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Capitolo 20: Cotidie damnatur qui semper timet.

Cotidie damnatur qui semper timet è una locuzione latina che significa letteralmente:
"l'uomo che vive nella paura è condannato ogni giorno."
▲▲▲

«Noi non siamo niente, Bokuto.»

Le aveva visto un freddo in quegli occhi e/c, che la neve fuori dal locale sarebbe sembrata il fuoco di un incendio divampante, al confronto.
Era un ghiaccio così innaturale che Bokuto Kōtarō capì immediatamente quanta menzogna si celasse dietro quelle parole.
Quello che gli fece un male devastante fu proprio il fatto che gli avesse mentito con il solo scopo di ferirlo: era qualcosa di cui lui non sarebbe mai stato capace e che non sarebbe mai stato in grado di comprendere.

Non era una persona intelligente, questo lo sapeva bene il capitano della Fukurodani, ma l'empatia va molto al di là dell'intelligenza e lui, di empatia, ne aveva da vendere. 
Fu proprio quel tratto del suo carattere la chiave per intuire il sentimento più profondo, più pericoloso e più abbondante che teneva in una morsa vigorosa il cuore di Sawamura Y/N: la paura.
Così come gli animali attaccano se impauriti, allo stesso modo l'uomo si difende, con le armi o con le parole, quando viene minacciato e subentra il timore: se non si ferisce per primi, si viene feriti.
Y/N aveva paura di lui, aveva il terrore che le squarciasse ancora di più l'anima e, per questo motivo, l'aveva azzannato prima che potesse farlo lui.
Ma come poteva pensare questo?
Come riusciva a ritenerlo capace di una cosa simile quando non aveva fatto altro che starle accanto, supportarla, consolarla?

Fin dal primo giorno di quella strana relazione Bokuto aveva combattuto con le unghie e con i denti per averla: l'aveva tartassata di chiamate e messaggi, l'aveva convinta con l'inganno, o quasi, ad uscire con lui, le aveva dimostrato pazienza, comprensione, amore.
Le aveva dato tutto senza mai pentirsi perché aveva notato una complicità particolare quel venerdì diciassette novembre in cui c'era stato un solo sguardo sincero, tra tutti quelli annebbiati dall'alcol, ma in quel singolo sguardo lui c'aveva visto qualcosa per cui valeva la pena lottare.
E l'aveva fatto nonostante le voci, le critiche, le dicerie, lo aveva continuato a fare anche con Akaashi contro, anche con tutte le carte a suo sfavore e con ogni stella o pianeta in opposizione.
Si era preso le sue lacrime, le sue risate, le sue mani, se n'era preso cura in tutti i modi che conosceva, ma non era bastato: lei non si fidava ancora.

Bokuto strinse i pugni nei palmi delle mani e distolse lo sguardo dalla figura della gatta che, fiera, sapeva non si sarebbe mai rimangiata la parola.
Si infilò il giacchetto senza dire niente e, quando tornò a guardarla, lei aveva i suoi occhi piantati nel liquido scuro all'interno del bel calice decorato.
Le sue iridi, però, erano lucide: aveva fatto più male a sé stessa che a lui, quella paura prima o poi l'avrebbe disintegrata dall'interno.

Lui si chiese, mentre usciva dal locale spalleggiato dal fedele vice, di un umore quasi più nero del suo, se sarebbe mai riuscito a vincere contro quel terrore, se Sawamura Y/N era un traguardo raggiungibile oppure se, alla fine, avrebbe dovuto rinunciarci.

☆☆☆

L'aveva fatto arrabbiare, era chiaro.
E far arrabbiare Bokuto Kōtarō era un'impresa che non pensava sarebbe mai riuscita a compiere, né aveva mai avuto il desiderio di farlo: non se lo meritava.
Quando aveva visto i suoi occhi gialli indurirsi in quel modo che non gli donava per niente, aveva sentito una morsa allo stomaco che l'avrebbe fatta rivoltare su sé stessa se non fosse stata troppo orgogliosa da resistere.
Poi aveva avvertito gli occhi inumidirsi e si era fiondata sul bicchiere che ancora teneva nella mano destra, aveva dato una lunga sorsata e con essa aveva tirato giù anche le lacrime.

