36. Livello 4
Durante la seduta dal fisioterapista penso agli innumerevoli modi in cui vendicarmi nei confronti di Stefano. Solo quando me lo trovo davanti entrando alla Gold Games mentre si dirige verso il bagno, tutta la mia energia mentale si concentra su un'unica questione: perché? Perché mi ha mentito? Stefano non dice mai bugie.
Gli faccio un ampio sorriso e fingo di sorpassarlo; non appena l'ho a portata di mano lo agguanto a tradimento, trascinandolo dove in realtà era già diretto.
La sorpresa è tale che nonostante sia venti centimetri più alto di me e almeno quindici chili più pesante, riesco nel mio intento senza troppa fatica.
«Vieni, caro... dobbiamo parlare» sibilo a denti stretti.
«Co-come fai a saperlo già?» risponde stupito.
«Beh, me lo ha detto Dave e ora sei nei guai!»
Aggrotta la fronte, confuso. «A Dave non l'ho ancora detto, veramente...».
Inizia a venirmi il dubbio che non stiamo dialogando sullo stesso argomento. Lo porto nel bagno delle donne senza che lui protesti e ci chiudiamo in quello più distante dalla porta d'ingresso. Resto in attesa.
«Vo-volevo dirti che ho controllato il computer di Michelangelo Rossetti e non ho trovato nulla di interessante che possa esserci utile. Ne-nessuna e-mail da Pastorino, nessun riferimento al nostro gioco. Però ho ricevuto un messaggio da G & L». Il suo tono cambia, diventa più sommesso, forse pensa di blandirmi fornendomi informazioni interessanti.
Una cosa alla volta. Intanto non mi può sfuggire, per cui meglio lasciarlo parlare.
«Benissimo. Cosa ti hanno scritto?»
Mi guarda ancora spaventato, nonostante il mio tono sia passato dall'incazzato all'incuriosito.
«Ci chiedono di che posto si tratta. Pare non lo conoscano».
«Un altro buco nell'acqua, dunque».
«A breve dovrei riuscire a entrare anche nel loro computer e saperne di più».
Annuisco e lui si sposta lateralmente per raggiungere la maniglia.
«Se pensi che abbiamo finito, hai sbagliato» allungo il braccio bloccandogli il passaggio.
Ora è terrorizzato sul serio.
Gli punto il dito sul petto, picchiettandolo più volte. Tenta di indietreggiare, ma la tazza glielo impedisce.
«Perché mi hai detto una bugia?» Cerco di non essere aggressiva per non farlo chiudere a riccio. Lui aggrotta la fronte, smarrito.
«Dovresti ricordartela perché credo sia l'unica che tu mi abbia detto, se ti conosco bene».
Apre la bocca, negli occhi la consapevolezza che io ora so.
Scuote la testa, contrariato. Chiude gli occhi e incrocia le braccia.
«Stefano, non fare il bambino...»
«No!»
Il suo viso luccica per il sudore.
Ora si fissa sullo scarico in alto pur di non incontrare il mio sguardo.
Attendo diversi secondi, ma so che non otterrò nulla in questo momento.
Sospiro in modo da farmi sentire e gli do le spalle. Apro la porta e lo lascio lì, senza neanche voltarmi.
Prima di mettermi al lavoro aggiorno Serena via messaggio su ciò che ha scoperto Stefano. Dopo un paio d'ore mi risponde: "Siamo in un vicolo cieco, mi sa".
Condivido anche il resto.
"Ho parlato con Dave, l'unico modo che abbiamo per capire qualcosa sull'assassino è tornare nei luoghi di Underground. Non si è arrabbiato troppo... E poi il prossimo livello è facile da raggiungere. Pensavo di andare domani mattina a fare un giro".
"Hai bisogno di me?"
"No, stavolta è facile".
Pollice alzato per lei.
Sbircio il mio collega, che si accorge dopo un paio di secondi di essere osservato.
«Cosa c'è?» finge di essere spazientito, ma sorride.
«Stavo tessendo il tuo elogio con Serena. Le ho detto che non ti sei arrabbiato anche se non condividi le mie scelte». Gli parlo in codice per non essere troppo esplicita.
«Ormai ho raggiunto lo stadio zen, alla fine meglio assecondarti ed essere preparati al peggio. Così può andare solo meglio».
«Stefano mi ha informata su quelle cose in sospeso... nessun passo avanti, anzi. È molto probabile che non c'entrino nulla con quello che cerchiamo».
