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Capitolo 14: Qui pro quo.

Qui pro quo è una locuzione latina che significa letteralmente:
 "una cosa al posto di un'altra"
▲▲▲

La palestra era completamente sgombra: dalla finestra della porticina laterale Akaashi Keiji intravedeva un paio di ragazzi della Nekoma scambiare due chiacchiere, abbastanza allegri nonostante avessero perso l'amichevole, mentre gli altri dovevano ancora essere nelle docce, data la confusione e lo scroscio dell'acqua che proveniva da quella parte.

Almeno dieci minuti prima Bokuto era sgattaiolato fuori dagli spogliatoi in fretta e furia, farfugliando, ancora in procinto di metter su la giacca, di avere un appuntamento.
Tutti, tranne Akaashi, avevano sollevato gli occhi al cielo di fronte a quell'affermazione, immaginando che avesse incontrato l'ennesima ragazza che l'avrebbe mandato in crisi per qualche settimana: speravano solo che quel periodo non sarebbe coinciso con i nazionali.

Akaashi li invidiava, i suoi compagni di squadra: a loro, beata ignoranza, non sarebbe venuto, presto o tardi, un esaurimento nervoso causato dallo stress di essere a conoscenza della pseudo relazione tra il loro capitano e la manager della Nekoma.
Magari fosse stata una delle tante, magari avesse potuto causargli al massimo una quindicina di giorni di scoraggiamento, lamenti e demoralizzazione, ma era molto peggio: Bokuto non era mai stato così pericolosamente vicino dall'innamorarsi di qualcuno.

Il vice della Fukurodani lo pensava ormai da una settimana, anche se si rifiutava categoricamente di accettarlo: forse se non lo avesse detto ad alta voce, non si sarebbe mai verificato realmente, come quando si esprimono i propri desideri alle stelle cadenti.
Bokuto parlava costantemente di lei, la menzionava in qualsiasi tipo di conversazione e non mancava mai di elogiarla, anche quando non ce n'era motivo e, quel giorno in particolare, era corso all'esterno della palestra solo per paura che scappasse senza aver prima dato una risposta al suo invito.

A proposito di quell'invito, quando l'alzatore aveva sentito che cosa il suo capitano aveva avuto il coraggio di dire di fronte a tutti quei gatti randagi, aveva creduto che fosse davvero finita: stavolta l'avrebbero mandato in ospedale, era sicuro.
Fortunatamente aveva avuto la prontezza di intervenire e richiamarlo al nido prima che potessero aggredirlo.

Quando poi, all'inizio del terzo set, Bokuto aveva ricominciato a buttarsi giù di morale probabilmente ripensando a ciò che era accaduto e alla mancata risposta di lei, Akaashi aveva nuovamente giocato d'astuzia e aveva convinto il formidabile asso che prima sarebbe finita l'amichevole, prima avrebbe avuto la sua risposta.
Ripensandoci non ce ne sarebbe neanche stato bisogno, dato che i gatti avevano totalmente perso la concentrazione e, soprattutto il loro capitano, sembravano aver fatto di tutto per perdere un punto dopo l'altro.

Percorrendo i margini dello splendente pavimento in parquet, il solo rumore presente all'interno di quello spazio sembrava essere quello dei suoi passi stanchi unito all'eco dei suoi pensieri.
Anche il vento aveva smesso di ululare e delle nuvole bianche, che parevano cariche dei primi fiocchi di neve, avevano coperto il cielo tanto da farlo sembrare più scuro di quanto non fosse già normalmente in quel periodo dell'anno.

Quella tranquillità, l'odore di pulito che aleggiava nella palestra, il freddo mite che giungeva dall'esterno, tutto sembrava provare a calmare le angosce del suo animo.

Poi una voce arrabbiata, uno squarcio nella quiete di quel tardo pomeriggio di dicembre.

«Amici?!»
Akaashi si pietrificò sul posto: alla sua destra, socchiusa, c'era la porta dello sgabuzzino e, dal suo interno, la voce del capitano della Nekoma era esplosa come un ordigno bellico.

«Com'è che Kenma non ti ha mai proposto di passare la notte da lui?»
Anche se il volume della sua voce si era abbassato, il tono rimaneva colmo di una rabbia senza senso, le parole scagliate come lame affilate, l'ironia pungente che bruciava sul filo dei coltelli.