«Tu e Kuroo siete identici.»
Kenma aveva ragione: era diventata ciò che aveva sempre odiato.
Kuroo aveva lasciato una ferita troppo profonda dentro di lei, un malessere e una diffidenza che avrebbero finito col farla rimanere sola e incazzata col mondo, destinata a diventare carnefice a sua volta, despota e tiranno contro qualcuno la cui innocenza non era ancora stata toccata e che aveva avuto solo la grande sfortuna di incontrare una come lei.

Che il capitano della Nekoma le avesse precluso ogni possibilità di fidarsi di un'altra persona era un pensiero a cui neanche voleva avvicinarsi, rifugiandosi invece nella speranza che, prima o poi, ci sarebbe di nuovo riuscita anche lei.
Sì, doveva convincersi di questo e riuscirci prima di perdere anche Bokuto.
La colse una tremenda fitta al cuore, di fronte a quell'idea.

«Y/N.»
Per fortuna, almeno stavolta, Kaori era intervenuta a spezzare il flusso dei suoi pensieri appena in tempo per evitare che piombasse nello sconforto più assoluto.

Il resto del tempo trascorso da quando i due ragazzi se n'erano andati, che era appena più di un'ora a dire la verità, la corvina l'aveva passato borbottando un'interminabile filippica a proposito di un argomento che già di per sé assillava Y/N: la fiducia.
Kaori aveva terminato il suo secondo bicchiere della serata fin troppo in fretta e questo l'aveva portata ad essere ad un passo dall'essere irrecuperabilmente ubriaca.
Da quel momento in poi i suoi discorsi sconclusionati andavano dall'inveire contro Akaashi, al fatto che fosse sempre stata lei quella tradita nelle relazioni  e che per questo sarebbe dovuta essere lei quella malfidata, ad altri vagheggiamenti incomprensibili e farfugliati che avevano fatto ridere la gatta un paio di volte.
Se fosse stata sobria, di certo non avrebbe riso: lei a proposito della fiducia non aveva proprio niente da ridere.

«Mh
Rigirando nella mano destra il bicchiere di vetro, facendo smuovere il liquido scuro al suo interno, Y/N non le prestò abbastanza attenzione da capire con un solo sguardo che il tema su cui stava per svoltare la chiacchierata le avrebbe fatto male: sarebbe stato il colpo decisivo in quella serata disastrosa.

«Keiji mi ha raccontato di quello che è successo con Kuroo.»
Ukai Kaori si teneva dentro la rabbia, la frustrazione, la sensazione di sentirsi impotente, da ormai una settimana: proprio lei che era un'impulsiva nata, aveva dovuto trattenersi dal chiamare la sua migliore amica e inveire, con o senza di lei, contro il capitano della Nekoma che stava rovinando non solo la sua vita, ma anche quella di Bokuto, Akaashi e Kaori stessa.
Era in parte colpa sua se Y/N non si apriva completamente a Bokuto, se non si lasciava più trasportare dalle emozioni, se non si fidava.

Y/N non era forte come voleva far credere a tutti con quel suo carattere spinoso, orgoglioso e sempre con la battuta pronta: era stata ferita e non aveva mai avuto il coraggio di affrontare quel dolore, riuscendo solo a fuggire da esso.
Anche Kaori aveva sofferto, era stata delusa, aveva pianto tanto e si era arrabbiata, ma aveva lottato per superarla: solo così ce l'aveva fatta a iniziare la sua relazione con Akaashi.
Se non si sta bene con sé stessi non si può stare bene neanche con un'altra persona e Y/N non stava per niente bene.
Di conseguenza, non stava bene neanche Kaori.

