Capitolo 3: Multa paucis.
Multa paucis è una locuzione latina che significa letteralmente
"molte cose in poche parole."
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La domenica ha il sapore del vizio, della colazione a letto dopo un risveglio di baci e carezze, dopo una veloce, ma bisognosa, sveltina del buongiorno.
Ovviamente, tutto ciò non riguardava Sawamura Y/N: lei la domenica, invece di passarla a letto a fare l'amore, la passava a letto sicuramente, ma a dormire.
Quel giorno della settimana le aveva sempre messo addosso un'incolmabile malinconia, come se tutti i problemi le si riversassero addosso come uno tsunami e la costringessero a starsene, bagnata fradicia, in balia di un vento da nord.
Terribile, ecco l'aggettivo perfetto per descrivere la domenica: un terribile affronto architettato con il solo intento di renderla più nevrotica del solito.
Per quel motivo Y/N tentava strenuamente, ogni settimana, di limitare le ore di veglia: la notte tra il sabato e quello stramaledetto giorno veniva religiosamente trascorsa giocando online assieme a Kenma, in modo tale da passare il giorno dormendo.
O almeno, era quello che aveva sperato quando aveva chiuso gli occhi intorno alle sei del mattino.
A lei dormire era sempre piaciuto un sacco, fin da piccola aveva sempre avuto la straordinaria capacità di addormentarsi ovunque: che fosse il sedile di un treno affollato dove le voci della gente si rincorrevano in una marea di volumi diversi, il divano del salotto durante la visione di un film o perfino il banco di scuola, lei non aveva problemi a prendere sonno.
Tuttavia, quella domenica, il suo amatissimo riposo venne interrotto all'improvviso dal fastidiosissimo suono del cellulare che squillava come a voler annunciare la carica di mille cavalli impazziti: perché mai al risveglio i rumori sembrassero amplificati in maniera esponenziale, Y/N non sapeva spiegarselo.
Ancora con gli occhi chiusi e incerta se si trattasse di sogno o realtà, l'assonnata ragazza allungò un braccio fuori dal piumone invernale per afferrare quell'aggeggio infernale: senza neanche guardare, prese a scorrere il dito sul display, prima di portare l'apparecchio elettronico al suo orecchio, ancora sotto le coperte.
«Mhn?»
Quello fu il solo verso che riuscì ad emettere, ancora mezza addormentata, incapace di mettere insieme la forza necessaria per pronunciare anche la più semplice parola.
«Perché non hai risposto al mio messaggio?»
Era un incubo: doveva essere un incubo.
Quella non era la voce di Bokuto Kōtarō, non lo era assolutamente.
Lei stava semplicemente facendo un brutto sogno e quando sarebbe finito, sarebbe potuta tornare a trascorrere altre dieci ore di indisturbato sonno.
Gli attimi successivi a quella domanda, che lei non aveva neanche realmente ascoltato, troppo impegnata ad inventare tutta una serie di colorite offese verso il gufo, furono estremamente silenziosi e preoccupanti.
«Y/N-chan?»
La cosa più fastidiosa di quella chiamata non era la stessa chiamata in sé per sé, era il tono di voce del capitano della Fukurodani, chiaramente in uno dei suoi famosi momenti di abbattimento.
«Che ore sono?»
Aveva la voce impastata dal sonno, gli occhi appena socchiusi non avevano il coraggio di guardare al di là delle lenzuola la luce proveniente dall'esterno, troppo stanchi per sostenere i raggi del sole che filtravano dalle imposte.
«Le undici e trenta del mattino.»
L'altro aveva risposto come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se quella risposta non significasse che fosse praticamente l'alba, per lei, dato che aveva spento la console circa cinque ore prima, facendo un rapido calcolo.
Le opzioni che le vennero in mente furono molteplici: avrebbe potuto riattaccare e spegnere il telefono e, se un giorno lui le avesse mai dovuto chiedere una spiegazione, lei avrebbe risposto che un tram era entrato direttamente nella sua camera distruggendole il telefono.
Oppure avrebbe potuto fingere la sua morte e scappare in un paese tipicamente esotico!
Questa era decisamente la scelta che la allettava di più, diamine, sarebbe stato il paradiso: nessun Kuroo Tetsurō a tormentarla cinque giorni a settimana, nessun fratello iperprotettivo a preoccuparsi esageratamente per lei, nessun Bokuto Kōtarō a svegliarla in malo modo.
