𝑻𝑹𝑬𝑵𝑻𝑨𝑫𝑼𝑬
SPAZIO AUTRICE
Buona sera miei cari lettori!
Ho deciso di scrivervi prima dell'inizio del capitolo solo perché non ho molto da dirvi, dato quello che andrete a leggere 👀
Spero solo che si tutto di vostro gradimento e...
Non vedo l'ora di vedere i vostri commenti 👀
Buona lettura e non dimenticate di mettere una stellina ⭐
Grazie per aver scelto di leggere la mia storia!
-imsarah_98
𝑻𝑹𝑬𝑵𝑻𝑨𝑫𝑼𝑬
«Conterò fino a dieci. Il primo che trovo, dovrà lavare i piatti»
Inginocchiato all'altezza dei suoi due fratellini, Atlas aveva spiegato le regole di Nascondino, quel gioco che tempo prima aveva appreso da un giovane viaggiatore come un modo che i bambini, presenti sulla Terra, avevano di intrattenersi.
Theon e Helene erano rimasti estasiati dal suo racconto e quindi avevano voluto provarlo immediatamente.
«Sto iniziando a contare!» urlò, voltandosi verso l'albero di ciliegio che troneggiava nel giardino della sua abitazione, mentre sentì i due correre per andare a nascondersi.
Erano da poco iniziate le vacanze per i giovani allievi dell'Accademia di Insperia.
In occasione del solstizio d'estate, avevano la possibilità di tornare dalle loro famiglie per rilassarsi e godersi quel meritato riposo, dopo la quantità innumerevole di lezioni svolte.
Una volta salutato Cassian, Theon si era fiondato nell'ufficio di Edgar per reperire alcune letture, utili per approfondire la conoscenza sui suoi poteri; mentre Helene, dopo aver passato l'interno pomeriggio a giocare con Levi e la sua sorellina, si era fermata a comprare del pane.
Entrambi si godevano quella libertà, ignari del fatto che ad aspettarli ci fosse una sorpresa.
«Saranno felici di poterti incontrare! Mi chiedono sempre di te!» aveva detto Kate rivolgendosi ad Atlas.
«Anche io non vedo l'ora di vederli, saranno cresciuti molto» rispose, baciandole la fronte e voltandosi ad osservare quella dimora.
Amava il modo in cui Kate aveva ridato vita a quel posto, un tempo distrutto.
I divani erano stati rattoppati con pezzi di stoffa colorati; la libreria nuovamente rifocillata con volumi di magia, ricettari e molti altri doni che lui stesso aveva portato dai suoi lunghi viaggi, acquistati per la maggior parte al mercato nero, unico rivenditore di oggetti provenienti dalla Terra.
Sorrise, avvicinandosi a quello che da sempre era stato l'unico ritratto di famiglia disegnato da Helene, quando aveva iniziato a comprendere la differenza tra i colori esistenti.
«Atlas!»
Non fece in tempo a inginocchiarsi che Helene gli fu subito addosso, facendo cadere alcuni pezzi di pane per terra, guadagnandosi dei rimproveri da parte della madre.
«Mi sei mancato tanto!» disse, stringendolo a sé.
«Anche tu» rispose dolcemente, lasciando un bacio sulla sua fronte.
Theon giunse qualche secondo più tardi, impilando i libri accanto all'ingresso e abbracciandolo, avvolgendo anche la sorella.
«Siete cresciuti troppo in fretta, lucciole»
Commentò poggiando le mani sulle loro piccole spalle, scrutandoli e trattenendo alcune lacrime che si erano formate ai lati delle sue pupille.
Lacrime dettate dalla felicità di essere lì, seppur per breve tempo.
«Esattamente, ma non abbastanza da comprendere le buone maniere!» si intromise Kate, indicando il disastro che avevano combinato. «Forza, riordinate tutto e poi lavate le mani, la cena sarà pronta a momenti» continuò, stringendo il fazzoletto di cotone che le copriva i capelli, ritornando vicino all'enorme pentolone in ottone presente sui fornelli.
Atlas osservò i suoi fratelli sbuffare e spingersi dolcemente, colpevolizzandosi a vicenda.