«Non ho intenzione di piangerti addosso se è questo che ti preoccupa.»
Il cuore le si era fermato nel petto quando aveva sentito ciò che Kaori le aveva detto.
Non era pronta a scontrarsi di nuovo con quel ricordo, non era disposta a parlarne, non ci era abituata e non avrebbe cominciato quella sera, in un locale di montagna dimenticato da tutti se non da coloro che vi abitavano, in compagnia della sua migliore amica mezza ubriaca e alle spalle la consapevolezza di aver fatto del male a Bokuto proprio come Kuroo aveva fatto con lei.
La buttò sull'ironia, facendo un mezzo sorriso alla corvina al suo fianco: era sempre stato il suo scudo migliore, quell'atteggiamento.

«Non tornare mai più da lui.»
Kaori aveva abbassato i suoi begli occhi ambrati sul suo calice ormai finito, la sua voce aveva assunto un tono che, almeno con Y/N, non aveva mai utilizzato: quello non era un consiglio, era un ordine.
Poi, dopo un momento di pausa, era tornata a guardarla, piantandole le pupille nere come la notte dritte nelle sue: la gatta non sarebbe riuscita a distogliere lo sguardo neanche se ci avesse provato.

«Non te lo perdonerei mai.»
Con Y/N non funzionavano le buone maniere, le carezze, gli abbracci lunghi e confortanti.
Con lei ci voleva fermezza, ci voleva qualcuno che le facesse capire cosa fosse più giusto, perché in quello stato, in quegli occhi velati dalla confusione, Kaori sapeva che sarebbe bastato pochissimo affinché Y/N sbagliasse di nuovo strada.
L'amicizia era anche e soprattutto quello, per lei: essere la sicurezza che mancava all'altra.

Kaori l'aveva colpita. 
E nel profondo, anche.
In quell'istante, mentre la guardava negli occhi, a Y/N sembrò che tutto le apparisse più chiaro, semplice come non lo aveva mai visto in tutto quel tempo: neanche Kenma ci era mai riuscito a farla sentire così.
Kuroo l'aveva fatta soffrire, non le aveva mai dimostrato di tenere a lei più di quanto un bambino possa tenere ad un giocattolo per pura infantile possessività, e lei di conseguenza non avrebbe dovuto nemmeno pensare di averci più niente a che vedere, si sarebbe solo svilita come persona, offendendo sé stessa.
Bokuto, al contrario, le aveva provato più e più volte, di essere la persona giusta: era a lui che si sarebbe dovuta affidare.
Era elementare.
Eppure, per qualche strano gioco della mente, quel ragionamento le fece male.

«Più che altro penso che uccideresti il povero Kuroo.»
Si era di nuovo gettata nel sarcasmo per nascondere il dolore: la corvina lo notò immediatamente, ma aveva ottenuto ciò che voleva.
Per una frazione di secondo aveva visto Y/N schiudere le labbra, sorpresa: aveva centrato il punto, tanto le bastava.

«Quello lo farò in ogni caso.»
Rise anche Kaori, concedendosi un attimo di respiro in quell'aria tesa al bancone marmoreo del bar, prima di tornare per un ultimo, decisivo attacco.

«E comunque dovresti sfogarti Y/N. Se non guarisci ciò che ti ha ferito sanguinerai addosso a persone che non l'hanno fatto.»
L'alcol doveva averle fatto bene, da sobria non avrebbe mai trovato le parole giuste per affrontare quell'argomento con una persona difficile come Y/N.
Lei annuì, trangugiò tutto il suo drink in un solo colpo e fece cenno al ragazzo dietro il bar di portarne altri due.