«Anche se fosse più di un amico non sarebbe affar tuo, Kuroo.»
Non sarebbe stato difficile immaginare con chi stesse discutendo anche se non avesse sentito il suono della voce di Sawamura Y/N: a sconvolgere Akaashi fu qualcos'altro.

In tutte quelle settimane si era chiesto chi fosse la manager della Nekoma, che cosa volesse da Bokuto, da Kaori, da lui stesso, ma mai lo aveva capito.
Ed era stata proprio la difficoltà di comprenderla che l'aveva portato a sospettare, ad immaginare scenari in cui lei interpretava sempre la figura dell'antagonista, del cattivo da sconfiggere che si era intromesso, con la falsità e l'inganno e senza chiedere il permesso, all'interno delle loro vite.

Ad Akaashi piaceva, la sua vita: aveva trovato Kaori da non molto tempo e, più o meno nello stesso periodo, si era convinto di aver capito alla perfezione il suo capitano tanto che niente e nessuno avrebbe potuto turbare quell'equilibrio.
Invece era arrivata lei, con quei suoi modi di fare misteriosi, mai limpidi e comprensibili a prima vista: sembrava ci fosse sempre un secondo fine, un altro scopo, una parola scritta tra le righe che gli sfuggiva costantemente.

Di lei non era mai riuscito a vedere oltre la coltre di pregiudizi che aveva partorito la sua stessa mente: dal momento in cui l'aveva vista aveva pattuito che non rientrasse nella ristretta cerchia di persone degne della sua amicizia o, quantomeno, del suo rispetto, e così la sua opinione era rimasta invariata per tutti i mesi successivi.

Era sempre stato sicurissimo del fatto che avesse sedotto Kuroo Tetsurō e poi, per qualche bambinata come quella del ritiro estivo, lui avesse giustamente deciso di lasciarla e che lei, viziata e testarda, avesse accalappiato Bokuto con il solo intento di far ingelosire il suo giocattolo prediletto.
Era un pensiero che aveva avuto paura di esprimere ad alta voce, forse per la paura di litigare con Kaori o addirittura con Bokuto, o forse perché era una maldicenza talmente crudele da vergognarsene.

Solo dopo la risposta di lei, origliata al di fuori di una malridotta porta in metallo pesante, si era reso conto di quanto si fosse sbagliato.

Sawamura Y/N non era una bambina, non era isterica, prepotente o doppiogiochista come l'aveva immaginata: la voce della persona che aveva parlato era quella di una ragazza orgogliosa, sicura di sé e fiera.

La maggior parte delle ragazze della sua età avrebbero ceduto, sarebbero state succubi di quella voce prepotente che le urlava contro, forse sarebbero state perfino contente di quella gelosia malsana o sarebbero scappate in un mare di lacrime seduta stante.
Lei no: lei aveva risposto all'ira con la calma e la freddezza, dimostrando l'eleganza e la nobiltà propria di un vero felino.

Era uno scontro che non avrebbe dovuto sentire, lui che non c'entrava niente, ma era grato di essere in grado, adesso, di stabilire quale fosse la verità e di capire, finalmente, che cosa avesse visto Bokuto in lei.

«Tu sei affar mio, Y/N!»
Kuroo aveva di nuovo alzato la voce: alla fine, l'immaturo tra i due, era proprio lui.

Non era complicato capire quale fosse il motivo di quella rabbia, di quella possessività che parlava al posto del solito, scherzoso e riflessivo, capitano della Nekoma: Bokuto era la pietra dello scandalo.
Kuroo doveva aver sentito, come tutti i gatti del resto, ciò che si erano detti lui e Y/N, ma quello che Akaashi non riusciva a comprendere era con che coraggio riuscisse ad affermare che lei gli appartenesse.

A lui, al massimo, poteva appartenere Yamaka Mika, non Sawamura Y/N.
Come si può avere la presunzione di pensare di possedere una persona, quando è evidente che non sia rimasto null'altro che risentimento e rancore di una relazione ormai finita?

«Non più.»
La fermezza di quell'affermazione, l'assenza di tremolii nella sua voce, la solennità con cui lei rispose all'arroganza di lui avrebbe dovuto mettere fine a quella lite: Kuroo non aveva perso solamente l'orgoglio, era stato battuto su tutti i fronti.

Akaashi fece per andarsene: non aveva bisogno di sentire altro da una conversazione di cui non avrebbe, tra l'altro, dovuto ascoltare niente fin dal principio.
Aveva già fatto un passo in avanti, il suo orecchio destro era perfettamente in linea con lo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa quando sentì qualcosa che gli fece gelare il sangue.