Avrebbe voluto passare più tempo con loro, godersi la loro giovinezza per un altro po', ma i doveri al castello erano più di quelli che si aspettava: la scoperta che un nuovo possessore dei salti fosse lì, aveva creato abbastanza scompiglio, e la frustrazione di non averlo ancora trovato rendeva tutto più complicato e stressante.
Per questo aveva deciso di tornare a casa a riposarsi, almeno per un po', così da rifocillarsi di quella felicità e spensieratezza che erano soliti fornirgli i suoi due fratelli.
«La cena è pronta!»
Urlò la madre, appoggiando alcuni piatti ricolmi di cibo sui rispettivi posti, richiamando i due bambini.
Entrambi decisero di sedersi accanto ad Atlas, circondandolo di amore e chiacchiere varie, riguardo tutto ciò che avevano fatto durante la sua assenza.
Alla fine della cena, si erano ritrovati a giocare e a ridere quando Theon era stato trovato, costretto a lavare tutte le stoviglie utilizzate durante il pasto.
Lacrime di gioia scesero lungo le guance di Atlas e Helene quando il fratello trattenne un conato di vomito, dopo aver toccato qualcosa di viscido sul fondo del lavandino.
Risate felici e spensierate, che adesso tuonavano nella mente dei due gemelli, nemici in quella guerra che non gli apparteneva.
Helene, riversa in una pozza di sangue, annaspava verso la spada che si trovava poco distante da lei.
Stringeva con forza quel profondo taglio che si era provocata sull'addome, causato dall'urto con le vetrate del roseto che le si erano totalmente frantumate addosso.
Spiriti neri e dallo sguardo vitreo continuavano ad emergere dal terreno sulla quale ergeva ciò che era rimasto dell'Accademia, mentre Rose, l'unica ragazza di cui avrebbe dovuto sospettare fin dall'inizio, deteneva le redini di quello scontro.
Non era stata brava nel suo compito.
Non aveva tenuto fede al giuramento che aveva fatto a Cassian.
Sarebbe morta lì, avvolta dai sensi di colpa e dalla sua stessa inettitudine.
«Non si è forti solo per i poteri che si posseggono» le aveva detto Atlas, medicandole la ferita sotto il ginocchio, dopo che si era arrampicata su un albero per poter salvare il gatto di Shaedis. «Si è forti nell'anima».
Era la sua stessa mente che stava cedendo lentamente, trascinandola in quell'unica parte della sua vita in cui era stata felice e spensierata, riportando a galla quei ricordi lontani.
Il modo in cui la morte la stava avvolgendo nel suo gelido abbraccio era stato addolcito dalla presenza di Atlas, la persona che più di tutte avrebbe voluto avere al suo fianco in quel momento.
Avrebbe sicuramente saputo cosa fare con Theon, il quale gironzolava per i corridoi di quel luogo in preda al dolore e alla pazzia.
Un'esplosione la fece riemergere da quello stato ipnotico in cui si era ritrovata.
Sollevò lo sguardo, notando poco distante un'ombra indistinta avvicinarsi velocemente.
Strabuzzò gli occhi, provando ad allontanarsi in cerca di un posto sicuro in cui rifugiarsi.
Ma, gli scarponi pesanti e sporchi di sangue le bloccarono il passaggio.
«Hel! Dobbiamo andare via da qui!» le disse Dusan, cercando di sollevarla, ignorando le sue urla di dolore. «Lo so che fa male, ma devi alzarti e camminare se vuoi vivere ancora! Aggrappati a me» continuò, trascinandola sul terreno molle.
Superarono il giardino sul retro, entrando all'interno di quei rocchi indistinti dei Wallace.
Dusan aveva fatto di tutto pur di proteggere i suoi allievi, ma nessuno era riuscito a sopravvivere.
Erano rimasti solo loro due contro l'intero esercito che gli Inferi aveva mandato.
Non sarebbero resistiti molto e per questo l'unica soluzione era raggiungere la Sala dei quattro elementi senza essere visti, e chiedere aiuto a Insperia, pregando che Cassian li accogliesse nel suo castello.
«Dove... Mi stai portando?» chiese la ragazza, mugugnando di dolore quando l'adagiò contro il muro del corridoio che conduceva in infermeria.
Si girò giusto in tempo per respingere alcune di quelle bestie malformate che si scagliarono contro di lui.
