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Capitolo 15: Dolor hic tibi proderit olim.

Dolor hic tibi proderit olim è una locuzione latina che significa letteralmente:
"un giorno questo dolore ti sarà utile."
▲▲▲

Nevicava.
Non aveva visto un singolo fiocco di neve per tutta la prima metà del mese e proprio quel venerdì il cielo aveva deciso di scaricare su Tokyo la prima nevicata della stagione.

Y/N aveva freddo: non tanto perché la temperatura era di zero gradi precisi, ma piuttosto per il fatto che era uscita dalla palestra senza curarsi di prendere neanche una delle sue cose, compresa la giacca.

Non sapeva bene come ci fosse arrivata a correre lungo il conosciuto viale del suo quartiere, fatto sta che sentiva ancora lacrime calde sgorgare copiosamente sul suo volto, che facevano a gara con la neve gelida per bagnare la sua pelle e farla tremare ad ogni passo.
Forse non erano tremiti di freddo, forse non era colpa della frizzante aria dicembrina se si sentiva un gran gelo addosso, come se il calore della felicità dell'intero pianeta fosse stata portata via da un essere malvagio, molto probabilmente il suo malessere era dovuto, perlopiù, a quello che era accaduto.

Ogni respiro le provocava un nuovo singhiozzo, seguito dalla sensazione dolorosa di tanti piccoli spilli che le perforavano i polmoni, ogni passo era sfuocato dalla vista annebbiata di una nuova lacrima, ogni minuto che passava risentiva la voce di Kuroo nei timpani.

Cos'è, sei diventata la sua puttana, adesso?

Ed era una nuova, devastante, fitta al cuore.
Non aveva sentito nient'altro da quel momento, solo il battito cardiaco prima accelerato, poi più lento per qualche minuto nella metro, poi ancora veloce quando era sicura di potersi lasciare andare di nuovo senza che le lanciassero sguardi preoccupati o incuriositi.
Quel tamburo assordante nel petto si alternava al rimbombo della voce del capitano della Nekoma che la lacerava incessantemente, senza darle tempo di curare quella ferita profonda che, probabilmente, non sarebbe mai guarita del tutto.

Era come rivivere la storia con Wakatoshi, anzi no, era molto peggio: lei non aveva mai amato Ushijima, da entrambe le parti c'era sempre e solo stata superficiale attrazione fisica, mentre Kuroo era stato il primo di cui si fosse innamorata.

I suoi pensieri si scavalcavano l'un l'altro nel tentativo di giungere per primi alla ragione e trovare una risposta, era un susseguirsi di domande che la trafiggevano da parte a parte come una pioggia di frecce acuminate.
Si chiedeva come avrebbe fatto ad amare qualcun altro dopo essere stata ferita in quel modo, si domandava come avesse potuto spingersi tanto oltre, Kuroo, dopo quello che erano stati, sempre che per lui fossero mai stati qualcosa, si interrogava su come si sarebbe dovuta comportare da ora in poi e se l'avrebbe mai superata.
Ora come ora, se pensava al perdono, la testa le faceva male, lo stomaco le si contorceva e il cuore sembrava sul punto di scoppiare.
Non poteva perdonarlo.

Quando giunse di fronte alla porta in legno bianco della sua abitazione era ormai zuppa come se si fosse divertita a tuffarsi in una delle tante fontane ghiacciate della città, le punte delle dita erano così pallide da sembrare sul punto di diventare trasparenti come quelle di un fantasma.

Suonò il campanello, sperando che suo padre fosse in casa e non lo fosse contemporaneamente: da una parte rimanere ancora un po' là fuori con solo la tuta della Nekoma addosso avrebbe significato morire congelata, dall'altra non aveva alcuna intenzione di dare spiegazioni riguardo i suoi occhi gonfi.