«Sto bene.»
Usotsuki, bugiarda.
Ukai Kaori la guardò un'ultima volta prima di afferrare il quarto bicchiere della serata sicura che sarebbe stato l'ultimo barlume di lucidità mentale.
Y/N mentiva ormai in modo cronico, obbligando mente e corpo ad uno sforzo immane e costante: mentiva non per alterare i fatti, ma per alterare sé stessa.
Lo faceva perché non ci voleva fare i conti, con ciò che era diventata, con la persona che disprezzava forse, e che tendeva a mascherare a qualsiasi costo.
Aveva un disperato bisogno di qualcuno che spezzasse quel meccanismo di autodifesa che aveva innescato: Kaori aveva appena fatto una crepa nel muro, ma il resto spettava solo a lei.

☆☆☆

«Shhh Kaori-chan, sveglierai tutto l'albergo!»
Barcollavano sui loro stivali alti fino al ginocchio reggendosi l'un con l'altra e sbattendo, di tanto in tanto, contro i muri dell'edificio o contro qualche vaso più o meno prezioso che fungeva da ornamento.
Kaori era definitivamente andata, l'interruttore di tutta la sua razionalità e compostezza era stato spento con l'ultima sorsata di vino bollente e lei si era lasciata andare alla più sfrenata pazzia.
Y/N, al suo fianco, inciampava sui suoi passi ridendo a più non posso: le lacrime le appannavano la vista, l'addome le faceva male per le risate e Kaori non la smetteva più di spintonarla rischiando di far cadere entrambe nel bel mezzo della hall.

Era l'una passata della notte e il receptionist ridacchiava imbarazzato e malinconico dalla sua poltrona da ufficio, osservando una gioventù che non sarebbe mai più ritornata, per lui.

«Che si sveglino, questi vecchi montanari!»
Stava urlando e neanche se ne rendeva conto.
Y/N tastò disperatamente le tasche della sua giacca cercando il telefono per documentare quella scena così rara ed esilarante: dove diavolo era quell'aggeggio quando le serviva?!

«Gliela farò vedere io!»
Si era fermata di fronte alle porte dell'ascensore con un'espressione fiera, il pugno della mano destra alzato e il petto in fuori, tronfia d'orgoglio.
Peccato che il resto della sua figura non combaciasse minimamente con le arie che si stava dando.

«Oh che la vedranno è sicuro.»
Y/N sogghignò con uno sguardo al contempo divertito e malizioso, puntando gli occhi e/c sulle cosce nude dell'amica.

«Sei mezza nuda, Kaori.»
Nel tragitto che le aveva condotte all'hotel, la corvina aveva sbandato così tanto che il vestito, già corto di per sé, si era alzato al limite della decenza.
Come avesse fatto a non avvertire il freddo pungente di quella notte rimaneva un mistero.

«Cazzo.»
Quasi fosse stata la parola d'ordine, le porte dell'ascensore si aprirono con un suono meccanico.
Y/N spinse al suo interno l'altra, ridacchiando ancora.

«Com'è che mi dici sempre?»
La gatta si era appoggiata con la schiena alla parete, aveva portato una mano sul mento con fare pensieroso e guardava Kaori con l'aria di chi si stesse divertendo un mondo: era il momento di fargliela pagare per tutte le volte che l'aveva ripresa per il linguaggio, a suo dire, scurrile.

«Vaffanculo.»
Lei, intanto, si era accovacciata per terra, le palpebre si chiudevano e si riaprivano ritmicamente, come un bambino all'ora della nanna.

«No, quella è la mia battuta.»
Le parti si erano invertite: Y/N che la sgridava e Kaori che si comportava da vero maschiaccio sboccato: esisteva, al mondo, qualcosa di più spassoso?

«Ah sì!»
Come colta da un'improvvisa illuminazione, la manager della Nekoma batté un pugno sul palmo della mano.

«"Che signorina."»
Recitò il suo ruolo imitando alla perfezione la voce dell'altra, peccato che il mattino seguente non si sarebbe ricordata assolutamente niente.