Non riusciva a distinguere il busto dalla testa, per non parlare degli arti, aventi le somiglianze di tentacoli sgonfi, pieni di pustole e verruche di pus.
Infilzò la spada in quello che capì essere il loro punto vitale, per poi ripulirla con uno dei drappeggi caduti: il loro sangue era corrosivo per ogni tipologia di materiale, per questo doveva tenere buona l'unica arma che era riuscito a salvare.
«Avanti, andiamo»
Helene si sorresse sulle sue spalle larghe, adagiandosi su uno dei primi lettini presenti in quella stanza.
Si sollevò la maglietta, ormai zuppa di sangue, osservando il liquido caldo sgorgare dalla ferita come acqua da una fonte: si stava dissanguando, e se non lo avesse fermato in tempo, avrebbe perso i senti per sempre.
«Dusan... prendi le garze» indicò il cassettino dentro la quale si trovavano.
Il ragazzo eseguì tutto nell'immediato e osservò Helen adagiarle sulla lacerazione, spruzzando sopra del cicatrizzante istantaneo, il quale si trasformò in schiuma una volta entrato in contatto con l'infezione.
«C'è... un pezzo di vetro, devi estrarlo» disse tutto in un fiato.
«Io non...»
«Fallo!»
Dusan abbandonò l'arma ai suoi piedi, sterilizzandosi in maniera frettolosa le mani sporche. Afferrò le pinze e con mano tremante, priva di qualsivoglia forma di delicatezza, divaricò leggermente la ferita, estraendo la scheggia che vi era all'interno.
«Adesso... Devi richiuderla» annaspò, arrotolando della garza. «Devi prendere dell'ago e del filo»
«Ma non ho l'anestetico»
«Posso resistere»
«Potresti svenire per il dolore Helene, lo sai meglio di me» continuava Dusan, guardandosi sempre intorno, accertandosi che non ci fosse nessuno.
«Sempre meglio che morire»
Lo guardò negli occhi, con la consapevolezza e la paura che tutto ciò che stavano affrontando stesse andando oltre il limite di sopportazione.
«Fanculo Hel!» imprecò, aprendo la cassetta del pronto soccorso presente su uno dei carrelli in metallo, posti accanto a ogni lettino.
Per evitare che potesse mordersi troppo la lingua, Helene creò un piccolo cilindro di tessuto, formato da un lembo della sua maglietta pulita e un po' di garza, infilandolo tra le labbra secche.
Dusan l'osservò per avere un'ulteriore conferma, prima di iniziare quella procedura.
Helene adagiò la testa sul cuscino, spalancando gli occhi quando l'ago spesso si infilò all'interno della sua carne macerata.
Avvertiva il sangue salirle velocemente dalla punta più estrema del suo corpo fino al cervello, pompando pesantemente nelle meningi.
Il dolore si propagò, in ogni parte.
Stringere le garze con i denti non bastava e quindi chiuse i pugni attorno al tessuto sottile del materasso, sentendo le unghie spezzarsi.
«Resisti solo un altro po', ho quasi finito»
La rassicurò Dusan, infilando per l'ultima volta l'ago all'interno della sua pelle olivastra, prima di tirare il filo e chiudere, in maniera poco chirurgica, l'intera ferita.
Gettò ancora del cicatrizzante su di essa, proteggendola con della garza pulita, impregnata con del medicinale.
La mano destra si sollevò tremante mentre sputava la benda dalla bocca.
«Aiutami... Ad alzarmi»
Dusan inspirò profondamente, prima di farle adagiare i piedi per terra.
Portò una mano sulla parte dolorante, mentre l'altra afferrò la spada che era stata adagiata sul muro, difronte al letto.
«Andiamo»
Disse, dirigendosi claudicante verso l'uscita.
Il ragazzo le si parò davanti, controllando che non ci fosse nessuno, facendole segno di seguirlo.
Si adagiavano ai muri, dedicando il loro udito a ogni singolo rumore che poteva ricondurre alla presenza di quei demoni.
Uno di questi emerse piano dal terreno, acquisendo velocità non appena li notò.
Le urla stridule di quell'essere echeggiarono nell'ambiente distrutto, mentre il rumore del metallo le scandiva come le lancette fanno con il tempo.
Helene sollevò la spada con entrambe le mani quando cominciò a correre verso di lei, intrattenendolo per quel poco che poteva mentre Dusan gli conficcò la sua arma al centro della schiena.