«Y/N-chan?»
Il signor Sawamura doveva essere rincasato da poco, indossava ancora la cravatta e la giacca elegante, come era solito fare per le riunioni più importanti.
Y/N sulla soglia della porta era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di vedere quel pomeriggio: era raro che tornasse così presto dagli allenamenti, soprattutto il venerdì.

Sua figlia non gli diede molto tempo di soffermarsi su quella stranezza: in un millesimo di secondo era sgattaiolata in casa, sorpassandolo con velocità, ma quei passi affrettati e la zip della giacca chiusa fin sopra il naso non gli avevano impedito di notare che fosse fradicia, tremante e profondamente triste.

«Che cosa è successo?»
Suo padre aveva sempre avuto la straordinaria capacità di apparire calmo e posato, quando ce n'era bisogno: naturalmente era preoccupato per sua figlia, ma la conosceva abbastanza bene da sapere che mostrarsi allarmato e angosciato non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.

Quel tratto del carattere, la sua forte empatia, l'aveva trasmessa al suo primogenito e di questo Y/N gli era sinceramente grata: non sapeva davvero come avrebbe fatto senza i due uomini più importanti della sua vita.
Fu tentata di gettarsi tra le braccia di suo padre, di piangere e sfogarsi, ma non poteva farlo: come avrebbe potuto capire? 

«Ho scordato di prendere le mie cose e gli dei hanno deciso che era il momento giusto per mandar giù una bufera di neve.»
L'ironia non era riuscita a nascondere la sua voce spezzata, né il singhiozzo che era sfuggito al suo controllo dopo aver saltato i primi due scalini credendo di averla fatta franca: poteva evitare di farsi vedere in volto quanto le pareva, salire la scala quanto più velocemente potesse, ma suo padre non si sarebbe lasciato ingannare.

«Y/N...»
Fece come per seguirla al piano superiore, il piede destro era già sul punto di salire il secondo scalino, quando lei lo interruppe prima che potesse farlo.

«Otousan, onegai
Era raro che la secondogenita pregasse qualcuno, orgogliosa com'era: di solito preferiva sbraitare, urlare o arrabbiarsi come una furia come reazione al dolore, magari sbattendosi la porta alle spalle e sfogandosi da sola per un'ora o due, per poi far finta di niente.
L'aveva sentita rivolgersi, con quel tono di voce stanco e affranto, solo ad una persona, l'unica persona al mondo che fosse mai riuscita a consolarla: suo fratello maggiore.

Il signor Sawamura si era arreso sul quarto gradino, quando aveva sentito la serratura della porta della figlia scattare e aveva sospirato, sconsolato: Daichi, quel giorno, non ci sarebbe stato e lui non era la persona adatta a sostituire quella mancanza.

I brevi momenti trascorsi tra la porta d'ingresso e quella della sua camera erano stati, per Y/N, infernali: una volta chiusasi la porta alle spalle e sicura, adesso, di poter lasciarsi andare, le lacrime ripresero a scivolarle dagli occhi.
Tirò su con il naso un paio di volte cercando di calmarsi, tentò di fermare quel pianto disperato asciugandosi le palpebre con la manica, poi, alla fine, si arrese: fece scivolare la schiena lungo la porta alle sue spalle e si rannicchiò sulle ginocchia, affondandovi la faccia e attutendo il suono dei singhiozzi.

Pianse tanto, pianse così a lungo che credette, ad un certo punto, di aver esaurito le lacrime.
Finché ad un tratto aveva smesso ed era finalmente giunta a quella strana sorta di malinconia, quella calma, il presentimento che da quel momento in poi non sarebbe più accaduto niente.
Aveva sollevato il capo e, ancora con il mento appoggiato sulle gambe strette contro il petto, aveva iniziato a guardare fuori dalla finestra: nevicava ancora.

