Capitolo 6
«Sai, dubitavo che mi avreste creduto così presto.» disse.
«Non che avessimo molta scelta. Eravamo tutti qui e doveva pur esserci qualcosa da fare.»
E poi io no. Io ancora non ti credo. Pensai.
Lui però sorrise. Mi credeva.
«Dici che verranno a prenderci?» gli chiesi.
Stavo decisamente facendo troppe domande.
«Lo scopriremo. Ma penso che ce ne sarà di tempo prima di andar via.»
Dato che ormai, con le stupidaggini ci avevo già dato dentro, decisi di togliermi un'ultima curiosità.
«Che tipo di arma era la sua alla fine?» chiesi.
«Sai... fin quando erano ancora tutti qui mi avevi fatto pensare di essere una che non parla poi molto...»
Aprii la bocca convinta di sapere cosa rispondere: cosa che però ovviamente non seppi.
Richiusi le labbra in un sorriso e scossi la testa.
«Ora sono io ad avere una domanda... posso?» C'era qualcosa che non andava nel suo sorrisetto.
«Certo... dimmi.» risposi.
«Perché quelle borse sotto gli occhi?» Il suo tono era calmo e gentile. Ma la frase arrivò a me dritta come una pugnalata.
Era di notte che pensavo. Era di notte che sentivo realmente il peso della mia stessa coscienza. Guardare un cielo nero aveva sempre potuto rendermi più lucida che mai. Mi faceva capire che persona io fossi nonostante io non volessi neanche.
Le borse sotto gli occhi erano il risultato del mio sonno scarso. E odiavo guardarmi allo specchio tanto quanto odiavo vergognarmene.
«Dimmi la verità. Tu non hai sonno.» Continuò.
Rimasi in silenzio guardando nient'altro che le unghie che continuavo a pizzicare e sfregare tra loro.
Non mi sarebbe pesato tanto essere una nottambula se non fosse stato per il fatto che la notte non era altro che il momento in cui andare a caccia dei miei sbagli. I peggiori.
«Lasciati andare. Devi provare una cosa.» Mi tese una mano dopo essersi alzato.
Di certo, però, questo non bastò a farmi abbassare la guardia.
«Tipo?» domandai.
E l'unica risposta che sentii non mi piacque.
«Giuro che puoi fidarti.» Continuò a tenere la mano tesa verso di me.
«Tipo?» insistetti, ancora senza guardarlo.
Tra i fruscii del fogliame lo sentii appena quando mi voltò le spalle e si allontanò di scatto.
Alzai lo sguardo e, con la coda dell'occhio, lo vidi correre verso qualcosa.
«Tipo questo!» rispose ormai già lontano e partito all'inseguimento.
Forse più per curiosità cominciai ad inseguirlo a mia volta. Rami violenti tracciarono furiosamente segni rossi e sanguinanti sulle mie gambe. Mentre io continuai a cercare di farmi strada tra la vegetazione.
Anche correndo seppi perfettamente come affrontare ogni passo e quindi, almeno dalle caviglie in giù, fui felice di non sentire il minimo taglio. Per un po', non feci altro che rincorrere la sagoma sfuggente del ragazzo. Almeno fin quando non arrivai a rendermi conto che fossimo quasi dall'altra parte della foresta.
Riuscivo a sentire il mio stesso cuore nelle orecchie intento soltanto a coprire il suono del mio respiro affannato.
La musica proveniente dal palco, al contrario, riuscivo ormai ad ascoltarla perfettamente.
E quando Raff si fermò, rigorosamente senza il minimo preavviso, per poco non gli finii addosso.
Si era lanciato sulla terra secca e polverosa di quel tratto di boscaglia senza un'apparente motivo.
Ma che diavolo di problemi ha?!
Ritenni probabile che ormai solo pochi alberi ci separassero dalla marea di gente ubriaca e comunque non mi sembrò la cosa più urgente.
Quando lui smise di darmi le spalle, notai tenesse qualcosa tra le mani.