Il demone si accasciò a terra, divenendo cenere.
«Sali sulle mie spalle» propose il ragazzo, inginocchiandosi difronte a lei. «Saremo molto più veloci»
Helene non si trovava nella posizione di obiettare e quindi decise di eseguire quell'ordine, avvolgendo le gambe attorno ai suoi fianchi e le braccia al collo.
Le mani di lei sorreggevano le loro uniche armi, mentre Dusan si issò in piedi, iniziando a correre in direzione delle scale che li avrebbero portati verso il loro obiettivo.
Una volta giunti al centro di una delle tante sale d'accoglienza, una mandria di quei demoni si accumulò attorno a loro, intrappolandoli.
L'unica via di uscita era salire le scale.
«Devi andare» le disse Dusan, facendola scendere.
«Non ti lasciò qui, devi... Devi venire con me» rispose Helene, cercando di trascinarlo con lei su per quei gradini che le parevano improvvisamente infiniti.
«Se non rimango qui, moriremo entrambi» continuò, sollevando la spada difronte a sé. «Va' ora e non voltarti!» le urlò, prima di essere investito da quel turbinio di magia demoniaca.
Helene salì lentamente le gradinate, venendo meno all'ultimo ordine di colui che l'aveva aiutata ad affinare le sue tecniche di combattimento, fin da quando era bambina.
Lo vide lottare con tutto sé stesso prima di essere completamente sopraffatto da quell'energia troppo potente per lui.
I demoni si accumularono l'uno sull'altro, infilando ripetutamente il corpo di Dusan con i loro fendenti, prima di iniziare a strappare pezzi e lembi della carne dal corpo del ragazzo.
Le urla di dolore e disperazione terminarono in un attimo, e gli occhi spenti di vita fissavano un punto indefinito di quella sala.
Fu l'ultimo ricordo che Helene ebbe di Dusan.
Annebbiata la vista dalle lacrime di rabbia e dolore, riuscì a salire l'ultima rampa di scale, prima di ritrovare la porta della Sala semiaperta.
Theon era girato di spalle, in ginocchio, difronte all'altare di ametista, mentre dei lamenti continui e soffocati fuoriuscivano dalle sue labbra.
Non si voltò nemmeno quando Helene entrò all'interno di quell'ambiente, inciampando sui massi distrutti.
«Ti stavo aspettando» disse, in un sussurro strozzato, portandosi entrambe le mani tra i capelli.
«Che cosa hai fatto?» domandò Helene, appoggiandosi alla parete rocciosa. «Perché?»
«Non lo so» continuò, lasciando che delle lacrime scendessero lungo gli zigomi evidenti. «Non lo so» ripeté, muovendo la testa in segno di negazione.
Helene respirava a fatica e sentiva il sudore scenderle lungo le tempie e il collo, mentre la pelle emanava una temperatura più alta del solito.
Non aveva molto tempo ancora a disposizione.
Doveva trovare delle cure il prima possibile, ma non avrebbe potuto lasciare suo fratello in quello stato, seppur sapeva che non avrebbe nemmeno potuto portarlo con sé.
Per l'ennesima volta, non sapeva cosa fare.
Il ragazzo, sentendo quel silenzio insolito, si voltò verso di lei, regalandole una visione raccapricciante del suo viso una volta perfetto: gli occhi completamente neri, cerchiati da vene rosse e bagnate da lacrime del medesimo colore.
Le labbra sottili, spaccate da ferite profonde, mentre i denti si erano ingialliti e contornati da gengive corvine.
«Devi portarmi con te Helene» disse, alzandosi in piedi. «A Insperia mi cureranno e tutto tornerà come prima»
«Non posso» rispose tremante. «Mi dispiace» singhiozzò, guardandolo.
Vide l'espressione del fratello cambiare, mutando come il vento fa durante l'inverno.
La mascella si serrò, mettendo in evidenza le vene nere che, ormai, avevano preso il sopravvento sulla sua pelle lattea.
Si issò in tutta la sua altezza e prese un respiro profondo, prima di estrasse la spada dalla protezione e puntarla verso di lei.
«Vediamo se sarai ancora dispiaciuta una volta morta»
Le disse dirigendosi velocemente verso di lei.