«Quindi tutto sta remando a favore del tuo piano».
Annuisco, tronfia.
Stefano non si fa vedere neanche all'uscita, deve essere rimasto traumatizzato. Non intendo mollare la presa, solo cambiare tattica.
Per la prima volta da diversi giorni non ho impegni, avere la moto in zona mi facilita e decido di tornare in palestra. Il fisioterapista mi ha detto di andarci cauta con i saltelli, ma sulle braccia posso agire liberamente.
Gian è impegnato con dei ragazzini, tra i volti concentrati sotto ai caschetti non c'è nessuno che conosco. Il risultato di non aver frequentato assiduamente nelle ultime settimane. Trovo un sacco libero e inizio la routine. Cerco di dare un volto all'assassino e a figurarmelo al posto della similpelle per aumentare il ritmo dei colpi.
Ormai penserà di averla fatta franca. La sua vita, dopo alcune settimane di inevitabile tensione, sarà tornata come prima? Non riesco a mettermi nei suoi panni. Perdo qualche colpo per la fatica. I muscoli delle braccia cominciano a urlare e a cascata il dolore si espande anche su spalle e schiena. Sono troppo rigida. Cerco di asciugarmi il sudore sui guantoni. Non voglio mollare, non posso mollare e la sfida non è solo con il sacco. Dave ha ragione, sono ossessionata. Il perché non so neanche spiegarmelo. Ormai è come una missione, una sfida che voglio vincere contro l'omicida.
Continuo a non capire perché abbia lasciato tutti questi indizi, che tra l'altro sono riuscita a cogliere solo io. Underground ha un confronto finale in cui l'obiettivo alla fine è far vincere il giocatore pur inserendo tante difficoltà e di fronte non abbiamo un serial killer psicopatico. Non ci sono stati altri omicidi a Genova in questi mesi. Sento che mi sta sfuggendo qualcosa e il non riuscire ad afferrarlo mi tormenta.
Ripenso alla vittima: il tentativo di Deborah di scoprire qualcosa con il vecchio amico di Pastorino è fallito, forse dovrei andare a parlare con i colleghi del supermercato.
La fibra ottica del mio cervello funziona ancora bene. Ripesco subito il ricordo: l'immagine di un servizio giornalistico condiviso sui social. L'insegna Pam in verde che mi ricorda la forma di Pac Man. Devo rivedere quel video, anche se probabilmente né i reporter né gli investigatori hanno scovato informazioni interessanti, altrimenti sarebbe già uscita qualche notizia. Ora è passato molto tempo dall'omicidio e forse fare una domanda casuale su di lui non sarebbe più sospetto, anche se attaccare bottone alla cassa in quel modo non è il massimo.
Le abilità tecnologiche di Stefano in questo caso non possono risolvere la situazione. Ora sul sacco c'è la sua faccia dai lineamenti fini e delicati con la fronte coperta dai capelli disordinati. Destro-sinistro tra i suoi occhi azzurri. Me la pagherà prima o poi.
«Mai fare boxe quando sei incazzata, si perde lucidità».
Gian ha sempre ragione.
*
Stavolta i System of a down non mi sorprendono, l'agitazione e il caldo umido mi hanno fatto da sveglia anticipata.
Rimpiango un po' la mia decisione di non trascorrere questo sabato in spiaggia; sono programmata per altro, oggi.
Con la moto impiego davvero poco ad arrivare a destinazione. Le strade verso il centro sono semi-deserte e vado contro corrente rispetto a chi ha scelto il mare.
Parcheggio fuori dalla carreggiata quasi sul lastricato di blocchi di non so che pietra beige e bianca. Li calpesto sicura dirigendomi verso la cancellata più a destra, aperta. L'insegna Fabbro Drago con dei font vintage non batte, per anzianità, le inferriate marroni, senza traccia di vernice. Non una grande pubblicità, ma temo sia colpa della sovrintendenza visto che sospetto facciano parte, con la scalinata e la parete, del complesso storico dell'Albergo dei Poveri.
Raddrizzo la schiena ed entro. Un clangore penetrante ferisce le orecchie. Gli occhi faticano ad adeguarsi al cambio di luce e quello che è a tutti gli effetti un laboratorio artigiano mi appare dopo pochi secondi. Poco spazio per l'estetica, tutto è funzionale: un piccolo banco all'ingresso per l'accoglienza e qualche spazio per l'esposizione di opere in ferro battuto.