«Non addormentarti Kaori, o ti lascio qui.»
Non aveva neanche risposto, quella, troppo impegnata ad addormentarsi sulle sue stesse ginocchia: Y/N la tirò su di peso, dato che ormai erano arrivate al loro piano.

«Resta.»
Kaori le si era aggrappata addosso avvinghiando le sue braccia attorno al suo collo, tirandola verso di sé nell'ascensore.

«Scordatelo, cammina.»
Ci mancava solamente che trascorressero la notte a dormire lì: le avrebbero rinchiuse in un manicomio.
Anche se l'idea di affrontare Bokuto non era migliore di un centro psichiatrico.

Se la trascinò dietro per metà corridoio come un peso morto, mentre lei si addormentava sulla sua spalla; solo dopo che Y/N ebbe bussato un paio di volte alla camera duecento trentuno e la porta si aprì, Kaori parve risvegliarsi con un singhiozzo che sapeva di vino.

Akaashi Keiji era in piedi sulla soglia a braccia conserte, indossava un pigiama morbido a quadri scozzesi neri e blu che stranamente gli donava moltissimo e, sul naso, poggiava una montatura di occhiali da vista squadrati che gli davano un'aria ancora più seriosa del solito.

«Sei sempre stato sexy con gli occhiali.»
Kaori se ne uscì così: con uno sguardo che probabilmente nella sua mente offuscata dall'alcol doveva essere ammiccante, ma che nella realtà sembrava più quello di una malata di mente.
La gatta che la sorreggeva non era ubriaca quanto lei, ma non fu in grado di trattenersi dallo scoppiare a riderle in faccia.
La cosa che la sorprese di più fu che anche il ragazzo si mise a ridere con un velo di imbarazzo.

«Ti amo lo ste-s-so...»
Un altro singhiozzo rovinò disastrosamente anche quella dichiarazione d'amore, facendo aumentare le risate degli altri due.

«...anche se sei uno stronzo.»
Concluse in bellezza ed eleganza i suoi vaneggiamenti e, barcollando, Ukai Kaori si richiuse in un mutismo assonnato e alticcio fiondandosi dritta all'interno della camera.

«Hai, hai
Ripresosi dalle risate, il vice della Fukurodani diede due colpetti affettuosi sulla testa della sua ragazza e l'accompagnò con lo sguardo fino al letto.

«Buonanotte, Akaashi.»
Y/N sorrise, voltando le spalle a quei due che, non si sa come, formavano una coppia che andava ben al di là della perfezione: nonostante si fossero urlati contro neanche tre ore prima, adesso era tutto apposto come se non fosse mai successo niente.
Chissà se un giorno se la sarebbe meritata anche lei una relazione sana come la loro.

«Sawamura.»
Quando sentì chiamare il suo nome ebbe paura che stesse per prendersela con lei: avrebbe avuto ragione nel farlo, dato che avevano discusso per la sua brillante idea nel locale, ma non aveva la forza di reagire, non quella sera, non in quelle condizioni.

«Mi dispiace.»
Invece Akaashi Keiji si scusò: dietro lo spesso vetro degli occhiali, gli occhi del gufo esprimevano un sincero pentimento.

Nello stesso istante in cui era uscito da quel bar sarebbe voluto rientrare e abbracciare Kaori, scusarsi per il suo comportamento infantile e possessivo, chiederle di perdonarlo per la sua eccessiva gelosia, dirle che neanche per un momento aveva dubitato delle sue intenzioni: lei si stava solo divertendo, era lui ad aver esagerato.
Ma non lo aveva fatto: forse per vergogna, forse per orgoglio, questo non lo sapeva, ma rimaneva il fatto che avesse rovinato la serata a tutti.
Quando, dopo pochi metri dal locale, si era voltato alla sua sinistra per scusarsi con Bokuto, aveva capito che dovesse essere successo qualcosa pure tra lui e la gatta: il suo capitano non sembrava solo affranto, ma più...sconfitto.