Helene scosse la testa, proprio come faceva da bambina quando la sua mente pensava troppo alle conseguenze negative delle sue azioni, e decise di rispondere, seppur la vista fosse annebbiata dal dolore di dover combattere con il proprio fratello.
Le due spade si toccarono violentemente, facendo scintille e inchiodandola al muro.
Theon era da sempre stato più forte di lei e, in quel momento, sembrava esserlo ancora di più.
«Theon... Ti prego»
Disse a denti stretti, mentre sentiva la ferita aprirsi lentamente.
Inspirò profondamente, prima di immettere nelle sue braccia tutta la forza che possedeva in quel momento, per respingerlo.
Il ragazzo barcollò leggermente, sorridendo divertito.
Non era più lui e questo Helene lo aveva capito.
Con gli occhi puntati su quell'essere estraneo, si diresse verso lo spiraglio di luce lasciato appositamente da Cassian, ma non fu semplice raggiungerlo.
Theon attaccò nuovamente, ferendola alla gamba e costringendola ad inginocchiarsi.
«Sei sempre stata più debole di me» le disse, provando a colpirla nuovamente,
«credevi davvero di potermi battere?»
E questa volta rise, in un modo talmente raccapricciante, che ad Helene fece rizzare i peli sulle braccia.
Doveva prendere una decisione, seppur dolorosa.
Non vi era altro rimedio se voleva sopravvivere.
Avrebbe dovuto sacrificare il suo amore fraterno, per salvare entrambi.
«Mi dispiace» sussurrò ancora, perché era l'unica cosa che le veniva da dire in quel momento, ancorando gli occhi ai suoi. «Perdonami Theon»
«Per cosa? Per essere sempre così patetica?»
Ma non ascoltò oltre, poiché la parte istintiva, di sopravvivenza animalesca prese il sopravvento, facendole muovere le braccia in direzione del suo petto, nella quale si conficcò la spada dalla lama smussata.
La punta, una volta luccicante, fuoriuscì vermiglia dalla schiena, trapassandogli il cuore.
Vide il corpo del fratello cadere ai suoi piedi.
Mosse un braccio in direzione della sua figura, ma questo cadde pesantemente contro il terreno.
Helene non ebbe il tempo di rendersi conto di ciò che stava accadendo perché la vita stava abbandonando lentamente anche lei.
Gettò uno sguardo sul fianco, osservando come il liquido vitale avesse preso nuovamente a fuoriuscire, bagnandole anche i pantaloni.
Si accasciò accanto al corpo di Theon, poggiando una mano sulla sua guancia ossuta.
Gli occhi spalancati del ragazzo divennero lentamente più chiari, fino a ritornare al loro colore originale.
Quel rantolio mortale divenne la sua ninna nanna.
Il vento soffiava sornione in quella serata di fine ottobre.
Gelido e tagliente, proprio come gli sguardi presenti in quella sala.
Vedere la servitù invitata a un ballo di alta società non doveva essere una cosa comune e questo Anneka lo aveva capito benissimo.
Iphigénie sembrava farsi scivolare tutto di dosso, salutando cordialmente tutti i suoi invitati e sorridendo ogni qualvolta qualcuno le faceva i complimenti per come aveva organizzato quel ricevimento.
La sala in cui si trovavano era un luogo che Anneka non aveva avuto il piacere di visitare prima.
Era rettangolare, stretta e lunga, e appoggiati alle mura decorate con carta da parati dorata e floreale, vi erano dei tavolini, sopra la quale era possibile intrattenersi con giochi da tavolo o carte: alcuni si erano già accomodati, divertendosi e brindando a quella serata ricca di divertimento.
Anneka sorrise quando sentì i commenti di un'anziana signora giudicare quelle azioni "deplorevoli e non conformi a una signora del suo rango"; ma, dopotutto, aveva capito come Iphigénie fosse diversa dalle altre.
Pensò che se fosse nata nella stessa epoca da cui proveniva lei, sarebbe stata un'attivista perfetta.
«Vedi, mio marito odia in miei balli perché sono troppo... Anticonformisti» commentò la donna, afferrando due bicchieri in cristallo e porgendone uno anche a lei. «Amo il divertimento e amo essere libera. La mia vita è sempre stata costellata da doveri e doveri, obblighi su obblighi, ma adesso che ne sono padrona, voglio viverla come dico io!»
