Non appena mi baciava, mi sfiorava o soltanto accennava a un interesse per me, si levavano intense per dissuadermi, per allontanarmi da una distrazione, da un intruso in quella che doveva essere una nostra realtà esclusiva, oppure mi aizzavano con frasi lascive e oscene. Il risultato era stato quello di restare sola.
«Chi sei?», ripetei con più decisione, spingendo indietro le spalle dello sconosciuto.
Non capivo perché tutto in lui mi trasmettesse tranquillità, fiducia, quella che non mi era mai appartenuta.
«La tua scelta», sussurrò e il suo timbro si rivelò basso, suadente.
Si allontanò e con fare teatrale si esibì in un profondo inchino, elegante, come i suoi abiti ricercati. La camicia bianca con il collo alla coreana spiccava sotto il gilet nero doppio petto. Percorsi la fila dorata di bottoni verso il basso, mordendomi il labbro nello scorgere la sua eccitazione far capolino sul cavallo dei pantaloni. Rimase immobile a farsi guardare, conscio dei pensieri che avrebbe suscitato, compiaciuto degli stessi. Mosse la mano e indicò il letto, verso cui mi avviai, fino a che non mi abbracciò alle spalle.
«Fidati di me», mi incalzò invitante all'orecchio.
Socchiusi gli occhi, beandomi di quel contatto, mentre le sue dita mi risalivano il petto, per affondare infine nei seni. Soltanto i nostri respiri ad aleggiare nell'aria. Fece scivolare la zip e il mio semplice vestito cadde a terra, superfluo. Osservai il contrasto del suo fondo verde salvia, con una fantasia geometrica variopinta, sulla moquette bordeaux. In un batter di ciglia mi ritrovai nuda davanti a uno sconosciuto, forse troppo anche per una come me, ripudiata dalla famiglia perché rassegnata a seguire le voci. Eppure, ora non c'erano, c'era soltanto lui e per questo gli avrei concesso tutto, per la pace che mi stava donando.
L'ascot di seta mi solleticò il braccio e poi mi coprì gli occhi. Tutto divenne buio e io inerme, come una bambola alla sua mercé. Le sue dita si insinuarono tra le mie gambe, stuzzicando la mia intimità e il mio desiderio.
«Tredici mesi, ventuno giorni, tre ore e trentatré minuti», disse affondandole dentro di me.
Un gemito strozzato fu tutto ciò che riuscii a esprimere, sorpresa e sconcertata da quelle parole, intimorita.
«Ma...», tentai una replica, morta sul nascere per i movimenti con cui prese a destreggiarsi per farmi godere.
Eppure, realizzai che stava aspettando me in quella stanza.
Si fermò e si allontanò da me, così una profonda sensazione di vuoto mi attanagliò lo stomaco.
«Dove sei?», chiesi titubante.
«Qui».
Non riuscii a capire da dove provenisse la sua voce, così mi voltai.
«Ferma».
Trattenni il respiro, sentivo i suoi occhi su di me e l'attesa era una bruciante voglia. Non so quanto tempo trascorsi immobile, sperando in un nuovo contatto con le sue mani.
«Il letto è dietro di te, siediti», mi esortò sensuale.
Lo assecondai e sospirai non appena mi strinse le cosce, allargandole. Sussultai quando si sistemò tra le mie gambe e capii che si era spogliato. La sua pelle era bollente, liscia, il suo torace sodo le allontanò ancora di più, eccitandomi. I suoi denti intrappolarono un capezzolo e mugolai, tremando, affondando le dita tra i suoi capelli, stringendoli in cerca di qualcosa di più.
Volevo di più.
Mi torturò giocando coi miei seni e, infine, mi spinse con decisione e il mio corpo sobbalzò sul materasso. Mi colse di sorpresa, ancor più quando la sua lingua si infilò tra le grandi labbra. Avvinghiai il lenzuolo, la sua presa alle gambe non mi lasciava scampo, né lo cercavo.
Volevo perdermi nel suo piacere.
Così fu, poiché non placò il suo assalto finché non raggiunsi l'orgasmo e sentii le sue labbra tendersi soddisfatte sul clitoride pulsante.