«Cos'è, sei diventata la sua puttana, adesso

Non seppe di preciso che cosa spinse la sua mano a spalancare la porta: forse lo aveva fatto perché era il comportamento che avrebbero adottato Bokuto o Kaori se si fossero trovati al posto suo e, non essendoci loro, si era sentito in dovere di intervenire in difesa di Y/N, o forse perché non aveva mai voluto, in tutta la sua vita, picchiare qualcuno come avrebbe voluto picchiare Kuroo Tetsurō in quel momento.

Lui il concetto di fare del male a qualcuno di proposito non lo comprendeva, non lo aveva mai fatto né quando i bambini, nei primi anni delle medie, lo avevano preso in giro per gli occhiali, né la prima volta in cui si era accorto delle persone che si approfittavano di Bokuto, e neppure quando, dopo la sconfitta, i vincitori sembravano divertirsi a prendersi gioco dei perdenti.

Ma quando la luce della palestra illuminò a giorno lo stanzino e Akaashi incontrò gli occhi di Sawamura Y/N, capì che niente di tutto quello era minimamente paragonabile a ciò che il capitano della Nekoma aveva appena fatto a lei.
La manager piangeva in modo silenzioso, le lacrime le scivolavano copiose sulle guance senza emettere il minimo rumore, ma la cosa peggiore di tutte era lo sguardo: i suoi occhi erano spenti, l'espressione contorta di chi è stato appena pugnalato, tradito, torturato fino a far sanguinare il cuore da una delle persone che, era evidente, amava di più.

Si dice che le persone siano il risultato di ciò che gli viene fatto e, adesso, poteva capire il motivo dietro la tendenza della manager della Nekoma a nascondere i suoi veri pensieri, emozioni, sentimenti: lei doveva averli mostrati, qualche volta, doveva aver creduto nell'amore, nelle relazioni, nella fiducia, ma le era stato fatto questo.

A ferirla irreparabilmente non era stato uno sconosciuto, era stato qualcuno di cui si fidava, qualcuno a cui aveva donato il cuore e lui l'aveva calpestato ripetutamente, ma quello, pensò Akaashi, era il colpo mortale.

«Sawamura-»
Aveva avuto la forza solo di emettere quel sussurro, poi si era bloccato: che cosa avrebbe dovuto dirle? Quale parola le sarebbe stata mai di conforto, da lui che fino a un momento prima aveva diffidato di lei?
Si rese conto di essere intervenuto non solo per il mero senso di giustizia che l'aveva sempre caratterizzato, ma anche e principalmente perché si sentiva in colpa.

Y/N, comunque, sembrò non essersi neanche accorta del fascio di luce che l'aveva investita in pieno, né del corvino alzatore della Fukurodani sulla soglia e degli occhi chiari che emettevano un misto di rimorso, rabbia e compassione, incerto su cosa dire, su cosa fare.

Kuroo parve, solo dopo un paio di secondi, realizzare ciò che era appena uscito dalle sue labbra: Akaashi lo vide spalancare gli occhi come se qualcuno lo avesse appena colpito al petto per poi, subito dopo, mollare bruscamente la presa sul polso di lei, quasi lo stesse bruciando.
Si era pentito, glielo si leggeva chiaramente negli occhi che, forse, aveva fatto più male a sé stesso che a lei, ma ormai era troppo tardi.

«Y/N non intendevo-»
La voce del capitano della Nekoma tremava di vergogna, di pentimento e di paura, aveva di nuovo allungato la mano verso di lei, come se volesse toccarla, ma non ne fu capace: Y/N si scansò da lui in un lampo, abbassò la testa e si diresse in fretta verso la porta.

«Y/N!»
Il braccio di Kuroo era rimasto sospeso a mezz'aria, la sua voce rimbombava ancora fondendo la tensione palpabile, mentre lei sorpassava Akaashi asciugando compulsivamente le lacrime: in un lampo era già fuori dallo sgabuzzino.

«Cazzo.»
Se ci fosse stato un modo, uno qualsiasi, per poter tornare indietro di un solo minuto e rimangiarsi ciò che le aveva detto, Kuroo l'avrebbe fatto senza pensarci; sarebbe arrivato persino a stringere un patto col diavolo se non pensasse, in quel momento, che lui stesso fosse il diavolo in persona.