Le sorrise, facendo scontrare le loro bevande, prima di portare il bicchiere sulle sue labbra rosee.
Il vestito che aveva scelto le stava divinamente, per non parlare dell'acconciatura composta da trecce e fiori di lavanda che le contornavano il viso da bambola.
Gli occhi azzurri spiccavano in contrasto con la sua pelle chiara.
Il collo da cigno decorato con una collana vistosa, colorata e piena di diamanti particolari.
«Tra le sue tante cose, mio marito possiede delle miniere in America. Per questo crea anche dei gioielli che io sono costretta a portare» le aveva confessato mentre si preparavano. «Come se fossi un oggetto da esposizione»
Dal modo in cui si esprimeva, comprendeva la sua voglia di evadere e di fuggire il più lontano possibile, proprio come lei.
Comprendeva però, anche quella sensazione di doveri alla quale non si poteva sfuggire.
La piccola orchestra che aveva ingaggiato per quella serata si trovava al centro di quella sala mentre, chi avesse intenzione di improvvisare una danza, volteggiava attorno di essi, con i sorrisi dipinti sul volto.
«Madame Iphigénie, che festa meravigliosa avete organizzato»
Tre donne, dall'aspetto estremamente curato, si avvicinarono sorridendo falsamente.
Le mani, affusolate, erano coperte da guanti di seta, così come quelli che indossava la persona che stava accompagnando.
Delicatamente, sorreggevano i calici ricolmi di quello di quel liquido pregiato e frizzantino.
Anneka vide Iphigénie inspirare profondamente, prima di girarsi e sorridere di rimando.
«Vi ringrazio, spero vi divertiate»
Una cosa aveva compreso Anneka in quelle due settimane: l'apparenza era tutto in quella società corrotta.
Senza di essa, si era al pari di un moscerino che doveva essere inevitabilmente schiacciato, proprio come lei.
Cercò di evitare i loro sguardi, guardando oltre le loro spalle e osservando gli invitati che conversavano tranquillamente.
Le avevano sempre detto che i suoi occhi erano in grado di parlare, per questo non avrebbe mai voluto mettere nei guai la sua compagna.
«Vostro marito? Non è ancora tornato?» chiese quella che parve essere la più anziana.
Il petto prosperoso era compresso all'interno di un corsetto forzatamente allacciato sulla schiena, sopra una gonna dal giallo fin troppo acceso per una festa così elegante.
La parrucca, di un rosso fuoco, era adornata da alcuni gioielli e rose vere estremamente grandi.
«Purtroppo è ancora in viaggio»
Cercò di tagliare corto Iphigénie, prendendo un sorso di spumante dal bicchiere.
«Vi sentirete molto sola allora» si intromise la seconda.
Una ragazza un po' più giovane rispetto alla donna che aveva parlato prima.
Aveva comunque lo stesso modo rozzo di esprimersi, per non parlare del pessimo gusto in fatto di abiti.
«No, in realtà ho i miei amici a farmi compagnia»
«Ma non dovete preoccuparvi di chiamarli così Madame» intervenne la più piccola, sorridendo e lasciando intravedere i denti sporchi di rossetto «Non è uno scandalo avere degli amanti al giorno d'oggi, tutti li hanno»
La risata stridula fece voltare alcuni conviviali, i quali la osservarono con uno sguardo torvo.
«Anzi, i nostri mariti pregano per averne uno! Almeno non li stanchiamo troppo!»
Le risate si accentuarono e questo misero a disagio la povera Iphigénie, la quale abbassò lo sguardo sui suoi stessi guanti, giocherellando con gli anelli che aveva adagiato sopra.
Anneka aveva resistito abbastanza e, quando vide il modo in cui continuavano a stuzzicarla, non riuscì a trattenersi.
«Non mi aspettavo una così tanta volgarità da parte di donne di alta borghesia»
Commentò tagliente la ragazza, sorridendo.
«Adesso, se volete scusarci» continuò, prendendo a braccetto Iphigénie, «penso sia arrivato il momento di riempire nuovamente i calici, non trovate?»
«Non ricordavo che alla servitù fosse concesso parlare»
Rispose la più anziana, stringendo le labbra in una linea sottile.