Affannata, cercavo di rallentare il cuore impazzito.
Il rumore di una cerniera squarciò il silenzio e il pensiero di poterlo avere completamente mi elettrizzò. Il materasso si mosse, torreggiava su di me in ginocchio e, anche se non potevo vederlo, mi bastò immaginarlo per provare l'impulso di cercarlo con le mani. Le prese tra le sue, le baciò facendo scivolare le labbra umide sui dorsi e, infine, le portò sulla sua erezione. Era il mio turno di dargli piacere e non lesinai nell'offrirgli le attenzioni che meritava. L'accompagnò tra le mie labbra e lo gustai con zelo, ma ebbi l'impressione di essere sfiorata in più punti allo stesso momento.
«Non fermarti», mi esortò, la voce arrochita dall'eccitazione riecheggiò tutt'intorno.
Sentivo il membro pulsare, voglioso di liberarsi nella mia bocca, ma mi bloccò tirandomi i capelli e si scostò con uno scatto secco. Mi catturò con un bacio passionale e travolgente, abbandonandosi su di me, schiacciandomi sotto il suo peso, senza farmi male.
La stessa sensazione di prima, ancor più nitida, molte mani intente a toccarmi. Scese lungo il collo, mordendomi piano e altri denti affondarono nelle mie carni, come lui in me, deciso.
Non ebbi più modo di pensare. Il nostro amplesso si consumò in una sinfonia perfetta di gemiti e sospiri, seguendo lo stesso ritmo e il medesimo tempo, lasciandomi senza fiato.
Non avevo la forza di togliermi la benda e lui si sdraiò al mio fianco senza dar segno di volerlo fare.
«Aspettavi me, vero?», domandai con tono sommesso, dopo qualche minuto.
«Da molto tempo», confermò, confondendomi di più.
«Com'è possibile? E perché le voci si tengono lontane da te?».
«Perché io sono più antico di loro», rispose atono.
Le sue dita mi sfiorarono il ventre e poi risalirono con lentezza sul petto, fermandosi sul cuore.
«A volte la solitudine nasce dal vuoto intrappolato nell'anima, per un pezzo perduto», sussurrò.
«Anche tu hai perduto qualcosa?».
«Sì... Te», mi disse bocca a bocca. «Può essere solo per stanotte o per sempre», riprese, la sua voce era una melodia ipnotica e via via più familiare. «All'alba potrai tornare alla tua vita, al tuo inferno, condannando me alla stessa sorte. Oppure, puoi diventare la mia voce, tutte le altre parleranno solo quando lo vorrai, ma tu sarai mia, soltanto mia».
Deglutii a fatica, sforzandomi di comprendere il significato di quella proposta, col cuore che pareva volermi scoppiare nel petto per la gioia.
Perché? Perché ero così felice?
Posò le labbra al centro del mio petto. Un gesto semplice e delicato, che mi ricordò qualcosa senza riuscire a metterlo fuoco. Ciononostante, capii che la mia gioia dipendeva dal vuoto che non sentivo più.
«Qual è il tuo nome?».
«Samas», confessò, restituendomi la possibilità di vedere.
Lo fissai a lungo negli occhi, infine, sorrisi.
«Per sempre».
***
Sapete quanto tempo è trascorso da quella notte? Cinquant'anni. L'unica cosa a essere cambiata è il mio abbigliamento e il supplemento da pagare per prestazioni particolari. Oltre ai soldi, si paga con anni di vita... dettaglio di poco conto per molti. Sono uscita dall'inferno, ho riempito il vuoto col pezzo mancante della mia esistenza, un frammento immortale che avevo dimenticato.
Potete trovarmi all'Hotel Sole, se avete bisogno di parlare coi morti o con gli spiriti. Chiedete di Elisa Samas e vi accompagneranno alla stanza 111.
Ho scritto questo racconto breve per partecipare a una challenge di AfterRomanceIT "La stanza del motel".
Samas è una divinità sumera, il dio del Sole e legato alla dea Ishtar. Ho quindi giocato un po' coi nomi e le simbologie.
Spero vi possa piacere ☺.
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