Gli occhi bruciavano un sacco, eppure non riusciva a tenerli chiusi, non riusciva a sbattere neanche più di tanto le ciglia per la paura di tornare a piangere.
Sapeva che quella era solo una momentanea tregua, che il terrore dietro quelle lacrime, i dubbi, il dolore, sarebbero tornati a tormentarla quando sarebbe stata di nuovo sola come quel tardo pomeriggio: non sarebbe mai scomparso il male che le aveva fatto Kuroo, non l'avrebbe uccisa e avrebbe continuato a torturarla.

Sospirò, tremando appena: una doccia calda, forse, l'avrebbe distratta almeno dal gelo che si era spinto fino alle sue ossa.
Al freddo che arrivava da dentro, invece, ci avrebbe pensato più tardi.

☆☆☆

«Bokuto-san.»
Il capitano era rimasto per qualche secondo immobile ad osservare le spalle del suo migliore amico allontanarsi verso la figura di Yamaka Mika domandandosi se Kuroo, prima o poi, sarebbe riuscito a perdonarsi.
Era stato distratto da quella domanda e quel senso di pietà per il corvino dal suo vice, che si era avvicinato alla sua destra: Akaashi aveva un mezzo sorriso sulle labbra fini, mentre gli porgeva gli effetti personali della manager della Nekoma.

Dietro quel sorriso c'era tutto quello che l'alzatore della Fukurodani non sarebbe mai stato in grado di dirgli a parole, non ce n'era bisogno: era fiero di lui, del modo in cui aveva parlato a Kuroo, nei suoi occhi chiari brillava l'ammirazione e l'orgoglio di avere un capitano come Bokuto.
In quella mano sporta verso di lui c'era, poi, un solo silenzioso ordine: va' da lei.

«Arigatō, Akaashi.»
Bokuto aveva sorriso e poi annuito, prima di raccogliere dalle mani dell'altro ciò che gli stava porgendo e avviarsi, con passo fermo e veloce, verso il parcheggio appena fuori dai cancelli del liceo Nekoma.

Sarebbe stato difficile, se non addirittura impossibile, curare quel cuore che era stato così a lungo maltrattato, ferito, lacerato, ma lui era Bokuto Kōtarō: lui poteva fare qualsiasi cosa.

Era sempre vero che tendeva ad abbattersi facilmente, che dubitava spesso delle sue capacità e che, il più delle volte, non era in grado di reagire di fronte ai fallimenti.
Ma stavolta era diverso: la questione non riguardava propriamente lui stesso, ma Sawamura Y/N.

Non temeva di fallire semplicemente perché non aveva intenzione di farlo, era troppo alta la posta in gioco.
Non aveva paura di farle del male perché era certo che non ne sarebbe mai stato capace.
Non aveva dubbi su ciò che avrebbe o non avrebbe dovuto fare perché lo aveva deciso fin da quel venerdì diciassette novembre, che ora sembrava lontano anni luce: lui sarebbe stato, per lei, la storia d'amore che si legge solo nei grandi romanzi.

Sorrise, il capitano della Fukurodani, stringendo con la mano sinistra il volante della sua auto sportiva: era determinato, ora più che mai, a lottare per conquistarla definitivamente.

Gettò una rapida occhiata al sedile del passeggero, dove la piccola cartellina in cuoio della gatta e la sua giacca rossa non facevano altro che aumentare la sua voglia di vederla, di asciugare quelle lacrime che era sicuro stessero ancora scendendo a fiotti dai suoi occhi.

Avrebbe voluto avere la capacità di teletrasportarsi, di arrivare immediatamente di fronte a lei e portarla via il prima possibile dalla disperazione in cui si era avvolta.
Invece dovette rassegnarsi al traffico dell'ora di punta, peggiorato per via delle condizioni meteo, e attendere, non troppo pazientemente, di arrivare a destinazione.

Quando, finalmente, scorse la casa di lei, un manto di neve fresca aveva già incorniciato il tetto di un bianco candore.
C'era silenzio in tutto il quartiere, quella sera, e i fiocchi continuavano imperterriti la loro discesa, decisi a trasformare completamente il paesaggio di Tokyo entro l'indomani mattina; nel momento in cui il gufo suonò il citofono, gli parve quasi di spezzare un incantesimo.