Avrebbe passato il resto della sua vita a pescare in riva ad un mare illibato e cristallino su un'isola deserta, dimenticandosi persino il suo stesso nome.
Poteva quasi sentire le onde che si infrangevano sugli scogli, il melodioso canto di qualche uccello marino e il rumore dei suoi piedi che camminavano sulla sabbia umida del tramonto.
Era così rilassante quel pensiero che le sue palpebre divennero di nuovo pesanti, si sarebbe addormentata in un lampo e magari, nei suoi sogni, sarebbe stata teletrasportata proprio su quella spiaggia.
«Y/N-chan, stavi dormendo?»
Fu la voce radiosa del gufo a risvegliarla, di nuovo, da un meraviglioso stato di pace interiore: così raro per lei.
Dopo un lunghissimo e sonoro sbadiglio, la gatta sbuffò infastidita, prima di rispondere.
«Sì.»
La sua risposta acida non sembrò deprimere per niente l'altro, anzi: Bokuto era scoppiato in una risata cristallina a pieni polmoni, cancellando totalmente il suo precedente umore nero.
«Beh, alzati adesso, dobbiamo uscire insieme!»
In piedi di fronte alla grande portafinestra di camera sua, Bokuto Kōtarō osservava le strade affollate di gente dall'alto del quinto piano di uno dei tanti palazzi di Tokyo: c'era una gran bel tempo, quella domenica di novembre.
«Dimenticatelo.»
Ormai rassegnata nel dover rimandare il meritato riposo alla sera, la manager della Nekoma si stiracchiò nelle calde coperte del suo letto a due piazze, fin troppo grande per lei sola: quando si erano trasferiti a Tokyo, lei e suo padre, quest'ultimo non aveva badato a spese.
L'aveva fatto così felice, la sua bambina, quando aveva deciso di seguirlo e lasciare la sua città natale, che aveva fatto il possibile per darle tutto ciò che meritava: la sua camera era la più grande della casa e aveva, addirittura, un bagno privato, con tanto di doccia e vasca, così avrebbe potuto scegliere che cosa utilizzare.
La verità era, più semplicemente, che un padre ama viziare sua figlia, soprattutto se questa è l'unica femmina e la più piccola di casa.
Daichi era il suo orgoglio, così inquadrato, serio e responsabile; ma Y/N era la sua gioia, con quel carattere pungente ma allo stesso tempo sensibile, dura come il diamante all'esterno e dolce come una bimba con la costante paura del buio, all'interno.
«Prima o poi cederai.»
Bokuto amava, più di ogni altra cosa, vincere: non c'era niente di paragonabile alla sensazione di vittoria, agli applausi del pubblico, l'orgoglio degli amici e dei compagni di squadra, la soddisfazione di un animo che ha lavorato duramente e ha ottenuto il risultato sperato.
Quella ragazza, che le era scivolata via dalle braccia solo una notte prima, con gli occhi velati di lacrime trattenute, era come una coppa splendente che un giorno avrebbe sollevato vittorioso: non era il tipo di persona che mollava facilmente, lui.
«Io non ne sarei così sicuro.»
Le piaceva provocare, le piacevano i giochi di parole e le sfide: Kuroo era sempre stato il suo più degno avversario e, proprio per questo, si era innamorata di lui.
Fu sufficiente quel fugace, brevissimo, pensiero a provocarle una fitta allo stomaco: quel rapporto, tra loro due, non esisteva più da mesi e, ne era sicura, non sarebbe mai più tornato come prima.
Che cosa stava facendo, adesso?
Aveva risposto in quel modo al gufo pensando di essere al telefono con Kuroo?
Stava, inconsciamente, cercando di colmare il vuoto lasciato dal corvino, con Bokuto?
«Non puoi resistere al mio fascino.»
Il capitano della Fukurodani aveva emesso un lungo sospiro e si era gettato sul letto, sorridendo con un braccio dietro la testa: quella ragazza gli piaceva, eccome se gli piaceva.
Non gli dava soddisfazione, lo respingeva come mai nessuna aveva fatto prima, giocava con lui come un felino con la sua preda e, solo un secondo dopo, si richiudeva in un silenzio spiazzante, avvolta in chissà quali pensieri.
