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7. Cosas ligeramente ilegales

Sono passati quattro mesi da quando sono qui, ed è da quattro mesi che "disobbedisco" a mio padre.
Tutto è iniziato quando Joaquin si è offerto di portarmi a fare un giro per Barcellona, circa agli inizi di luglio.
Mi stava accompagnando a casa quando abbiamo incontrato alcuni dei suoi compagni di squadra, che ci hanno proposto di andare al campetto dove di solito si allenano. Mio cugino sapeva perfettamente che mio padre non me lo avrebbe mai permesso, ma non so come, dopo suppliche e occhioni stile Gatto con gli Stivali, mi ritrovai seduta sull'erba del campetto accanto ad un'altra ragazza, a guardare la loro partita.
Ma non potevo sapere che quella ragazza sarebbe diventata la mia migliore amica a distanza di soli tre mesi. E non potete capire la gioia che ho provato quando ho scoperto che sarebbe venuta nella mia stessa classe.
In così poco tempo siamo diventate le classiche compagne di pazzie, che hanno dei braccialetti con le loro iniziali, che condividono la stessa passione, ma che sono l'una l'opposto dell'altra.
Basti pensare che io ho paura di parlare o toccare minimamente qualcuno, mentre Guadalupe (così la mia pazza amica si chiama) è capace di tirarti giù tutto il calendario in faccia anche se sei un perfetto sconosciuto.

Ho trascorso in pratica tutta l'estate ad uscire di nascosto con Guada e i ragazzi, a volte portando anche Lucas. Si vede che ama il calcio più di ogni altra cosa, lo capisco dal sorriso che ha mentre gioca e dopo aver giocato: è sfinito, stanco, gronda di sudore ma ha sempre quel sorriso sulle labbra.
Quando papà tornava tardi dal lavoro, trascorrevamo le serate a giocare a FIFA o a guardare le partite mangiando la pizza.

Dove sta la parte migliore?
È che la routine estiva non si è ancora spezzata. Certo, è un po' meno attiva a causa della scuola, ma non si è mai interrotta.
E io sono felice così.

•••

«Dietro al Pipus alle 16:00»
«Okay»
«Hai la scaletta?»
«Si, tranquillo cugino!»
«Ricordati il cappello e la felpa!»
«Fidati Joaq!»

Tiro su la zip della mia felpa grigia, indosso il cappello del Barça che mi ha regalato Guadalupe e copro il tutto con il cappuccio della felpa: perfetto.
Prendo da sotto il letto una scaletta in legno datami da mio cugino e la calo dalla finestra: dovrò fare un piccolo salto quando arriverò poco più sopra della portafinestra del Pipus, me la caverò.
Scavalco con cautela il davanzale e metto i piedi sul primo scalino. Mi sento peggio di 007 durante una missione segreta!
Con le mani afferro la corda della scala e comincio a scendere lentamente.

Ad un tratto non sento più niente sotto il piede sinistro e mi invade il panico. Perdo la presa con l'altro piede e cercando di soffocare un urlo stringo più forte che posso la corda.
Guardo giù per un istante: sono sotto la finestra del primo piano. Forse il saltello si trasformerà in un saltone. Devo farlo. Posso farlo.
Faccio un sospiro, mi dò una spinta e lascio la presa sulla scala.
Atterro di sedere e mi faccio un male cane, della serie mai una gioia.
Mi risistemo il cappuccio sulla testa e giro fino al retro del bar.
Ad aspettarmi trovo un gruppo di ragazzi incappucciati e uno di loro ha un pallone in mano. Gli faccio un cenno e partiamo in direzione dello stadio.
Stiamo per fare una di quelle pazzie per le quali si potrebbe rischiare la galera, e ammetto che un po' di paura ne ho, ma sia Guadalupe che i ragazzi mi hanno detto di stare tranquilla, che hanno tutto sotto controllo e non succederà niente: in fondo ci stiamo solo intrufolando al Camp Nou per giocare la solita partita di calcio, che sarà mai?
Da quando sono qui a Barcellona io e la mia ironia andiamo a braccetto, non so per quale oscuro motivo, ma è così.

•••

Sono seduta sull'erba del Camp Nou e ancora stento a crederci.
Il cuore mi batte a mille, accompagnato dal fiatone stile "ho corso quindici giri di palestra alle otto di mattina".
«Forse non è stata una buona idea accendere quel dannato telefono, vero Matias?» ironizza Guadalupe diretta al fratello.
Mentre stavamo attraversando l'ingresso, Matias ha avuto la brillante idea di mettere su la canzone di Mission Impossible, perché "gli sembrava più figo", ma per poco non ci facciamo scoprire da un energumeno della sicurezza. Abbiamo cominciato a correre finché Jorge, uno dei ragazzi, ha trovato una scorciatoia e siamo sbucati direttamente nel campo.
I ragazzi si stanno divertendo come matti e Guadalupe non fa altro che scattare foto e pubblicarle sul suo profilo Instagram.

«Ehi, Sofia, vuoi fare un tiro?» mi propone Juan, altro componente della squadra «Ehm... Non sono molto esperta» rispondo con un sorriso. In effetti a me piace molto guardare le partite di calcio, ma quando si tratta di giocare sono una totale incapace «potrei uccidere qualcuno» continuo.
Juan ride e mi prende una mano «Andiamo, non dire stronzate!» al tocco delle nostre mani arrossisco. Non intendo dire che ho una cotta per lui, assolutamente, ma mi ricorda moltissimo Davide: ha gli stessi capelli neri e gli occhi chiari, per non parlare dei tratti decisi del volto.
Scuoto la testa per scrollarmi questi pensieri di dosso e mi ritrovo in centro campo. Abbasso lo sguardo e trovo il pallone mezzo scucito e logoro di mio cugino sulla linea bianca «Prova a questa distanza» mi consiglia Juan lasciandomi la mano. Non so tirare neanche dall'area di rigore, figuriamoci da centro campo!
Faccio qualche passo indietro e calcio il pallone, che naturalmente va dappertutto tranne che in porta.
Alcuni dei ragazzi si mettono le mani tra i capelli e seguono la traiettoria della palla con lo sguardo. Poco dopo si sente un "Ahia!" e mi giro anche io a guardare.

Un ragazzo alto e dai capelli castani si tiene una mano sulla testa, il pallone che rotola ai suoi piedi. Lo colpisce e comincia a fare dei piccoli palleggi con la punta degli scarpini, per poi farlo ruotare sulla gamba. Con un calcio più potente se lo fa finire tra il collo e la schiena, sotto i nostri sguardi allibiti.
Prende il pallone tra le mani e me lo porge «Sei sicura di non esserti persa mentre cercavi un negozio di scarpe, piccola?» ironizza sorridendo. Ha dei fantastici occhi verdi, ma anche il sorriso non scherza «Assolutamente, Mister Occhi Verdi» rispondo avvicinandomi di più «visto che sei tanto bravo insegnami tu, no?» lo provoco.
I ragazzi impallidiscono e alcuni mi fanno cenno di stare zitta, ma non ne ho la minima intenzione. Mister Occhi Verdi mi si avvicina. Ormai tra noi ci sono soltanto pochi centimetri di distanza.
«Quando vuoi, bellissima» mi risponde. Arrossisco, mentre mi dà un buffetto sulla guancia e se ne torna da dove era venuto.
Mi giro e vedo che tutti gli altri hanno letteralmente la mascella a terra.
Guadalupe mi si avvicina e mi mette una mano sulla spalla «Ti rendi conto di che cosa hai appena fatto?!».

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