Di certo doveva essere una magia davvero potente, dato che quando la porta si aprì Bokuto non si vide davanti agli occhi la ragazza che si aspettava: di fronte a lui c'era un uomo sulla cinquantina, dai capelli castani e gli occhi del medesimo colore che trasmettevano una gentilezza che, si ritrovò a constatare il gufo, aveva già visto in qualcun altro
Somigliava vagamente a...
No, non era possibile che si fosse dimenticato di quel piccolissimo dettaglio.

Bokuto deglutì, la bocca semiaperta e le parole spezzate in gola per la sorpresa: quello era il padre di Y/N, la copia sputata di Sawamura Daichi, capitano della Karasuno.
Come diavolo aveva fatto a scordarsi che c'era un motivo se aveva, poche ore prima, invitato Y/N a passare il weekend da lui e non da lei, come erano soliti fare ultimamente?
Si diede mentalmente dell'idiota, prima di avere l'istinto di fare dietrofront e fuggire prima di fare o dire cose di cui si sarebbe sicuramente pentito.

Il problema era che lui, con gli adulti, non ci si sapeva proprio rapportare: era Akaashi quello che parlava con i coach, con i professori, che lo redarguiva quando, occasionalmente, doveva parlare con i giornalisti dopo una partita particolarmente importante.
Lui non ne era in grado, finiva sempre per fare figuracce e, più di ogni altra cosa al mondo, non avrebbe voluto passare per un deficiente di fronte al padre di Y/N.

«E' la borsa di Y/N, quella?»
Il signor Sawamura aveva alzato un sopracciglio con aria interrogativa, ma non sembrava un uomo ostile e intimidatorio come invece appariva il primogenito quando si arrabbiava: Bokuto lo ricordava fin troppo bene.

«Hai. Y/N l'ha dimenticata in palestra e sono venuto a riportargliela.»
Il fatto che non l'avesse ancora aggredito e che non sembrasse spaventoso come Daichi aveva tranquillizzato Bokuto a tal punto da dargli il coraggio di parlare, seppur tenendo lo sguardo basso e balbettando appena.

«Arigatō, entra o ti prenderai un malanno.»
Il ragazzo che aveva di fronte era palesemente un pallavolista, data l'altezza, il fisico allenato e, soprattutto, la divisa sportiva, anche se non quella della Nekoma.
Ma la cosa che fece sorridere il signor Sawamura fu la totale assenza di malizia in quegli occhi enormi: bastava una singola occhiata per capire che quel ragazzo non sarebbe stato capace di far del male a una mosca.

«Oh-»
Bokuto fu sul punto di dire qualcosa, di trovare una scusa per scappare a gambe levate, ma ancor prima di poterlo fare l'uomo che aveva di fronte aveva spalancato la porta e gli aveva fatto cenno di entrare.

«Shitsureshimasu
Ancora imbarazzato e con ogni muscolo in tensione per paura di fare un passo falso, il solito asso sicurissimo di sé aveva lasciato spazio ad un gufo intimorito e timido, che varcò la soglia d'ingresso quasi in punta di piedi.

«Sei un amico di mia figlia?»
Y/N non aveva mai avuto molti amici, perciò constatare che un ragazzo di un'altra scuola le aveva riportato le sue cose era alquanto...bizzarro.
Eppure, qualcosa gli diceva che quel ragazzo non era uno sconosciuto.

«Bokuto Kōtarō, signore. Sono-»
Bokuto aveva drizzato le spalle e si era impettito di scatto, sudando freddo: come aveva potuto entrare senza neanche presentarsi? Che cosa avrebbe pensato, ora, di lui? E se non avesse accettato di far uscire sua figlia con un tale idiota? E se-

«Il capitano della squadra di pallavolo della Fukurodani.»
Il padre dei due Sawamura lo aveva interrotto prima che potesse continuare a tormentarsi, sorprendendolo: come diavolo faceva a saperlo?
Bokuto sorrise inconsapevolmente: Y/N aveva parlato a suo padre di lui.