Era un intrigante enigma: lui non era bravo a risolvere gli indovinelli, ma non si sarebbe tirato indietro finché quello stesso rompicapo non gli avrebbe rivelato la soluzione, stanco dei suoi numerosi tentativi.
«Di che fascino parli?»
La sua bocca si era automaticamente arricciata in un appena accennato sorriso, quando lui le aveva risposto a tono: Y/N si accorse che quel semisconosciuto ragazzo aveva la capacità di risollevarla, in un istante, dal profondo baratro su cui si trovava pericolosamente in bilico.
Era come se, ogni volta che sentiva il suono della sua voce allegra, uno spiraglio di luce calda e impetuosa la raggiungesse e le desse la forza e la speranza necessarie per risollevarsi il morale.
«Y/N-chan non...»
Ed ecco che, solo un momento dopo, era lui ad abbattersi: erano un'altalenante coppia di individui i cui caratteri collimavano unicamente per quei bruschi cambi d'umore.
La differenza stava nel fatto che, mentre quelli di lui erano insiti nella sua personalità, quelli di lei erano dovuti esclusivamente alla sofferenza che si portava dietro.
«...non pensi che abbia fascino?»
Bokuto aveva preso a massaggiarsi nervosamente i capelli, mentre il lato insicuro del suo animo prendeva il sopravvento.
Era sempre stato così, non poteva farci niente: passava ininterrottamente da uno stato di grande sicurezza di sé, al più completo opposto.
«Stavo scherzando, Bokuto-san.»
Dopo più di un mese dall'ultima volta in cui c'era riuscita, la manager della Nekoma era scoppiata in una risata genuina, pura e sincera.
«Lo sapevo!»
Aveva esclamato l'altro, inizialmente imbarazzato, per poi seguire a ruota la gatta in quella coinvolgente risata.
Non se ne rendevano minimamente conto, ma stavano appena cominciando a conoscersi e già sembrava chiacchierassero da una vita intera, da secoli: succede sempre, quando due si capiscono.
«Ne, Y/N-chan.»
La voce del capitano si era fatta inaspettatamente seria e profonda, quando l'aveva chiamata dopo aver ripreso fiato.
«Hai?»
Il battito del cuore di lei aveva accelerato la sua frequenza: non se lo aspettava.
Era come quando qualcuno avvisa di dover parlare di chissà che cosa e si deve rimanere con l'ansia dell'incertezza, chiedendosi quale dannatissima cosa si possa aver fatto o che cosa sia successo, finché alla fine non si rivela la sciocchezza del secolo e ci si è preoccupati per niente.
«Hai una voce sexy la mattina.»
Y/N aveva boccheggiato con le labbra semiaperte per una manciata di secondi, prima di premere con disappunto il tasto rosso sul display: rossa in volto dall'imbarazzo, aveva lanciato il telefono dall'altra parte del letto e si era coperta il viso con il piumone.
Maledizione, stavano ridendo spensierati fino ad un attimo prima, come due semplici conoscenti che scambiavano quattro innocenti chiacchiere e lui se ne veniva fuori con quell'affermazione?
Per di più lo aveva fatto con un tono roco, quasi sussurrandole all'orecchio, nel modo con cui si parlerebbe ad un amante: la manager della Nekoma non aveva sentito solamente le sue guance accaldarsi, ma un brivido le aveva percorso anche la schiena e il bassoventre.
Ancora con i palmi delle mani a coprirsi la faccia, Y/N sentì di nuovo la suoneria del suo cellulare: sullo schermo lampeggiava il nome dell'asso della Fukurodani.
«Y/N-chan perché hai riattaccato?!»
La sua voce era tornata quella di un bambino lagnoso a cui era stata appena impartita una punizione dalla madre arrabbiata.
«Ti sembra normale dire una cosa del genere?!»
Y/N aveva ancora le guance arrossate, ne era sicura e, se lo avesse avuto davanti a sé, non sapeva davvero come avrebbe potuto reagire all'imbarazzo.
Si appuntò mentalmente di fare attenzione, qualora fosse accaduto.
Accaduto che cosa, Y/N?
Oh? Era la sua coscienza che veniva a trovarla dopo mesi, quella?
Non vorrai mica insinuare di voler vedere Bokuto-san di persona?
Assolutamente no: che idiozia.
