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3. La festa

Il mattino dopo è sabato.
Niente lavoro, niente metropoli, niente treno. Siamo io e Merlino, nella totale tranquillità della radura.

I raggi del sole si infrangono sulle pietre color sabbia del cottage, filtrando invece dai vetri delle finestrelle.
Mi trovo nel piccolo salottino, laterale all'ingresso principale; ci sono due poltroncine azzurre attorno a un tavolo basso e tondo, mentre io sto seduta sul divanetto dalla fantasia rosa salmone, di fronte al caminetto spento. I ghirigori colorati del tappetto e delle tende, ricordano tanto lo stile bohémien.
È uno spazio piccolo ma confortevole.

Si possono sentire gli uccelli cantare al di fuori, tra le fronde degli alberi, mentre sono intenta a leggere un buon libro. Merlino è acciambellato su una delle poltroncine.

Ogni tanto tiro una boccata con la mia sigaretta elettronica, perché sì, anche se vivo in mezzo al bosco, è dalla città che arrivo e qualche vizietto me lo sono portata dietro. Nell'aria aleggia una nota di tabacco vanigliato.

Oggi ho una sonnolenza infinita, questa notte non ho fatto altro che pensare a Mr. Simpatia... o meglio, Jake.
Per quanto possa fare finta, c'è qualcosa in lui che me lo rende davvero simpatico. È stato gentile nei modi, mi ha scortata fino a casa per dimostrarmi che Juniper, la volpe, è abbastanza addomesticata da seguire i suoi ordini. Ergo, non mi ha mangiato il gatto, nemmeno quando Merlino è sbucato fuori da un cespuglio.

Ci sono rimasta un po' male quando Jake mi ha salutata, scomparendo nel boschetto. Avrei avuto voglia di invitarlo per un tè o un piatto di zuppa, ma il mio orgoglio me l'ha impedito. Il mio orgoglio e la mia timidezza.

Sospiro, tornando alla realtà.
Ho riletto la stessa riga tipo quarantadue volte.
« Santa Brigida, che situazione. »

Mi sollevo dal divano e mi dirigo verso le scale. Al piano superiore c'è la mia camera da letto, con tanto di bagno personale e stanzino adibito a studio, dove tengo un portatile e un cavalletto per le tele.
Ho voglia di dipingere un po', devo solo preparare tutto il materiale sulla scrivania.

Dlin-dlon.

« Ma che cazzo. » sbotto.
Mi do un'occhiata veloce allo specchio in camera e pettino con le mani i capelli castano-ramati, lunghi fino metà schiena. Sono un disastro, indosso ancora il pigiama.
Prendo un camicione a quadri dall'armadio e infilandomelo, scendo ad aprire la porta.

Mi ritrovo davanti una coppia di anziani. Entrambi magretti e bassi, dall'aria parecchio decrepita ma con ancora la voglia di sorridere. Lui porta un paio di fondi di bottiglia al posto degli occhiali, mentre lei ha una voce leggermente stridula.

« Siamo in ritardo cara? » mi chiede lei, allungando il collo per sbirciare dentro casa.

« In ritardo per cosa? » chiedo a mia volta, strabuzzando gli occhi con inquietudine.

Ora, voi dovete capire che se già odio aver a che fare con le persone ogni santo giorno, al sabato è tutto più amplificato. La domenica c'è rischio omicidio.
In più questa coppietta di anziani sembra appena uscita da qualche libro giallo, dove alla fine si scopre che gli assassini sono proprio loro.

« Ma per la festa è ovvio! È qui la festa vero? » il vecchio fa un passo in avanti. Mi sembra brutto chiudergli la porta in faccia, ma è così insistente che mi sento parecchio tentata.

« Ma che bel gattino! » urla la donna, quando vede Merlino. Quando il gatto inizia a strusciarsi sulle sue gambe, si piega con non poca fatica per accarezzarlo. In attesa di un probabile crack lombare, le rispondo.
« Mi dispiace, qui non c'è nessuna festa. È stato un piacere. »

Sto per chiudere la porta, fregandomene altamente di Merlino e del suo vendersi così gratuitamente agli estranei, quando il vecchio punta il bastone da passeggio tra lo stipite e la porta, impedendomi così di concludere la stramba chiacchierata.
Non so perché, ma mi sento come Bilbo Baggings in una festa inattesa.