«Daichi mi ha parlato di te dopo il ritiro.»
Come aveva fatto a non arrivarci prima? Era ovvio che si trattasse di quel Bokuto, la descrizione dei suoi figli calzava a pennello con il ragazzo che si era presentato di fronte a casa sua.

«Ah...»
Il cambio di espressione del gufo fu una scena impagabile: un attimo prima sfoggiava uno dei sorrisi più felici che il signor Sawamura avesse mai visto in vita sua, quello dopo le punte dei suoi capelli drittissimi sembravano essersi abbassate e la bocca aveva assunto una smorfia delusissima.

«E Y/N ti ha nominato spesso ultimamente, quando usciva nel weekend.»
Era bastato nominare sua figlia che gli occhi grandi di Bokuto erano tornati ad illuminarsi: un padre dovrebbe essere geloso della propria figlia, ma vedere quel ragazzo cotto in modo irrecuperabile di Y/N lo fece, invece, sorridere sinceramente.

«Non è proprio di buon umore, ma se vuoi provare a parlarle è-»
Non finì in tempo la frase, che il giovane la terminò per lui, avviandosi su per le scale con una certa impazienza.

«Al piano di sopra, grazie signore.»
Il motivo per cui Bokuto Kōtarō conoscesse l'ubicazione della camera da letto della figlia decise di non domandarselo: fortunatamente per lui, il signor Sawamura era più tollerante del figlio maggiore.

☆☆☆

Quando aveva aperto lo sportello della doccia per uscire e avvolgersi dall'accappatoio, la sua pelle era ancora talmente bagnata dall'acqua calda che il vapore formava delle nuvolette che sembravano sbucare direttamente dal suo corpo nudo.

C'era una strana pace nella sua mente: il getto d'acqua sembrava aver lavato via un po' della stanchezza fisica accumulata durante la giornata e tutto il freddo patito, lasciandola solo con la distaccata apatia del suo stato d'animo.
Si guardò allo specchio: gli occhi erano ancora parecchio rossi, ma si erano notevolmente sgonfiati, anche se rimanevano vuoti e spenti; i capelli, raccolti per evitare che si bagnassero, le davano un leggerissimo tono di freschezza che, almeno apparentemente, la facevano sembrare meno sconsolata di quello che era realmente.

Abbassò lo sguardo, infilandosi addosso l'accappatoio, prima di tornare ad avere la pelle d'oca, e uscì dal bagno: non appena aprì la porta, sentì bussare a quella della camera.

«Otousan non è successo niente, davvero.»
E chi altri poteva essere se non suo padre, a tentare ancora una volta di parlarle?
Y/N sapeva, almeno adesso, che la sua voce non tremava più come prima e, inoltre, avrebbe potuto dare la colpa al bagnoschiuma per la condizione dei suoi occhi.

«Sto bene.»
Che ridicola bugia era quella: si sentiva persa, si sentiva vuota e provava un mare di dolore, fingeva di avere tutto sotto controllo, fingeva anche a parole che andasse tutto bene, quando in realtà era a pezzi, completamente a pezzi.
Ma doveva apparire felice, lo doveva fare per suo padre, per suo fratello, per Kaori, per Kenma, per tutti quelli che le volevano bene e che si sarebbero preoccupati sicuramente, se avessero saputo come si sentiva davvero.
Y/N era perfettamente convinta che nessuno si fosse reso conto di quello che provava veramente, ignara del fatto che tutti loro la leggessero alla perfezione.

«Avevo solo-»
Si costrinse a sorridere mestamente, girando la chiave nella serratura per aprire la porta e recitare la sua parte, ma quando abbassò la maniglia non c'era suo padre ad attenderla, ma due enormi occhi allegri che la osservavano con aria di rimprovero.