Quella era una delle cose che avrebbe voluto e dovuto evitare come la peste, la tubercolosi, tutte quelle brutte, orrende e disgustose malattie che portano un sacco di problemi.
Più precisamente, Y/N ne aveva abbastanza dell'intero universo maschile: se avesse potuto, come aveva già sognato pochi minuti prima, si sarebbe volentieri trasferita in un'isola deserta.
Anche una baita solitaria in montagna sarebbe andata bene: quel pensiero era stata solo una svista temporanea.
«Ma lo penso davvero!»
Lo straordinario asso si era sollevato a sedere sul letto, stizzito: che cosa aveva detto di male?
Era un onesto complimento, quello che le aveva fatto e, a dirla tutta, si era trattenuto dal dirle anche che, se fosse stato lì con lei, avrebbe faticato per non saltarle addosso: non erano neanche passati due giorni, da quel venerdì sera, e il ricordo del corpo della gatta a stretto contatto con il suo, gli aveva già impegnato la maggior parte dei suoi sogni.
«Dici sempre tutto quello che ti passa per la testa?!»
Era davvero incredibile, sembrava totalmente esente di buonsenso: si poteva dire che fossero due sconosciuti e lui, dopo neanche un'ora di telefonata, si metteva a flirtare con lei?
D'accordo, lo aveva fatto lei per prima, ma diamine, era ubriaca fradicia!
C'era differenza, insomma.
«...è una cosa sbagliata?»
La titubanza nella sua domanda la sorprese: Bokuto Kōtarō diceva davvero tutto quello che gli passava per la testa.
Y/N accavallò le gambe sotto il piumone, inclinò la testa di lato e prese a guardare il soffitto con aria assorta, prima di rispondere sinceramente.
«No.»
Non lo era per niente: era il silenzio, che portava drammi.
Y/N pensò che sarebbe stato magnifico se anche lei fosse riuscita, in egual modo, ad esprimere tutto ciò che provava, a dire tutto ciò che pensava, senza pensare alle conseguenze, alle tempistiche, al modo di porsi.
Senza avere il timore di ferire, di essere fraintesa: era certa che Bokuto non avesse mai paura di niente, si capiva subito che dentro al suo cuore albergava un gran coraggio.
Lei, invece, era sempre stata una codarda e una bugiarda.
Al mondo sarebbero dovuti nascere molti più gufi dai capelli a punta e gli occhi gialli e molti meno gatti ruffiani e allo stesso tempo scontrosi.
Ci sarebbero state molte meno persone a star male per una mancanza, per il terrore di sussurrare un sentimento, per un messaggio mancato al momento giusto.
Lei stessa forse, sarebbe stata più felice.
«Che cosa farai oggi, Y/N-chan?»
Era tornato ad avere il tono radioso di sempre, si era appoggiato allo schienale del letto e aveva preso in mano una palla che teneva sotto il letto, cominciando passarsela tra le mani.
«Non uscirò con te, Bokuto-san.»
Stava sorridendo Y/N, mentre, allo stesso modo del capitano, aveva poggiato la sua schiena sulla testata, prendendo a giocare con qualche ciocca dei suoi capelli h/c.
«Sai che le parole fanno male?»
Stava lievemente sorridendo il gufo, intanto che premeva il tasto del vivavoce e lanciava la palla verso il soffitto.
«Sono la mia arma migliore.»
Effettivamente, la sua lingua tagliente le era sempre stata d'aiuto, una fedele amica che non l'aveva mai abbandonata e, anche se quello era solo un gioco di provocazioni, non avrebbe perso.
«Spietata...»
Y/N rideva, rideva e rideva: quella domenica mattina, che avrebbe voluto trascorrere in compagnia di un sonno senza sogni, si era trasformata in una realtà spensierata.
Bokuto non l'aveva mai sentita ridere in quel modo: né al ritiro estivo, né due notti precedenti, e pensò, tra sé e sé, che la purezza di quella risata ripagasse tutti i suoi sforzi.
«Volevo solo sapere che cosa ti piace fare la domenica.»
Quando aveva ripreso fiato, Bokuto aveva appoggiato la palla a terra ed era tornato ad accostarsi il telefono all'orecchio: non voleva perdersi una singola parola di quella preziosa conversazione.
«Perché?»