«Sai, Akaashi, Kaori-chan non è come me.»
Non seppe mai spiegarsi il motivo di quello che gli disse, del perché si sentisse in dovere di sottolineare tutto ciò in cui Kaori era diversa da lei e che, sotto sotto, le invidiava da morire.

«Lei si merita tutta la fiducia del mondo e non solo.»
Forse era per ferire ancora di più sé stessa, per punirsi e ricordarsi che no, lei non si sarebbe mai meritata un amore come quello che Akaashi provava per Kaori, semplicemente perché la sua migliore amica era una persona degna di quel sentimento, al contrario suo.

«E se ogni tanto si diverte, il massimo che può fare è dire cose imbarazzanti, ma ogni tanto ne ha bisogno anche lei.»
O magari lo fece perché Kaori era sempre pronta a difenderla a spada tratta di fronte agli altri e, perciò, lo avrebbe fatto anche lei.
Ukai Kaori era brava in tutto, era una delle persone che più ammirava nell'universo, ma a volte Y/N aveva paura che quella perfezione la stesse disintegrando: ogni tanto era giusto che sbagliasse anche lei, questo Akaashi doveva capirlo.

«Arigatō.»
Non disse altro, lui, ma si limitò ad annuire e sorriderle: Sawamura Y/N non era per niente il mostro che aveva dipinto per settimane.

Non ci fu bisogno di parlare ancora, di inutili convenevoli che li avrebbero solo imbarazzati: Y/N si voltò di nuovo, proseguendo verso la porta di fianco e tentando disperatamente di aprirla.

«Quella non è la tua stanza.»
La gatta si bloccò di colpo, drizzando tutti i capelli e sentendosi avvampare in volto: perché diavolo quel maledetto di Akaashi non si era ancora chiuso in camera con la sua dannatissima ragazza?! Aveva intenzione di rimanere lì impalato tutta la notte ad osservare le sue mosse?!

«Lo sapevo.»
Ancora rossa in viso, Sawamura Y/N lo guardò assottigliando le palpebre con fare minaccioso, ripose la tessera per la stanza nella tasca del giacchetto e tentò di darsi un tono più sobrio.

«Sicura di farcel-»
Akaashi, ancora appoggiato allo stipite della porta, la guardava con un sopracciglio alzato e un mezzo sorriso sulle labbra, che si allargò quando la vide inciampare sui suoi stessi passi: era ubriaca fradicia, anche se non quanto Kaori.

«Sí.»
Riuscì a sorreggersi al muro del corridoio appena in tempo per non cadere a terra: d'accordo, forse aveva bevuto un po' troppo, ma non si sarebbe mai fatta aiutare, non da lui.

«Oyasumi, Y/N.»
Un brivido le percorse la schiena: era così ubriaca da immaginarsi le cose o Akaashi Keiji l'aveva appena chiamata per nome?

Quasi a rallentatore, Y/N sporse lo sguardo al di là delle sue spalle incontrando la figura del gufo ancora lì dove l'aveva lasciato, con le spalle dritte sul legno della porta e gli occhiali che nascondevano solo in parte un lieve rossore sulle gote di solito bianchissime.
Inghiottì a vuoto, sconvolta: l'aveva davvero chiamata per nome.

«Oyasumi, Keiji.»
Le suonò così strano dire il suo nome di battesimo, che quasi le parve di aver bestemmiato: lui, intanto, era sobbalzato sul posto.

Si squadrarono per un paio di secondi, entrambi vergognosi d'imbarazzo e impacciati come due bambini che si sono appena conosciuti.
Poi lei scosse forte la testa, come a voler cancellare ciò che era appena accaduto, aggrottò le sopracciglia e lo fissò di nuovo negli occhi.

«Akaashi.»
Si corresse decisa, annuendo: quella sì che era musica per le sue orecchie, era come se un pezzo del puzzle fosse tornato al posto giusto.