Sistemò meglio la vaporosa palla di pelo che aveva in braccio e occhi grandi da roditore scrutarono ogni mio passo mentre lui gli accarezzava la testa.
Un coniglietto completamente bianco, tranne che per un orecchio nero, continuava a fissarmi.
«Non hai mai provato a cacciare, vero?» Sorrise.
«No. Forse però è ora di lasciarlo andare... penso abbia paura.»
Mi diede retta e mise giù l'esserino spaventato che corse via immediatamente. Dopodiché a malapena lo vidi avvicinarsi ritrovandomi subito con la schiena contro il tronco di un albero.
Sentii i suoi palmi premere sulle mie spalle per tenermi ferma lì.
Non seppi dire cosa mi diede più fastidio di quel gesto ma, un attimo dopo, i ruoli si erano già invertiti.
L'avevo preso per una spalla, premendo forte con il pollice e il medio per fargli sentire quanto più dolore possibile. Con l'altra mano l'avevo spinto e portato a girarsi.
In quel momento lo tenevo fermo contro lo stesso albero. Pur dovendo stare in piedi sulle punte per tenere l'avambraccio premuto sulla sua gola.
«Non... non sei... male.» disse respirando a fatica.
Guardai la terra ai nostri piedi, evitando i suoi occhi e lasciandolo andare. Qualcosa però mi fece pensare che stesse ancora sorridendo.
Nella mia testa continuò a ripetersi una sola domanda.
Come diavolo ho fatto?
E, in effetti, non era sbagliata. Come avevo fatto?
A sbatterlo contro l'albero, certo. Ma anche a stargli dietro mentre correva. Ero sempre stata lenta. Soprattutto durante le lezioni di educazione fisica a scuola. Ero sempre stata più concentrata sull'essere a disegno che sul correre.
«Penso di avere paura per quel tuo ragazzo se è questa la tua reazione quando ti prendono in disparte.» Rise.
Sorrisi anch'io rispondendo.
«Non me ne serve uno. Finirei per ucciderlo per sbaglio.» scherzai.
«Sai... sembri una di quelle ragazzine permalose. Quelle che si atteggiano, e magari che non vogliono essere toccate da nessun comune mortale.» Mi stuzzicò.
E dovetti pensare un attimo prima di rispondere.
«Potrei esserlo davvero»
Ma no. Non lo ero. O almeno, pensavo di non esserlo. Se lui voleva convincersi già di conoscermi però, io avrei fatto qualsiasi cosa pur di lasciare che si illudesse.
Ci avrei pensato in un secondo momento a far crollare tutte le sue certezze. E, magari, mi sarei anche concessa una risata se si fosse mostrato confuso.
Quella notte passammo davvero troppo poco tempo senza correre dietro a qualcosa (lucertola o coniglio che fosse). All'inizio quel gioco fu decisamente strano, ma ci si prendeva gusto in fretta.
E, tornata a casa, notai che la chiave fosse stata lasciata di proposito nella serratura della porta. E dall'interno poi.
Come se chi l'aveva lasciata avesse saputo della possibilità di dovermi lasciar uscire in piena notte. Mi chiesi da quante notti andasse avanti quest'abitudine. Poi la richiusi bene e andai silenziosamente in doccia prima che nella mia stanza.
Passo dopo passo, studiai i segni sulle mie gambe. Per nasconderli sarebbero bastati un paio di pantaloni lunghi.
Passai le mani sul viso cercando di rimettere a posto le idee e quello che ci trovai non fu per niente confortante. Sul mio palmo infatti, riuscii a vedere una macchia di sangue brillare nella scarsissima luce della stanza.
L'altra mano andò invece dritta all'interruttore e lo specchio davanti a me fece in modo di confermare i miei sospetti.
Avevo un graffio anche sul viso. Probabilmente fatto correndo, o liberandomi dalla presa di Raff.
E questo come lo nascondo?
Guardai la borsetta con i trucchi che stava sul ripiano dello specchio.
Desterei sospetti se cominciassi a truccarmi il viso di punto in bianco. Ma, anche se così non fosse... correttore e cipria non fanno questo genere di miracoli.
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