Come aveva potuto farle questo?
Camminava velocemente, quasi correva per raggiungerla mentre la sua figura sembrava allontanarsi sempre di più, e non solo fisicamente: Kuroo sapeva che l'aveva persa per sempre.

Non l'aveva mai vista piangere e avrebbe tanto voluto non farlo mai: quando la porta dello stanzino si era aperta illuminando il suo volto non aveva visto solo le sue lacrime amare, cocenti, strazianti, che l'avevano colpito dritto al cuore una dopo l'altra, aveva visto anche le sue pupille intrise di un dolore profondo, di una sofferenza che andava avanti da molto prima di quella discussione.

Non gli aveva detto niente, si era limitata ad ammazzarlo con un'occhiata e Kuroo aveva capito tutto: era stato lui a ridurla così.
Si era sentito stritolare il cuore da una mano di acciaio rovente, aveva avvertito un freddo strano dentro, poi un tuffo allo stomaco quando aveva realizzato le sue colpe, i suoi terribili crimini verso la persona che avrebbe voluto proteggere dal mondo intero, ma che non aveva saputo proteggere da sé stesso.

L'aveva sempre voluta, fin dal momento in cui aveva fatto quell'ingresso maldestro durante uno dei primi allenamenti dell'anno, e la voleva tutt'ora con un desiderio tale da fargli male, tale da fargli passare le nottate a contorcersi per non averla con sé, tale da portarlo a quella folle gelosia e a farle del male.
L'aveva sempre voluta, non l'aveva mai scelta, ma non avrebbe voluto perderla.

☆☆☆

Il giaccone della tuta invernale della Fukurodani era abbastanza pesante da tenergli il caldo necessario per sopportare la temperatura che sfiorava lo zero.
Che poi, anche senza quello, avrebbe in ogni caso avvertito caldo: era così agitato che i brividi di freddo si alternavano più spesso a violente vampate di calore.

Il problema era che quell'attesa stava diventando estenuante, aveva provato di tutto per ingannare il tempo: a cominciare da uno sciocco giochino al cellulare, a saltellare sul posto per scaldarsi, a osservare le persone che passavano al di là dei cancelli della Nekoma...
Ma niente era riuscito a distrarlo dal suo chiodo fisso: Y/N.

Che si fosse arrabbiata per quello che le aveva chiesto? Era stato troppo diretto, forse? Akaashi aveva detto di sì, ma lui non è che ci avesse mai azzeccato tanto, con lei.
Insomma, non era mica colpa sua se tutti avevano pensato male: loro due avevano dormito altre volte insieme e non c'era mai stato niente di più che un buon riposo.
Qualche abbraccio, magari, ma si erano fermati lì.
Almeno per la notte, ecco: quello che era successo quel sabato mattina non contava, giusto?

Avvampò di nuovo, ma stavolta il calore arrivava dritto dritto dal mezzo delle sue gambe: maledizione, era ormai una settimana che, alla fine, ricordava sempre quell'episodio.
Slacciò la giacca improvvisamente: forse il freddo lo avrebbe calmato.

Il capitano della Fukurodani si era appena fatto passare il rossore sulle guance, era sul punto di riprendere a giocherellare con il suo telefono quando, alle sue spalle, sentì un gran baccano.
Qualcuno aveva urlato qualcosa, qualcun altro aveva spalancato una porta causando un orrendo stridio sul pavimento, qualcun altro ancora aveva preso a correre verso l'uscita, proprio dove si trovava lui.

«Mh...?»
Troppo distratto dai suoi pensieri e confuso dalla fretta con cui aveva cercato di dare un senso a tutti quei rumori, Bokuto non si accorse, almeno all'inizio, a chi appartenesse quella figura minuta che uscì dalla palestra in fretta e furia, senza neanche un giacchetto o una sciarpa, e che sembrava essere circondata da un alone di disperazione.

Solo quando ormai era a due passi dalle inferrate dei cancelli, riuscì a ricomporre nella sua mente il viso che aveva visto di sfuggita: un viso sul quale scendevano delle lacrime.

«Y/N!!»
Due voci, uno stesso nome urlato mentre la diretta interessata sfuggiva alla visuale di entrambi, dissolvendosi nella città di Tokyo.

Quando Bokuto si voltò alla sua destra, Kuroo aveva ancora gli occhi felini puntati dove era appena scomparsa lei, le sue iridi dorate riflettevano un unico sentimento: il rimorso.

Era stato lui a farla piangere, non c'era bisogno di un genio per capirlo, e anche l'espressione di Bokuto mutò.