«Sawamura.»
Anche lui annuì, la guardò un'ultima volta in modo serio e si sistemò gli occhiali sul naso, chiudendo poi la porta dietro di sé: quello era il massimo che potevano fare.

Nel lungo corridoio di quell'albergo di montagna, adesso, c'era solo lei.
Si concesse di ridere per un attimo ripensando al siparietto con Akaashi, poi tornò il silenzio e, con esso, la realtà: era il momento di affrontare Bokuto.

La testa le faceva lievemente male per il continuo vorticare delle luci che sembravano non voler stare un secondo ferme, le gambe erano stanche e pesanti, complice l'aver sostenuto Kaori, ma il colpevole principale era ovviamente quel dannato vin brulé. 
Prese un profondo respiro e contò mentalmente fino a tre prima di fare un passo in avanti mantenendo l'equilibrio: non avrebbe dovuto essere difficile, non era ancora ubriaca da cadere a terra, o almeno lo sperava.
La parte più complicata era ricordarsi il numero della stanza senza fare figuracce e finire col svegliare qualche sconosciuto che sicuramente avrebbe chiamato la sicurezza dell'hotel: per la figuraccia non sarebbe più stata in grado di guardare Akaashi in faccia, piuttosto avrebbe dormito fuori in mezzo alla neve.
Da ubriaca, forse, tendeva ad essere un tantino catastrofica.

Impegnò tutta la sua rimanente lucidità mentale per riportare di fronte a sé l'immagine di quella stessa mattina, in cui Bokuto le aveva aperto la porta come un vero gentiluomo, e tentò di ricordare il numero inciso sulla targa della stanza.
Duecento trenta e qualcosa: fu il solo numero che riuscì a rammentare.
Akaashi l'aveva fermata di fronte alla duecento trentatré, perciò almeno quella poté escluderla: si ricordava, inoltre, che anche la loro stanza era sulla parte destra del corridoio, perciò rimanevano solo la duecento trentacinque, la duecento trentasette e la duecento trentanove.

Non le restava che giocare la fortuna: si fiondò su quella nel mezzo, pregando gli dei affinché fosse quella giusta.

«Perché non possono fare delle chiavi normali invece che queste maledet-»
Stava litigando con una tessera magnetica: già solo questo avrebbe fatto capire anche ad un cieco il suo stato di sbornia.
Eppure le risultava impossibile arrivare a capire, in quelle condizioni, dove diavolo andasse infilata per far scattare quella maledetta serratura.
Forse era la camera sbagliata ed era per quel motivo che non si apriva: fu sul punto di arrendersi quando sentì un rumore provenire dall'interno.
Ecco, era successo quello che temeva: adesso l'avrebbero sbattuta fuori.

«Oh
Ma quando la porta si spalancò di colpo non dandole nemmeno il tempo di svignarsela, di fronte a lei non c'era uno sconosciuto, ma il capitano della Fukurodani.
Quando i loro occhi si incontrarono Y/N pensò che, probabilmente, avrebbe preferito dormire all'esterno piuttosto che scontrarsi con quello sguardo così imperturbabile.

«Arigatō.»
Lo ringraziò, ma lui non le rispose neanche.
Bokuto era ancora vestito come quando aveva lasciato il locale, le voltò le spalle e si sdraiò sopra le coperte senza dirle una sola parola, senza degnarla di un altro sguardo: lo sentiva così distante che Y/N ebbe l'impressione che non sarebbe mai più riuscita a raggiungerlo.

Chiuse la porta dietro di sé, appoggiandosi con la schiena ad essa: che cosa avrebbe dovuto fare, ora?

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Mi sono fatta attendere più del dovuto e di questo mi dispiace, ma almeno ho passato l'esame e sarò tranquilla per un bel po'.

È arrivato il momento del confronto, ma prima volevo distendere un po' gli animi con questo capitolo (spero, almeno un pochino) divertente.

Bacini, amori miei, mi siete mancati come l'aria. ❤️

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