Anneka le aveva già dato le spalle quando le rispose con l'ultima frase che le avrebbe concesso, in quanto non meritavano ulteriormente il loro tempo.
«Come è permesso alla vostre cattiverie di fuoriuscire da quelle vostre labbra raggrinzite, Madame»
Accentuò il tono su quell'ultima sillaba come a voler rendere tutto ancora più comico.
Si incamminarono verso il tavolo più ampio di tutti, sulla quale erano adagiati diverse varianti di bignè, calici ricolmi di spumante e alcune pietanze salate, per chi avesse preferito.
Iphigénie si resse con la mano sinistra al mobile, mentre quella destra si posò delicatamente sulla porzione del petto scoperto, in altezza del cuore.
Anneka le si avvicinò repentina, preoccupata che potesse svenire.
Ma, in realtà, stava ridendo e avrebbe voluto farlo a squarciagola, se poi tutti non si fossero messi a discutere di quanto sguainata potesse essere.
Le voci su di lei giravano velocemente e il marito ci aveva già messo un anno a cercare di farle tacere.
«Mi avete fatto preoccupare» le disse Anneka, sorridendo di rimando.
«Non ho mai incontrato nessuno comportarsi in questo modo! La borghesia è così ipocrita qui. Sarà l'aria inglese a darvi questa forza, non è così?»
In realtà, era stato il ricordo della cattiveria che Levi usava nelle sue parole, quando voleva schernire con classe chiunque lo intralciasse, a darle l'ispirazione.
Inevitabilmente la sua mente era tornata a lui, a dove potesse essere e se anche lui la stava aspettando, in qualche angolo del tempo.
«Vado a prendere un po' d'aria»
Le comunicò Iphigénie, lasciandola da sola.
Gi invitati erano tutti impegnati a parlare di affari, nuove scoperte scientifiche, argomenti di un certo spessore culturale. Era circondata da un pullulare di inconsapevolezza per il futuro meraviglioso che si sarebbe venuto a create, secoli più avanti.
Si fermò difronte a uno dei due specchi presenti in quella sala: era estremamente largo e alto fino a toccare il tetto, ricco di dipinti e candelabri luminosi in cristallo.
La sua superficie era talmente ampia che le permetteva di avere una visuale su tutta la stanza.
Osservò attentamente tutte le persone, i volti invecchiati in contrasto con quelli giovani e puliti.
La bellezza e l'eleganza con la quale si muovevano; quei gesti leggiadri che si sarebbero persi nell'epoca dalla quale proveniva.
E poi, come una visione all'interno di un sogno, lo vide.
I capelli pettinati all'indietro.
Il viso illuminato da un sorriso ampio e gentile, per metà nascosto dalla mano che reggeva il calice.
Il nero di quel tessuto particolare che permetteva alla sua pelle di spiccare ulteriormente.
E poi, gli occhi.
Quelle iridi che avevano ammaliato le numerose fanciulle che avevano iniziato a circondarlo.
Levi, era lì.
Anneka si voltò lentamente, osservando lo stesso luogo riflesso allo specchio, notando qualcosa di strano.
Non c'era.
Ritornò nuovamente con gli occhi sulla superficie specchiata, vedendo nuovamente la sua figura: questa volta aveva gli occhi puntati su di lei e un'espressione di incredulità si era impossessata del suo viso.
Tentò un'altra volta a girarsi, ottenendo lo stesso risultato.
Così decise di dirigersi verso la stanza adiacente a quella in cui si trovava, pensando che magari quello specchio fosse solo una vetrata che non permetteva di vedere il luogo in cui essa stessa si trovava.
Ma quando ritornò nuovamente sullo specchio e si vide rossa in viso e con il panico dipinto in volto, capì che era tutto un'illusione.
Levi era difronte a lei, eppure non riuscivano a toccarsi.
Non riuscivano a raggiungersi.
Potè solo notare le sue labbra muoversi per indicargli qualcosa, mentre con le mani sbatteva su quella superficie, senza che lei potesse sentire.
«Levi non ti capisco!» sussurrò, sperando che nessuno potesse sentirla.
-Ti sta dicendo di girarti, mia cara-
Sentì il suo odore, prima ancora di vedere il suo viso.
Caym era dietro di lei e Levi non avrebbe potuto raggiungerla.
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