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Capitolo 64

Notai con sconforto che il mio respiro fosse del tutto sbagliato.
Il mio respiro: l'unica cosa che avessi mai davvero studiato sul canto. L'unica cosa che mi avesse fatto penare così tanto. L'unica che mi avesse mai resa debole, insicura. Che mi avesse fatto dubitare anche di ciò che stessi facendo.

Io lo sapevo. Conoscevo bene il modo giusto di respirare adesso. Anche a Ingr non avevo mai smesso di impormi i soliti esercizi spacca-polmoni. Quelli alle volte anche dolorosi. Quelli capaci di lasciarmi ansimante anche semplicemente da sdraiata.

E invece eccomi: con la pancia immobile e il petto scosso da respiri prepotenti e poco profondi. Niente di più sbagliato. Eppure scelsi, per una volta, di fregarmene deliberatamente.

L'unica cosa che volli fare in quel momento fu chiamare i miei, non strozzarmi a forza di esercizi sulla respirazione. E, infatti, proprio quello provai a fare. Indossai almeno dell'intim, recuperai il telefono, e chiamai Dylan. Pregai che funzionasse. Che rispondesse. Eppure niente. Nessuno rispose. E la chiamata si chiuse automaticamente dopo neanche il primo squillo.

Richiamai ancora. E ancora. E ancora. Passai un'intera, angosciante ora, solo ascoltando il primo squillo di ogni telefonata. Poi la svolta.

«Pronto?» Rispose lui con voce tranquilla.

Ecco. Forse le mie lacrime avrebbero approfittato proprio di quella voce per fregarmi e scappare.

«Ehy...» dissi.

«Come "ehy"? Quanto cazzo bisogna aspettare per una tua chiamata?! Come va da te? Tutto bene?» Si affrettò a chiedere.

«Tutto bene. Come...» provai a domandare prima che lui mi interrompesse.

«Lo sai che la nonna ti ricorda ancora?»

E a quelle parole fu come se il mio cervello dovesse riavviarsi per un istante.

«Che vuol dire che mi ricorda?» azzardai.

«Shira, lei si ricorda di te, ti ha ricordata neanche una settimana dopo la nostra ultima chiamata. Ha provato a chiedermi di te. Avrei voluto ricordarmene anch'io.» spiegò.

Non esitai. Lo pregai di passarmela. Non seppi neanche perché ma volli sentirla più di quanto volessi sentire lui.

Durante il leggero trambusto che ci fu per cercare la nonna mi permisi finalmente di alzare lo sguardo dallo schermo del cellulare. Fu così che notai Liam appoggiato allo stipite della porta della mia camera. Quanto dovetti essere stata distratta per non sentirlo arrivare? Le ustioni potevano davvero fare questo? Rendermi un bersaglio facile?

Realizzando di essere in biancheria mi venne spontaneo coprirmi con la prima coperta a tiro prima di fargli cenno di avvicinarsi. Eppure lui non sembrò essere particolarmente attento a come fossi vestita (o svestita). Forse perché l'intimo indossato consistesse in un top sportivo e una culotte? Praticamente era un completo da palestra. Mi domandai quante ragazze avesse visto magari anche più nude di così.

Si sedette sul letto di fianco a me.

Io quello non potei certo considerarlo un look normale. Non per me che sentivo perennemente il bisogno di coprire quanta più pelle possibile. Pantaloni lunghi e una t-shirt sarebbero stati il massimo anche con trenta gradi all'ombra per me. Lui, invece, si comportava come se vedermi in quel modo fosse del tutto normale. Beato lui insomma. Almeno uno di noi due era a suo agio.

«Bella, ciao.» Sentii la nonna sorridere e improvvisamente mi pentii di averlo fatto accomodare. E se quelle lacrime mi fossero scappate per davvero?

«Come stai?» Trovai il coraggio di chiedere.

«Che domande! Noi stiamo tutti bene, è di te che mi preoccupo!» si lamentò.

Già. La mia forte, apprensiva, nonna.

«Non è una passeggiata, vero?» domandò.

Cosa avrei potuto dirle? In realtà Ingr era meglio di quanto non mi fossi immaginata. Il problema infatti era proprio quello. O almeno lo era stato fino ad allora.