« Ma no aspetta, è impossibile. Turner ci ha parlato di una festa. Oggi non è il 28 settembre? » il vecchio pare ostinato, incredulo alla mie parole.

« Certo che lo è! Ma qui non c'è nessuna festa e nessun Turner! » spiego al limite dell'esasperazione.

« Non sei sua moglie? » mi chiede lei.
Scoppio a ridere istericamente, rimanendo sulla soglia a far da divisorio tra i due anziani e la mia casa.
« No, me ne sarei accorta. » rispondo con fermezza.
« Ma quello è un Kienzle! Non ci posso credere! Mio padre ne possedeva uno uguale! » l'uomo mi spinge con poca grazia ed entra nel salotto, gli occhi che brillano mentre osserva il mio orologio a pendolo da parete. Una delle tante cose che ho mantenuto in casa, dopo la dipartita di mia zia. Il legno ha perso il tono vivo di un tempo, ma rimane sempre un bel pezzo d'epoca.

« Quindi non ti ha invitato cara? O sei in ritardo anche tu per la festa? » pure la vecchia fa il suo ingresso in casa. Ma prego, benvenuti.
Noto ora che porta parecchie forcine in testa, tutte laccate in oro e con dei fiorellini in tessuto.

« C'è un grosso equivoco, non so di questa festa. Non ci vado. Se non le dispiace sto aspettando altri ospiti e mi dovrei preparare. » mento spudoratamente con un sorriso falsissimo stampato in faccia.

Ma la vecchia pare alquanto furba e mi afferra il polso con decisione, mentre Merlino sgattaiola verso l'uomo, che nel frattempo non ha smesso di parlare e ammirare l'orologio, creando un fastidioso brusio di sottofondo.
La donna ha una presa salda, ruvida al tatto.
« Sì, dai preparati! Metti la giacca e le scarpe che andiamo alla festa. Facci vedere dov'è... la vecchia fattoria. » insiste lei.

A quel punto sollevo le sopracciglia, stupita. Questi due hanno solo sbagliato casa, penso, se li accompagno da Mr. Simpatia potrei cavarmela in poco tempo e mettere fine a tutta questa pazzia.

« Va bene, mi dia un secondo. » sorrido cortesemente - e falsamente, liberandomi dalla presa.

Prima del sottoscala c'è quel grande appendiabiti in ferro, da cui recupero il mio parka beige e infilo i piedi in un paio di stivaletti. Al diavolo i capelli spettinati.
« Archie, vieni caro! Avrai tempo per tornare a fare visita a... come hai detto che ti chiami? » la donna si volta verso di me, assottigliando le palpebre e riducendo i suoi occhi scuri a due fessure.

« Roxanne. »

« Io sono Bernadette e lui è mio marito Archibald. È un po' sordo. »

« Ma non mi dica. »
Li accompagno fuori di casa, richiudendo la porta alle mie spalle e facendo strada verso il boschetto.

Per tutto il tragitto non fanno altro che parlare di quanto siano contenti di partecipare a una festa. Credo infatti, che sia dal 1864 che non capiti loro occasione per mettere in mostra quelle gentili dentiere e la parlantina vivace. In fondo non sono male, mi ricordano tanto zia Clarice, quella che mi ha lasciato il cottage.
Scopro anche che abitano nel paesino oltre le rotaie e possiedono un negozio di antiquariato. Ora si spiegano molte cose: l'attenzione per i dettagli del mio vecchio orologio e come siano sopravvissuti così tanto.
Non appena raggiungiamo la proprietà di Jake, mi devo fermare.