Non che facesse niente di particolarmente stimolante, poi: nelle ore in cui era costretta a vivere, attendendo con ansia il momento in cui avrebbe ricominciato ad avvertire le palpebre pesanti e il sonno chiamarla, Y/N semplicemente passava il tempo distraendosi con cosa le capitava a tiro.
La sua curiosità, tuttavia, le impedì di non formulare quella domanda.
«Perché voglio imparare a conoscerti.»
Fu una risposta che non si aspettava minimamente, la sua sincerità la lascio spiazzata: non c'erano secondi fini, non c'era nessun doppio significato celato dietro le sue parole.
Lui voleva sapere chi fosse la manager della Nekoma, al di là dei suoi mille volti, di quel velo di rossetto rosso che ammaliava gli uomini, di quell'abbigliamento provocante che l'aveva spinto a seguirla sulla pista da ballo.
A lui, le cose superficiali non interessavano: dentro quegli occhi e/c schermati di lacrime era sicuro che ci fosse molto di più.
Lei rimase in silenzio: non c'era abituata.
Anzi, il motivo per cui si sentiva privata della parola era un altro: non si fidava.
Non aveva intenzione di lasciarsi ingannare, questa volta: anche con Wakatoshi, il suo primo ragazzo, e con Kuroo subito dopo, si era convinta che ci fosse qualcosa di più del semplice interesse sessuale e fisico, ma si era sbagliata.
A che cosa l'aveva portata quella fiducia se non ad un incolmabile dolore che continuava a tormentarla anche dopo mesi?
Non era colpa del capitano della Fukurodani, non ce l'aveva con lui, ma non poteva cancellare tutto quello che le era stato fatto in passato, erano cicatrici troppo profonde, impresse nel suo cuore, che nessuno sarebbe riuscito a guarire.
«Y/N-chan?»
Dopo qualche momento di silenzio, Bokuto guardò preoccupato lo schermo del cellulare, pensando che avesse riattaccato un'altra volta.
«Beh...mi piace leggere.»
Dopo essersi schiarita la voce con un paio di colpi di tosse per riprendersi dalla trance, disse la prima cosa che le venne in mente pensando a qualcosa che amasse fare: la lettura era, sinceramente, una delle cose che preferiva.
I libri l'avevano fatta ridere, a volte piangere, ma non l'avevano mai delusa: erano la cornice perfetta per ogni occasione e stato d'animo.
Si sentiva triste? Leggeva.
Era felice? Leggeva.
Sola, insicura, annoiata, innamorata? I libri erano una certezza.
«Ah?! Leggere?! Ma i libri sono noiosi!»
Di libri Bokuto ne aveva letti, sì e no, cinque in tutta la sua vita: obbligato dagli insegnanti in tenera età, ovviamente.
Lui non era tipo da starsene seduto in poltrona e sfogliare vecchie pagine ingiallite: aveva bisogno di muoversi, di correre, saltare, meglio ancora se su un campo di pallavolo.
Al massimo, se proprio aveva bisogno di riposarsi un'ora o due, preferiva guardarsi un bel film: quelli sì che lo appagavano.
«Hai mai provato a leggerne uno?»
Y/N era fermamente convinta che non fosse possibile odiare la lettura: chi lo affermava, lo diceva senza averci realmente mai provato.
«Sono allergico.»
Tirando su con il naso e fingendo uno starnuto, il pallavolista scoppiò un attimo dopo in un'allegra risata.
«Vorrà dire che dovrò trovare una cura alla tua allergia.»
Si morse subito dopo la lingua, lei, pentendosi di quell'affermazione: inconsapevolmente, o quasi, gli stava dando modo di pensare che quella chiacchierata domenicale potesse avere un seguito.
Solo il giorno prima l'aveva chiamato in fretta e furia per non dare adito a speranze infondate, per scusarsi del suo comportamento del venerdì notte e troncare sul nascere qualsiasi tipo di rapporto, mentre ora si metteva a fantasticare su che cosa, esattamente?
«Sarai la mia infermiera sex-»
Non le diede il tempo di rimuginare oltre: lo interruppe prima che potesse continuare e farla tornare ad arrossire violentemente.
«Non osare o attacco un'altra volta.»
Era una minaccia bella e buona, quella, ma il tono della manager era anche impercettibilmente divertito.
«VA BENE, VA BENE!»
Era scattato a sedere sul materasso agitando la mano sinistra davanti a sé, come se lei potesse vederlo dall'altro capo del telefono.