«Si può sapere perché ogni volta che vengo a prenderti sei appena uscita dalla doccia?»
Eccola lì di fronte a lui, Sawamura Y/N: era bella, bella come nessuna prima era apparsa ai suoi occhi grandi e del colore del sole.

Era più bella che mai in quell'istante che avrebbe tanto voluto incorniciare perché era vera, perché era spontanea; la sua espressione sorpresa quando all'improvviso aveva sollevato lo sguardo non era paragonabile a nessun'altra: i suoi occhi e/c erano brillanti e lucidissimi, forse per il pianto che si era appena concluso ed era già sul principio di ricominciare, o forse per la doccia appena fatta, Bokuto non sapeva dirlo.
Erano occhi spenti, persi e lontani, trafitti da una miriade di sentimenti accecanti; erano gli occhi di qualcuno che era arrivato al limite della sopportazione, delle forze, dell'amore.
Eppure in quelle iridi Bokuto aveva scorto, per un attimo soltanto, un barlume di felicità, di speranza, di sollievo, ed era pronto a scommettere che il merito fosse suo.

Aveva ancora tanto da scoprire su di lei, tanto da imparare sul suo modo di pensare, di comportarsi, ma una cosa la sapeva: doveva essere lei a decidere di parlargli, di sfogarsi, di raccontare quello che provava.
Lui non avrebbe dovuto forzarla, o avrebbe ottenuto il solo risultato di vederla allontanare.

«E' il tuo modo di dirmi che vorresti-»
Così il capitano della Fukurodani aveva scelto di nuovo di far finta di niente, di farla ridere magari, come aveva fatto quel giorno al centro commerciale in cui l'aveva addirittura ringraziato per questo.
Ma stavolta qualcosa doveva essere cambiato, forse era solo lei ad essere cambiata, forse era il loro rapporto, fatto sta che Bokuto non riuscì a terminare la frase: Sawamura Y/N si gettò tra le sue braccia.

«Baka
La felicità non è una cosa dovuta, nessuno dovrebbe pretenderla come se in qualche modo se la meritasse e, quando capita, è una cosa talmente improvvisa che raramente si riconosce.
Ma in quel momento Y/N era sicura di averlo capito: nel mezzo di quell'aggrovigliata massa di sentimenti che non capiva neanche lei, c'era senza dubbio un po' di felicità.

Neanche un mese prima, abbracciare qualcuno che non fosse suo fratello con tanta spontaneità le sarebbe sembrata una cosa impossibile, ma con Bokuto tutte le sue carte erano state rimesse in gioco e mescolate in una confusione tale da renderle difficile riconoscerle.
Lui l'aveva cambiata e, sotto sotto, le andava bene così.

Gli si strinse addosso in un abbraccio bisognoso e disperato, affondando la testa sul suo petto e stringendo il tessuto della sua giacca tra le mani.
Per qualche secondo ebbe il timore di non essere ricambiata, ma subito dopo le mani di Bokuto erano sulla sua schiena, tra i suoi capelli che si erano sciolti, sui suoi fianchi ad accarezzarla dolcemente.

Y/N non si fidava ancora così tanto da sfogarsi, da piangere e mostrarsi vulnerabile di fronte a lui, ma aveva bisogno di sentirlo vicino: ci stava bene, in quell'abbraccio.

Rimasero abbracciati per un po' senza dire una parola, accompagnati solo dal silenzio della neve che cadeva, finché fu lei a parlare.

«Akaashi ti ha detto-»
Aveva scostato la testa e appoggiato la guancia sul corpo di lui, senza guardarlo: si vergognava per essere fuggita in quel modo, si vergognava anche del fatto che Akaashi avesse ascoltato quella discussione, che l'avesse riferita a Bokuto, a Kaori.
Non voleva farli preoccupare.