«Kuroo-»
Non fece quasi in tempo a chiamare il suo nome, che quello si era già voltato di scatto con il fuoco negli occhi, afferrandolo improvvisamente per il colletto della giacca: Kuroo era incazzato, incazzato come mai lo aveva visto in vita sua.

«Mi spieghi che cazzo c'è tra voi?!»
Era sbagliato aggredire Bokuto in quel modo, lo sapeva perfettamente che la colpa era solo ed unicamente sua, che il solo con cui avrebbe dovuto incazzarsi, il solo che avrebbe dovuto prendere a pugni era lui stesso.
Eppure non riuscì a calmarsi: sentirlo chiamare il nome di lei, proprio come aveva fatto lui, non aveva fatto altro che peggiorare le cose.

«Non c'è-»
L'aveva colto di sorpresa e Bokuto, la cui indole era sempre stata calma, buona e incline al perdono e alla comprensione, era stato per un momento in balia di quella collera, senza essere capace di opporsi.

«Non dirmi altre stronzate!»
In quell'istante la furia di Kuroo toccò l'apice, sembrò volerlo divorare tanto era arrabbiato, ma fu proprio quella rabbia a far reagire Bokuto.

«Non c'è niente...per causa tua!»
Il gufo aveva tirato fuori gli artigli e aveva afferrato il gatto per la maglia, esattamente come aveva fatto lui: i due capitani erano ad un palmo l'uno dall'altro, scintille brillavano dai loro occhi.

Non era propriamente vero, ciò che Bokuto aveva detto: qualcosa, tra lui e Y/N c'era, ma era quel qualcosa di incerto, di sottile e delicato che può svanire con un nonnulla, qualcosa che poteva esserci, che per lui già esisteva per certo, ma che per lei rimaneva un sogno velato, qualcosa di irraggiungibile perché tenuta incatenata a qualcun altro.

«Finitela immediatamente.»
Era la voce di una terza persona, quella ad essere intervenuta: Akaashi Keiji aveva afferrato i polsi di entrambi, che tenevano la maglia l'uno dell'altro, e li aveva stretti con forza e sicurezza, intimando loro di mollare la presa.

«Siete due capitani di due squadre che andranno ai Nazionali, se vi vedesse qualcuno-»
Non ci fu neanche bisogno di concludere la frase: sia Bokuto che Kuroo avevano obbedito quando aveva ricordato il loro ruolo.

«Gomen, Akaashi.»
Bokuto era serio, serio come il suo vice lo aveva visto pochissime volte, ma nei suoi occhi grandi non c'era rabbia, solo un'incredibile autorevolezza.

«Non può esserci nulla perché è innamorata di te, Kuroo.»
Quando aveva ripreso a parlare, rivolto all'altro capitano, le sue iridi gialle specchiavano una saggezza che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui, non sembrava lo stesso Bokuto Kōtarō che tutti conoscevano: tutti, tranne Akaashi.
Lui sapeva chi fosse quella persona che parlava così solennemente: quello, era il vero capitano della squadra di pallavolo maschile della Fukurodani.

«Ti sbagli: tu non sai quello che è successo.»
Anche Kuroo pareva essersi calmato, ma la differenza tra i due era abissale: Bokuto era fiero, certo delle sue parole e della sua maturità, l'altro non aveva neanche la forza di guardarlo negli occhi, tenendoli puntati dritti di fronte a sé.

Il gatto non era per niente stato scosso dalla supposizione dell'altro, per il semplice fatto che non era minimamente vicino alla verità: lei non lo amava, come avrebbe potuto?

«No, non lo so. E non voglio saperlo.»
Bokuto aveva tagliato corto: se mai avesse voluto, in futuro, sarebbe stata Y/N a raccontargli la loro storia, ma per ora non lo riguardava.
Poi, aveva continuato.

«So solo che non la stai lasciando andare.»
Fu in quel momento che Kuroo si voltò di nuovo verso il gufo, sorpreso da quell'affermazione: qualcosa si mosse nel cuore del capitano della Nekoma, il sentore che l'altro stesse dicendo la verità.

«La ami, Kuroo?»
Poi un altro colpo, più forte dell'altro, che gli fece spalancare gli occhi dorati: era stata così improvvisa quella domanda, così fulmineo quel pensiero, che era certo che il suo cuore avesse perso un battito.