«Mi rimangio tutto.»
Erano tornati a ridere insieme: lei del suo atteggiamento goffo e impacciato, lui della sua scarsa capacità di rimanere seria e credibile.
«E comunque, al massimo, un medico.»
Aveva ripensato all'affermazione di lui, sorvolando sul contesto sessuale, e Y/N ebbe tutta l'intenzione di correggerlo.
«Eh?»
Bokuto era rimasto confuso, con un sopracciglio alzato e un'espressione perplessa.
«Non sarò un'infermiera: voglio diventare un medico.»
Si spiegò lei, ridacchiando nervosamente: perché mai aveva sentito il desiderio di dirglielo?
L'asso rimase qualche secondo in silenzio, con un sorriso soddisfatto sulle labbra.
Aveva appena scoperto un'altra cosa su di lei, e non una cosa da poco: quello era il suo sogno, il suo futuro.
Quando si confessano le proprie aspirazioni a qualcuno è come essere riusciti ad abbattere un muro importante: significa che quella persona, a cui lo stai confidando, farà quasi certamente parte di quel sogno.
Altrimenti perché dirglielo?
«Ci riuscirai sicuramente.»
Non si trattava di una frase di circostanza, non la stava incoraggiando per fare bella figura con lei: il capitano era convinto, profondamente, che con il giusto impegno si potesse ottenere tutto ciò che si desiderasse.
L'aveva lasciata di nuovo senza parole: davvero lui pensava che ne sarebbe stata capace?
Credeva in lei nonostante la conoscesse appena?
Nessuno l'aveva mai incitata, a parte la sua famiglia, neanche Kuroo: era sicura che lui sapesse del suo sogno di diventare un medico sportivo, eppure non ne avevano mai parlato, non si era mai interessato di saperne di più.
Ora che ci pensava, non le aveva nemmeno mai chiesto come trascorresse il weekend, quali fossero le sue passioni, il suo cibo o colore preferito: era più una sconosciuta per lui, che per quello strambo gufo che l'aveva fatta ridere fin dal momento in cui aveva risposto alla telefonata.
«Arigatō, Bokuto-san.»
Era un grazie dalle mille sfumature, quello: lo stava ringraziando per averla rincuorata, per averla fatta ridere, per non averle posto nessuna domanda sulle sue lacrime, sul suo comportamento di quella notte, per non averla giudicata.
Continuarono a parlare degli argomenti più disparati, a partire dai loro gusti cinematografici e musicali, del loro percorso scolastico e il rapporto con la pallavolo: l'entusiasmo di lui la trascinò in un'euforia e una contentezza generalizzata tale da farle dimenticare lo scorrere dei minuti, delle ore.
Quando Y/N guardò le lancette della sua sveglia, queste segnavano le quattordici passate: erano rimasti al telefono per più di due ore senza neanche accorgersene.
Se una persona ti fa perdere la cognizione del tempo, non è mai tempo perso.
Nel momento in cui riattaccarono, entrambi, soli nelle loro camere da letto, si ritrovarono a guardare lo schermo del proprio cellulare: un sorriso contornava le loro labbra.
La differenza tra i due arrivò, inesorabile, qualche minuto dopo: il capitano della Fukurodani si alzò dal letto ottimista e infervorato come raramente gli capitava, mentre gli occhi di lei divennero umidi.
Era stata bene, dannatamente bene, finché aveva sentito la voce dell'altro, ma quando era rimasta sola il suo dolore era tornato a tormentarla: lui non era Kuroo.
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Eccoci con il terzo capitolo: scusate se ci sto mettendo di più ad aggiornare, ma giugno si avvicina e lo studio sta impegnando tutte le mie giornate.
Y/N è combattuta: è innamorata di Kuroo, questa è una certezza, perciò non vuole illudere Bokuto e si trattiene nello sbilanciarsi, ma dall'altra parte lui riesce a farla sentire bene, spensierata.
Dopo solo qualche ora di conversazione lui è riuscito a farle dimenticare, almeno momentaneamente, l'altro, ma appena si salutano Y/N torna a soffrire: non si è accorta che solo il fatto di non pensarlo per più di un'ora è un enorme svolta, nessuno ci era riuscito prima del gufo.
Recensitemi, tesori miei, luci dei miei occhi. ◭,◭
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