«Per ora va tutto bene. A essere pesante è solo la lontananza.» La rassicurai.

«E con gli altri come va?»

Quell'unica domanda bastò a cogliermi impreparata. Anche troppo forse.

«Bene. Abbiamo... un bel rapporto.» dissi e...

Quasi sempre. Pensai invece.

Certo non avrei potuto dirle ciò cosa mi era davvero successo quella sera.

«Nessun fidanzatino neanche là?» chiese poi.

Grazie nonna. È bello sapere che anche a un'intera dimensione di distanza e con la mia vita a rischio vorrai sempre chiedermelo.

Risi imbarazzata. E adesso?

Guardai Liam. Forse proprio cercando la conferma che mi diede con un sorriso e un cenno. Mi domandai come facesse a essere tanto tranquillo. Solo io mi sentivo come se stessi per implodere?

«Sì, be'... insomma... Un amico ci sarebbe.» Abbassai lo sguardo sulle unghie con cui presi a giocherellare palesemente a disagio.

Lei rise sorpresa.

«Ma come?!» esclamò fintamente delusa.

«Solo uno?» chiese facendo girare di scatto Liam a guardarmi.

Non potei fare a meno di ridere io stessa.

Sempre la solita.

«E dimmi, è bello? Descrivilo dai. Vediamo se lo conosco. Di chi è figlio?» chiese lasciandomi interdetta.

Eccolo. Il terreno più pericoloso di tutti.
Cosa rispondere a una domanda simile? Che non sapevo neanche il suo cognome ma che era il figlio di un alcoolista? No. Decisamente. Proprio no. E sicuramente non con lui ad ascoltarmi.

Lo guardai per un istante. Poi evitai quel suo sorriso e decisi di ignorare la domanda.

«Be', è simpatico.» dissi.

O almeno inizia a diventarlo dopo sei mesi passati vendendolo ogni giorno. Pensai.

Lui sorrise.

«È un mago sai? È bravo.»

Quando non ti chiude in casa con lo scopo di farti trasformare.

«Sì, ma com'è? È bello? Una sola cosa dovevi fare: sceglierlo bene. Allora?» chiese lei.

Liam si sporse in avanti con quel solito sorriso arrogante. Tenni lo sguardo così basso che riuscii a vederlo solo con la coda dell'occhio.
Come avrei potuto restare seria con lui lì a guardarmi in quel modo? Poi evitai la domanda.

Fui sicura di ricordare che la nonna avesse un debole per il biondo.

«Be', ha i capelli castani... quasi biondi.» mentii sul finale.

Capelli che non credo di avergli mai visto in ordine. Sorrisi io stessa pensando quelle parole.

«Quasi?» domandò lei.

«E gli occhi scuri.» aggiunsi.

Già, e in quegli occhi giurerei di averci visto un'altra dimensione ancora. Una infinita e più sicura di entrambe quelle in cui abbiamo vissuto finora. Continuai a elencargli gli aspetti migliori, e solo a pensare il resto.

«Mh...» fece dubbiosa.

Al che io non seppi quasi più cosa dire.

«Ha anche un po' la faccia da bimbo...» sputai vedendo poi lui guardarmi confuso.

«Ecco! Piccola, io già non ti seguo più. Che cos'ha questo poveretto?» rise lei attraverso il telefono.

Pensai un attimo a come tradurre ciò che avevo appena detto. Ma che mi era preso? Perché non sapevo più parlare con lui ad ascoltarmi?

«La faccia da bravo ragazzo, nonna.»

E il sorriso di un truffatore.

La chiamata con la nonna non durò ancora tanto considerato che "quel poveretto" fosse lì fermo e muto da fin troppo ormai. Ma, una volta finita, non mancò poi ancora molto al disastro.

Notai semplicemente, che stesse tanto sul limite del letto che se avesse smesso, anche per un solo istante, di mettere forza nelle gambe sarebbe palesemente caduto.

Esitai. Stava cercando di lasciarmi spazio. Che sapesse già qualcosa?

Il solo pensiero mi terrorizzò e per qualche motivo assurdo sentii il bisogno di dissimulare, di fingere di star bene.

Presi un piccolo respiro cercando di convincermi a lasciarlo avvicinare. Poi parlai.