Non era una domanda da poco, quella, e lui non se l'era mai chiesto: la amava? 
Non fu in tempo a pensarci, Bokuto non sembrava intenzionato a dargli tregua.

«Sei pronto a fare di tutto per farti perdonare? A non fare mai più gli stessi errori? A darle quello che si merita? Ne sei in grado?»
Erano una raffica di proiettili, quelli: Bokuto parlava senza sosta, i suoi occhi parevano diventare più grandi e intensi ad ogni interrogativo, era così potente l'effetto della sua voce, che Kuroo veniva trasportato da quelle parole come in balia di una tempesta che non sarebbe stato in grado di superare.

Akaashi si era appartato in un angolo, pronto ad intervenire nel caso quei due avessero ripreso ad azzannarsi, ma non si era perso una singola di quello che aveva detto il suo capitano: forse, neanche lui avrebbe avuto una maturità tale per dire ciò che stava per ammettere Bokuto.

Si era lasciato sfuggire un lungo sospiro, Bokuto Kōtarō, prima di ricominciare a parlare: aveva chiuso gli occhi e quando li aveva riaperti esprimevano una tenacia più forte di prima.

«Sono disposto a lasciar perdere, Kuroo: lei è innamorata di te, o lo era, non ne ho idea, ma sei ancora in tempo.»
Per la prima volta dall'inizio del suo lungo monologo, la voce del gufo si era lievemente incrinata: non avrebbe voluto arrendersi, ma l'avrebbe fatto se avesse voluto dire renderla felice.

«Lei può essere ancora tua, lo è sempre stata probabilmente, ma devi volerla: la vuoi davvero
Kuroo avrebbe voluto dirgli che lei non era mai stata sua, che lei non era mai stata di nessuno perché non era quella la sua natura: lei era di sé stessa e solo quando lo avrebbe scelto lei, allora sarebbe stata di qualcuno.
E quel qualcuno che avrebbe scelto, un giorno, non sarebbe stato lui.

«Una sola parola e io mi farò da parte, ma devi esserne sicuro, non dovrai mai più ferirla.»
La questione non era volerla o meno: Kuroo aveva capito nel momento esatto in cui Bokuto glielo aveva chiesto, che cosa provasse per Y/N.
Il punto era che avrebbe continuato a ferirla, inesorabilmente: erano successe troppe cose, si erano fatti del male troppe volte, certe ferite non si sarebbero mai sanate e loro magari avrebbero potuto essere felici per un anno, forse due, poi l'orgoglio di entrambi avrebbe prevalso, sarebbero tornati a fare gli stessi errori e...sarebbe finita.

«Perché nonostante tutto quello che può essere successo io ti conosco, so che tieni a lei, te lo si legge negli occhi, ma se non sei certo lasciala andare: io posso renderla felice e tu lo sai.»
Ci vuole una forza disumana per lasciar andare chi si ama, ci si può riuscire solo se si ama veramente: il cuore di Kuroo era martoriato, sanguinava per il dolore, ma sapeva che era la cosa giusta da fare.

«Arigatō, Bokuto.»
Quando Kuroo lo interruppe, Bokuto trattenne il respiro e strinse i pugni: era sicuro che lo stesse ringraziando per la seconda possibilità che gli stava offrendo, era certo che ora sarebbe corso da lei e che lui, che aveva lottato così tanto, sarebbe rimasto di nuovo solo.

«Fa' quello che io non sono riuscito a fare.»
Ma Kuroo non aveva detto niente di quello che si era aspettato: gli aveva sorriso, un sorriso tirato mentre i suoi occhi allungati si inumidivano e, un attimo dopo, la sua schiena si allontanava verso una figura femminile appena al di là dei cancelli della Nekoma, era Yamaka Mika.

Kuroo aveva fatto la sua scelta e gli aveva affidato un compito: farla felice.
Adesso, toccava solo a lui.

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E' giusto che voi sappiate che ad un certo punto ho pensato di mandare all'aria tutto e far tornare Y/N con Kuroo perché quei due idioti mi mancano come l'aria.
Ma poi sono tornata in me, la solita scrittrice diabolica.

Con questo capitolo ho fatto casini su casini perché penso di essere in grado di mettere, in 4000 parole, tre punti di vista differenti: se non si capisce un cA- ditemelo plz.
Però sono soddisfatta anche questa volta 🌚

Intanto, almeno, abbiamo risolto due questioni:
-Kuroo ✔️
-Akaashi✔️

...forse.
Love u ❤️

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