«No, è stato Kuroo.»
L'aveva interrotta immediatamente: Bokuto non sapeva di preciso, che cosa si erano detti quei due, Akaashi non aveva avuto il tempo di riferirglielo e, inoltre, avrebbe preferito che a raccontarlo fosse lei stessa.
Sperava che lo facesse, sperava che nominando il capitano della Nekoma si sarebbe sfogata con lui e avrebbe urlato, pianto, imprecato.

«Gomen
Ma, ancora una volta, quella ragazza lo sorprese: chissà come mai, si scusò in un sussurro.

«E' il tuo migliore amico e per colpa mia-»
Apprendere che lui e Kuroo avevano parlato fu una pugnalata dritta allo stomaco: poteva immaginarselo, il corvino, inveire contro Bokuto con la stessa rabbia e gelosia che aveva avuto con lei, accusarlo di chissà cosa, aggredirlo come se avesse qualche colpa.

Ad avere tutta la colpa era solo ed unicamente lei: non solo aveva fatto preoccupare Bokuto, ma l'aveva anche, molto probabilmente, fatto litigare con Kuroo, come un fratello per lui.
Imperdonabile.

«Y/N-chan.»
Bokuto smise di accarezzarle i capelli, poggiandole le mani sulle spalle e staccandola dal suo corpo per osservarla: teneva il mento abbassato, evitando di incrociare il suo sguardo.
Era incredibile, la ragazza più incredibile che avesse mai conosciuto: il suo cuore era un disastro, i suoi sentimenti erano stati calpestati e aveva pianto così tanto da avere tutte le palpebre arrossate, ma si preoccupava degli altri, non di sé stessa.

«E' tutto a posto tra me e Kuroo.»
L'asso della Fukurodani sorrideva, quel sorriso che l'aveva salvata innumerevoli volte in un tempo così ristretto che, a raccontarlo, nessuno ci avrebbe creduto.
Y/N si era persa in quegli occhi e non vi aveva trovato altro che sincerità e gentilezza: andava tutto bene.

«E poi che cosa vorresti dire? Ti ho già conquistata e la lotta per il tuo cuore è finita così presto?»
A rimanere serio per troppo tempo lui proprio non ce la faceva: Bokuto aveva incrociato le braccia al petto dandosi un tono di superiorità e facendo risaltare i bicipiti, aveva gonfiato i polmoni e se n'era uscito con una delle sue solite frasi sciocche che Y/N non si sarebbe mai stancata di sentire.

Non poté fare a meno di scoppiare a ridere, la manager della Nekoma: la tristezza era passata, il dolore, la disperazione, tutto era impallidito ed appassito, lasciando solo un amaro ricordo.
Bokuto la guardò ridere non perdendosi nemmeno un attimo di quella risata, fiero di esserne lui la causa, finché quella non smise, dandogli le spalle.

«Dove vai?»
Preoccupato come un eterno bambino, gli occhi di lui sembravano ancora più grandi quando cadeva nella sua tipica insicurezza.

«A preparare la borsa, non stiamo andando da te?»
Lei sorrideva, guardando l'uomo che con poche parole aveva risolto l'impossibile: Bokuto Kōtarō la faceva sentire bene, desiderata, fortunata.
La faceva sentire a casa.

Lui poteva essere la sua felicità.
 
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~

Ah, il nostro amato Bokuto l'ha quasi conquistata del tutto, ci siamo quasi affinché lei cominci a fidarsi completamente.
E quando c'è fiducia, c'è amore, bambini miei.

Ho fatto un po' di casino perché non so spiegare a parole quelle che, secondo me, sono le paure di Y/N.
Ma vabbé, non potevo rimandare ancora la pubblicazione, perciò beccatevelo così com'è.

Mi metto a lavoro per il prossimo capitolo, non vedo l'ora di pubblicarlo.
Nel frattempo leggetevi LoveGame, svelti.

Kissini

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