«Puoi metterti comodo se vuoi.»

Brava. Così: voce calma e fare rilassato. mi congratulai con me stessa.

Lui però non sembrò pensarla come me.

«Sicura? Lydia ha...» Provò a dire.

«Lydia è ubriaca persa. Io sto un fiore.» Lo interruppi subito sforzandomi inutilmente di convincermi a sorridere.

Non rispose. Si limitò a guardarmi. Che sperasse di farmi cedere? Be', allora avrebbe davvero dovuto mettersi comodo. Peccato che fece altro.

Si avvicinò a me. Parecchio più di quanto gli avessi mai detto io però. Mi girai. Guardai fuori dalla finestra aperta. Cercai di respirare. E...

«Vuoi che mi allontani?» domandò lui dandomi sui nervi più di quanto nessuno avesse mai fatto.

Lo guardai, decidendo istantaneamente di tenergli testa. Reggergli il gioco anche costo di morirci soffocata o bruciata da fiamme invisibili.

«No.» Fu quasi un sussurro; tanto lieve che io stessa mi domandai se ne fossi davvero convinta.

E così si avvicinò ancora.

Porca puttana...

Presi a trattenere il respiro ancora prima che appoggiasse entrambe le mani alla parete, intrappolandomi sull'angolo del mio letto. E da lì in poi fanculo qualsiasi ritegno. Mi feci piccola e strinsi forte gli occhi. Ogni singolo muscolo teso. Mi sentii come sommersa da un oceano d'acqua tanto gelata da potermi incendiare. Assurdo.

Pochi secondi dopo fortunatamente tutto finì, anche se non nel modo giusto. Lo sentii allontanarsi e mi permisi di guardare trovando con sollievo un metro abbondante tra me e lui. Ecco come finì: con me ad avergli appena confermato di essere pressoché terrorizzata. Quando invece, io stavo bene. Anzi, benissimo... finché mi stava lontano.

Si sedette distante, appoggiando la schiena alla parete. Io feci lo stesso seppur stando ben attenta a non coprire neanche un millimetro dello spazio tra di noi. Dopo glielo lessi negli occhi: c'era qualcosa a non andare anche in lui quella sera. Era strano. Qualcosa doveva essergli successo. Avrei dovuto chiedere? O magari stare solo zitta?

Nel dubbio presi a guardarlo mentre a sua volta osservava in silenzio un indefinito punto oltre la porta della mia stanza.

«C'era parecchio alcool. Penso abbiano bevendo tutti. O almeno lo facevano quando non ridevano.»disse senza girarsi a guardarmi.

Ecco. Ci risiamo. E, ancora una volta, eravamo fermi all'ennesima volta in cui provare a tirarci su l'un l'altra. L'ennesima volta in cui ci saremmo sentiti in debito con l'altro.

«Ho fissato una birra per due ore prima di prendere un sorso.» confessò.

Ecco. E ora mancavo solo io. Non potevo tirarmi indietro dopo che lui aveva parlato. Così dovetti costringermi a mettere da parte un po' d'orgoglio. L'idea di parlargliene mi disgustò più di quanto non facessero i rimasugli di vernice secca sul mio braccio.

«Lydia ha litigato con Raff e a una certa lui deve avermi nominata. Perché non piango... credo. Lei non l'ha presa bene.» Stavolta fui io a non riuscire a guardarlo in faccia.

«Cioè?» domandò.

Riluttanza: l'unica cosa che provai. Non volevo parlarne. Non volevo che sapesse. Ma non volevo neanche che si immaginasse scenari peggiori.
Quindi...

«Da sobria riuscivo a gestirla. Da ubriaca però credo abbia deciso di doversi vendicare. Poi la casa era piccola, piena di gente. Sarei dovuta uscire subito ma volevo superarla.» ammisi.

Mi resi conto di star ancora evitando il suo sguardo.

«La paura?» chiese probabilmente proprio affinché lo guardassi. E, in effetti, funzionò. Mi ritrovai con gli occhi fissi nei suoi, in quelle porte affacciate su territori sconfinati.

«Non ho paura. È diverso. È altro.»

E scuotendo la testa mi sorrise. Quella sera l'avrei picchiato forse anche più di quanto non avessi già voluto fare con sua cugina.

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