#06
·Levi·
Non so quanto tempo sia trascorso da quando sono uscito, è buio, e sinceramente non mi importa nemmeno.
Alla fine, piuttosto che andare al supermercato, ho optato per un pasto veloce fermandomi in un locale non troppo distante da qui.
Cerco le chiavi di casa nelle tasche dei pantaloni, percorrendo il pianerottolo del palazzo. Arrivo davanti la porta del mio appartamento: sul pavimento, con la schiena alla parete, una figura giace seduta proprio lì accanto. Infilo le chiavi nella toppa senza scompormi, nè degnarla di un ulteriore sguardo.
«Dove sei stato?»
La serratura scatta, mentre rispondo.
«Non sei mia madre.»
Mikasa si alza seguendomi, mentre entro in casa disattivando l'allarme, e richiude la porta alle sue spalle.
«Ti ho chiamato sul cellulare.» la sua voce è piatta, come sempre.
«Ero in moto, non l'ho sentito.» rispondo secco. Non sono dell'umore adatto per dare tutte queste spiegazioni.
«Ti aspetto da ore.»
«Potevi tornare a casa.» il mio tono assume una vena irritata. Lei resta in silenzio per qualche istante, prima di dire «Devo parlarti.»
«Questo lo avevo capito.»
Mi sfilo la giacca, facendole cenno con la mano di accomodarsi in salotto sul divano. Prende posto, la sua postura è rigida e composta, e il suo sguardo non mi abbandona un attimo, mentre mi siedo sulla poltrona poco distante. Sospiro, mi sento esausto.
«Di cosa, esattamente?» mormoro stanco.
«Eren.»
La fisso, senza capire.
«Abbiamo litigato.»
«Le vostre scaramucce da mocciosi non mi riguardano.» affermo piccato portandomi alle labbra una sigaretta, accendendola.
«So del giro in moto.» afferma in modo quasi accusatorio.
Mi rilasso contro lo schienale, lasciando pigramente fuoriuscire il fumo dalle labbra, osservando un punto indefinito del soffitto.
«Quindi?»
Mia cugina inizia a tormentare la sciarpa che porta sempre al collo, spostando la sua attenzione su qualcos'altro che non sia io. Sta raccogliendo il coraggio per dirmi ciò per cui è venuta.
I suoi occhi grigi, vagamente simili ai miei, mi fissano di nuovo, con intensitá.
«Sarebbe meglio che tu ed Eren non vi vedeste più.»
Quasi mi viene da ridere.
«Meglio per chi? Per lui, o per te?» calco l'ultima parola «Non prendermi per culo, Mikasa. Non ti permettere, non te lo consento.» dico con astio.
Lei arrossisce lievemente, colta nel segno, ma cerca di non darlo a vedere.
«Entrambi, credo.»
Cala il silenzio.
«L'ho solo portato a fare un giro in motocicletta. Niente di più, niente di meno. Non vedo dove sia il problema, sinceramente. Tra l'altro non ho alcun interesse nell'approfondire la nostra conoscenza: è amico tuo, non mio. Ci siamo incontrati per puro caso.» le dico pacatamente, spegnendo la sigaretta in un posacenere lì vicino.
«Perché sei tornato, Levi?»
«Non è per farmi questa domanda, che sei venuta. Non ti interessa davvero sapere il perché.»
«Ho visto le pillole nel tuo borsone, in palestra.» immediatamente il mio umore cambia, e la guardo infastidito ed alterato per la sua mancanza di riguardo nei confronti della mia privacy «Non era mia intenzione curiosare. Ma erano abbastanza in vista.»
«Che c'è? Credi che sia un drogato?»
«Assolutamente no. Ma credo comunque che tu sia pericoloso, per lui. Non so a cosa ti servano, o cosa ti spinga a prenderle, ma è chiaro che è un periodo della tua vita in cui non sei te stesso: in passato, non ne avresti mai avuto bisogno.»
Quindi il problema è quello: è preoccupata che, in qualche modo, io possa nuocergli, fargli del male.
Mia cugina è innamorata del moccioso, si vede lontano un miglio. L'ho vista l'altro giorno: il modo in cui lo guarda, come gli parla, come il suo viso prende colore in sua presenza. Ed insieme sarebbero perfetti.
Al solo pensiero una fitta mi squarcia il petto: la loro unione, agli occhi di tutti, sarebbe la cosa più logica, giusta; eppure perché mi sembra così tremendamente sbagliata..?
«Mi piace la tua compagnia.»
Le parole del castano, quando ci siamo salutati questa mattina, mi ritornano alla mente. Quel sorriso luminoso, gli occhi vispi e sorridenti, la sua allegria e la sua cocciutaggine nel voler avere a che fare con me, quando invece i miei modi burberi ed il mio carattere misantropo avrebbero dovuto farlo fuggire a gambe levate.
Gli ho detto che ci saremmo rivisti ancora. Ma Mikasa mi guarda negli occhi, e quasi supplicandomi dice «Ti prego, giurami che gli starai lontano.»
E cedo.
«Non sono una minaccia, Mikasa, stai tranquilla. Non ho alcuna intenzione di rivedere Eren. Mai più»
━
La persona, in ginocchio davanti a me, scatta in piedi correndo verso il Lince poco distante, cogliendomi di sorpresa.
È impazzito? Non ha alcuna possibilità di fuggire, il suo è un tentativo suicida..!
Sgrano gli occhi, rendendomi conto che é proprio quella la sua intenzione: morire, trascinando con sè all'inferno quante più anime possibili.