«Buongiorno». Un omone vestito con una tuta da lavoro compare da dietro una porta aperta, in mano ha degli occhiali da saldatore.
Alzo gli occhi e vedo il sensore a infrarossi che probabilmente gli ha annunciato il mio ingresso.
«Salve» sorrido con la maggiore cordialità che mi viene «sono una dei programmatori del videogioco. Chiedo scusa per l'assenza di preavviso, ma avrei bisogno di andare nella galleria per un rapido sopralluogo. Siamo quasi alla fine del percorso per la parte in realtà aumentata, ma devo controllare ancora una cosa che serve per i segnali digitali da attivare quando arriveranno i giocatori» cerco di confonderlo con un linguaggio semplice, ma incomprensibile per lui.
«Ci avete fatto un bello scherzetto» dice con una voce nasale e un'inflessione del Sud. Incrocia le braccia e non posso fare a meno di notare quanto siano massicce «spero che almeno il movimento che ci sarà possa essere una pubblicità anche per noi».
Non avevo pensato a questo aspetto di Underground. Alle implicazioni sui luoghi legati al videogioco.
Il gigante si fida. Torna verso l'apertura da cui è uscito e urla: «Giuse! Porta le chiavi della galleria».
Poco dopo spunta un altro lui. Solo che ha la tuta grigia, invece che blu.
L'omone fa il primo accenno di risata da quando sono entrata. «Lei non è mai venuta qui? In effetti non me la ricordo. Ne sono passati diversi dei vostri. Giuseppe è il mio gemello».
Guardandoli con più attenzione noto che Giuse è più stempiato e qualche ruga in più sul volto e ha l'espressione meno corrucciata del fratello. Gli porge una sola chiave attaccata a un cerchietto di metallo rosso.
Usciamo e dopo pochi passi eccoci davanti al cancello più a sinistra. Il gemello di cui non so il nome infila la chiave in un lucchetto che scatta con un clic. Il ferro ormai datato stride sul solco percorso chissà quante volte.
Mi precede nella galleria ampia e chiara che ho visitato nel gioco l'altra sera. Arrivato in fondo apre la porticina semplicemente facendo parecchia forza su una rudimentale maniglia che è un tutt'uno con l'anta sempre in ferro. Niente brugola nella realtà.
«Ecco, ha una luce per far chiaro?»
Apro lo zainetto e gli mostro la torcia.
«La aspetto di là che devo lavorare».
Gli faccio un cenno che non vede neppure perché si è già voltato per tornare al suo laboratorio.
L'ingresso nel nuovo ambiente beneficia della luce del giorno che riesce a penetrare dalla porta, rimasta spalancata. La visuale è migliore, almeno per il momento, i suoni invece sono identici. Pietro li ha riprodotti con sapienza. L'acqua ruscella tra i sassi. Quello che nel gioco non si sente è il tanfo di umidità e di chiuso che invece mi assale subito.
La scivolosità del terreno la sperimento subito nonostante le scarpe da trekking. Se cadessi potrei fratturarmi di nuovo qualcosa e non è proprio il caso, per cui decido di appoggiarmi con tutto il fianco destro alla parete vicina. Il rio, nonostante siamo quasi a luglio, non è asciutto.
Nella mente si manifesta il ricordo uditivo del «Chi è là?» della guardia giurata. Cerco di autoconvincermi che non siamo in Underground. Alla ricerca di una distrazione ripenso alle parole del fabbro. Non è sicuramente contento del fatto che ci saranno dei videogiocatori alle prese con questo livello. Certo, il gioco non sarà sempre disponibile, ma ho percepito una certa diffidenza nei confronti di quelli che immagino ritenga invasori di uno spazio che ha custodito suo malgrado.
Persa nelle riflessioni quasi manco l'anfratto dove mi aspetto di trovare qualcosa. È il mio piede destro a inciampare in un ostacolo mobile e duro.
Indirizzo la luce e un pezzo di legno rettangolare si è abbattuto a terra. Lo sollevo ed è bagnato. Un pezzo di carta si stacca dalla faccia nascosta e non faccio in tempo a salvarlo da un bel tuffo nel rio. Ormai è andato. Nella parte più buia della rientranza c'è un altro oggetto. Una piccola barra di ferro ricurva.
Anche qui l'imitazione è quasi perfetta.
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