Nell'immenso giardino sono stati allestiti dei tavoli rotondi e bianchi, su cui dei camerieri stanno appoggiando diversi vassoi pieni di cibo.  C'è un piccolo chiosco in legno, dove le persone possono prendersi da bere e sotto un gazebo scorrono lunghe panche in legno, dove ci si può sedere e mangiare in compagnia. In un angolo remoto, c'è uno spazio dedicato ai bambini, dove posso correre e giocare. Il grande edificio adiacente è la casa, enorme, costruita su tre piani, tutti che si affacciano al cortile con ampie finestre. La stalla e gli altri casolari sono nascosti alla visuale, trovandosi esattamente dall'altra parte. Dalla facciata principale partono diverse decorazioni, dai colori autunnali, mentre le luci -ancora spente- corrono come addobbi natalizi lungo tutto il bordo del gazebo, agganciandosi al chioschetto in lunghe file parallele.

« Vieni, vieni! » mi richiama Bernadette.
Con passo spedito si sta addentrando nell'ammasso non indifferente di persone che già affollano il posto.
Deglutisco saliva a vuoto, mi pare di stare dentro un incubo.
La seguo, o meglio i miei piedi vanno da soli, per inerzia, perché se fosse per la mia mente avrei già girato i tacchi.
Tutte queste persone sono sicura di averle già viste da qualche parte, ma non ricordo dove. Hanno un viso familiare, chi più chi meno. In compenso, loro non sembrano riconoscere me: mi sento parecchi sguardi addosso e questo mi fa accelerare il passo.
Il profumo dei cibi cotti al forno si alterna a quello dell'acqua di colonia, qualcuno deve aver esagerato con le dosi.

Ritrovo Bernie e Archie, stanno parlando con un uomo girato di spalle.
« Eccola, vieni qui bambina! Questa è Roxanne. » la donna allunga le mani verso di me e con poca convinzione, faccio lo stesso. Prende le mie e me le stringe, rivolgendomi un caldo sorriso.
Mi sorge spontaneo anche a me, questa volta, mentre mi volto verso il suo interlocutore.

« Roxanne? » mi squadra da capo a piedi, per poi soffermarsi sul mio viso « Piacere di conoscerti, sono Jake Turner. » mi porge la mano, lo scemo, facendo finta di vedermi per la prima volta.

« Sono così contenta che vi siate conosciuti.  Roxanne è stata tanto gentile da accompagnarci qui, o io e Archie staremo ancora a fare salotto con gli scoiattoli. Archie? » Bernadette molla la presa su di me, cercando il marito con lo sguardo e poi con il resto del corpo.

Io allungo la mano destra verso Jake, stringendo saldamente la presa sulla sua. È totalmente diversa da quella di Bernadette, ci mancherebbe. È calda, grande, sembra quasi avvolgermi.

« Il piacere è tutto mio. » mi umetto le labbra lanciandogli un'occhiata di sfida.
Lui sorride e di nuovo la pancia mi si smuove. Lascio quindi la presa e infilo le mani in tasca.

« Stai facendo una festa vedo. È per la tua partenza? » ci provo con tutte le mie forze ad essere gentile, ma le parole escono prima di passare per il cervello.

In tutto ciò Bernadette sta facendo i convenevoli a un'altra coppietta, mentre suo marito ha già un bicchierino di vino rosso in mano.

« Sì, ma... È una festa di bentornato. » mi spiega Jake.

« Bentornato? Che strano, non mi ricordo di te. » mi rendo conto di essere un po' troppo tagliente nel tono.
Lui non sembra farci caso, continua a sorridermi.
« Passavo ogni estate qui, fino a qualche anno fa. Ho voluto fare una festa per ricongiungermi con tutti. Anche se... di qualcuno mi sono dimenticato. » un lampo nei suoi occhi mi fa capire che si sta riferendo a me.
Non è sarcasmo il suo, crede veramente di essersi dimenticato. In realtà io, fino a un anno fa, non avevo mai messo piede in questo posto.

« Quindi ti sei trasferito qui... definitivamente? » chiedo, cominciando a dondolarmi sulle punte dei piedi.

« Per il momento sì, dipende dal mio lavoro e... se qui mi trovo bene. » gli compare quel solito ghigno, alquanto malizioso.

Sto per ribattere quando un tipo, uno alto e biondo, gli circonda le spalle con un braccio, facendogli parecchia festa.

I due sembrano conoscersi da parecchi anni e, anche se Jake continua a tirare l'occhio verso di me, decido che forse è giunta l'ora di levare le tende.

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