«Fermo!» grido a squarciagola, inseguendolo tanto veloce quanto le mie gambe mi consentono, ma non è abbastanza. Quel figlio di puttana ormai è a pochi metri dal mezzo, dal quale due figure, ignare del pericolo imminente, scendono sorridenti.
Tutto si muove al rallentatore.
I miei piedi sollevano la polvere del deserto, mentre con le braccia faccio loro cenno di allontanarsi da lì, di scappare. Il fuggitivo, nel frattempo, si è disfatto della palandrana lercia e sudicia che lo ricopriva, rivelando una cintura di esplosivo avvolta intorno al suo busto. Lo vedo impugnare una granata, sfilando la spoletta che ne attiva la detonazione.
Lei si volta, il suo volto illuminato da quel sorriso fanciullesco che la caratterizza, e mi guarda con affetto mentre solleva un braccio per salutarmi.
«Via da lì, scappa!!» urlo così forte che sento i polmoni bruciare.
Il ragazzo che é con lei, nel frattempo, sembra essersi accorto del pericolo, e si affretta ad aggirare il veicolo militare cercando di portare entrambi in salvo.
La giovane spalanca gli occhi, fissando i miei che riflettono la sua paura, ed inizia a tremare.
«Fratellone!!»
È l'ultima cosa che sento, prima che l'esplosione mi sbalzi via, lontano.
Mi sento intontito: le orecchie mi fischiano, ho la vista annebbiata dal terreno e da qualcosa di scuro, rosso. Avverto un dolore lancinante al fianco destro, che tocco con cautela, e cerco di mettere a fuoco.
La divisa, il mio volto, le mani, sono completamente ricoperte di sangue. Troppo per essere solo mio.
Le urla tutt'intorno iniziano a farsi più nitide, mentre il polverone che si è sollevato inizia a diradarsi.
A fatica mi rimetto in piedi, avanzando nel caos che mi circonda, quando inciampo in qualcosa.
É una gamba.
Sollevo lo sguardo, incredulo, scandagliando l'ambiente circostante. Braccia, interiora, sangue e corpi martoriati dalla deflagrazione giacciono nel terreno dapprima arido, ora pregno del liquido cremisi dei miei compagni.
Tra quei resti macabri, scorgo le uniche cose che mai avrei voluto vedere.
La capigliatura color rubino, i suoi occhi verdi sbarrati, la piccola bocca ancora spalancata nell'ultimo grido di terrore: sembra fissarmi, la sua testa riversa tra la polvere e le pietre, staccata di netto dal corpo finito chissà dove.
Poco distante, la parte superiore del corpo del mio amico giace scomposta in una pozza di sangue, il suo viso deturpato in una smorfia di dolore.
Non è la prima volta che vedo un cadavere, sono un soldato: ho ucciso, servendo la mia patria, proteggendo la mia gente.
Eppure non sono riuscito a proteggere le persone a cui tenevo di più al mondo.
Il mio fisico e la mia mente sotto shock reagiscono nell'unico modo possibile: vomito, mentre le ginocchia mi cedono, perdendo i sensi subito dopo.
Apro gli occhi di scatto, sento il sapore della mia stessa bile in bocca, mentre tento di frenare un conato che minaccia di soffocarmi. Sono scosso da tremiti, completamente sudato e senza fiato, che cerco disperatamente di incamerare a grandi boccate. Porto le mani al viso, toccandolo, cercando tracce di sangue, polvere e morte, senza però trovarne alcuna.
Sono nel mio letto, nel mio appartamento, immerso nell'oscurità della notte.
Sento il cuore battere all'impazzata, così forte che potrebbe tranquillamente schizzare fuori dal petto.
Afferro il contenitore dei calmanti sul comodino, riversando due pillole sul palmo della mia mano che porto velocemente alle labbra, ingoiandole.
Dopo una decina di minuti iniziano a fare effetto, sento il battito cardiaco farsi più regolare ed i miei muscoli rilassarsi.
Mi passo le mani tra i capelli, afferrandoli e tirandoli con forza.
«Fanculo..!» esclamo a denti stretti, frustrato. Ho finito i sonniferi, non me ne sono reso conto per tempo, e questo è il risultato.
Controllo l'orario, la sveglia sul comodino indica le 4:55 del mattino. Sarebbe inutile tentare di dormire, così decido di alzarmi ed andare nell'unico posto che è capace di darmi un pò di sollievo, nell'inferno in cui ormai vivo.
━
Spengo la moto, lasciandola accostata al marciapiede, mentre il custode lentamente apre il grande cancello in ferro battuto. Sono le 8 in punto.
Mi avvicino, a passi lenti e misurati. Non ho alcuna fretta: qui nessuno ne ha.
L'uomo, anziano e dalla folta barba brizzolata, mi osserva mentre varco l'ingresso, salutandomi con un piccolo cenno del capo. Ricambio allo stesso modo: non ho alcuna voglia di parlare, non con lui almeno.
Passeggio sul sentiero che attraversa l'enorme prato verde, ben curato e pulito, la cui erba tagliata di fresco solleva un profumo umido. Riconosco l'enorme pioppo ai margini della strada, ed inizio ad attraversare il prato, superando le innumerevoli lastre di pietra che lo disseminano.
Quando scorgo le due sagome che cerco, sento il peso che grava sul mio petto affievolirsi, come tutte le volte che vengo qui. Mi chino, abbassando il capo, per poi osservare le fotografie in cui sorridono: felici, ignari del destino che li attendeva; pieni di speranze, progetti, sogni da realizzare. Insieme.
Accarezzo l'immagine di lei, sfiorandola con dita tremanti, desiderando toccare ancora una volta la sua pelle morbida ed ascoltare la sua risata cristallina.
«Ciao Isabel, Farlan: sono a casa.»
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