17.
Qualcuno bussava furiosamente alla porta.
Ero pietrificata dal terrore, fuori era buio e la mia solitudine era assoluta da ormai molti giorni. Fino a quell'istante ero vissuta nel silenzio. Lo strepitio minaccioso aggrediva i miei sensi, abituati a una dimensione ovattata, con la furia di una bestia feroce. Mi sentivo in trappola. Ai pugni battenti si unirono le grida. Riuscii a distinguere due voci, una maschile una femminile.
Urlavano il mio nome.
Non risposi.
Rimasi immobile e e silente, tenendomi la testa fra le mani tremanti.
'Marco, dove sei, perché non sei qui a proteggermi? Perché quella maledetta notte non eri con me, perché non eri a fianco a me in quel viaggio in macchina, a rassicurarmi?'
D'un tratto, agli scricchiolii delle tavole di legno martoriato, si unì un cigolio metallico, stavano forzando la serratura. Non avevo più scampo. In un ultimo violento strattone, la porta cedette gemendo. Lascio vedere, nella penombra, due figure vestite di bianco.
Le osservai avvicinarsi nel silenzio più assoluto. Non li conoscevo, eppure loro presero possesso dello spazio limitato della stanza come se sapessero cosa cercare. Continuai a rimanere immobile spiando ogni loro mossa. Si spostavano lentamente ma con precisioni, un silenzio ieratico aveva trasformato mostri urlanti di poco prima in due maschere di cera, forse ancora più spaventose.
L'uomo si avvicinò pericolosamente al mio letto e alzò la mano. Mi raggomitolai su me stessa in attesa del colpo, che però non arrivò. L'intruso si limitò a scostare le coperte. La donna mi prese l'avambraccio e con gesti misurati e decisi accompagnò i miei movimenti.
Mi fecero alzare, mi vestirono. Li assecondai, ero totalmente in balìa degli eventi. Mi condussero alla porta, li seguii sfinita, che senso aveva opporre resistenza, a cosa poteva servire ormai?
Scendemmo le scale e uscimmo dal palazzo. Fuori la pioggia continuava a cadere con lo stesso ritmo svogliato degli ultimi giorni. Venni fatta salire a bordo di una macchina. L'uomo si sedette accanto a me, la donna al posto di guida. Mise in moto e con poche manovre esperte imboccò il viale che conduceva fuori città. Passò un tempo indefinito. L'andatura costante e le gocce di pioggia che negavano ano alcun punto di riferimento.
Fissavo il mio aguzzino. Aveva un viso comune, quasi banale: occhi piccoli e acquosi, naso aquilino e doppiomento. Forse lei percepì il peso del mio sguardo, perché si girò verso di me e ruppe il silenzio.
- Sara, sono passati mesi ormai, il dottore ha deciso di forzare la procedura. Secondo le casistiche da letteratura, a questo punto lei avrebbe già dovuto elaborare il lutto, se non facciamo in modo che ciò avvenga, lei rischia di rimanere bloccata in questa fase per sempre.
Aspettai che quelle parole penetrassero nella mia coscienza prima di concedermi una reazione, che non sapevo in ogni caso come calibrare.
- Non capisco.
Sussurrai qualche secondo dopo.
Lui annuì come se quella fosse l'unica risposta contemplata e tornò a fissare il poggiatesta del sedile anteriore.
Poco dopo, la vettura tremò e accusò uno scossone. Imboccammo una stradina stretta e in forte pendenza. La luce era cambiata, sembrava fosse filtrata dalle fronde fitte di alberi, li intravedevo attraverso la lente tremula della pioggia.
L'auto si fermò all'improvviso. Mi fecero scendere rapidamente e tutti e tre ci introducemmo in un edificio di cui scorsi a malapena l'ingresso imponente. Passammo attraverso un atrio alto e luminoso per poi insinuarci in un dedalo di corridoi senza fine. Finché la donna, che continuava a sostenermi per l'avambraccio, non si arrestò davanti a una porta laccata di bianco, identica alle decine di altre che avevamo già sorpassato. Estrasse un passe-partout e lo passò nella serratura magnetica che ci ammise nella stanza. L'ambiente era buio e silenzioso, eccezion fatta per un rumore di risucchio, ritmico e artificiale.
Nella penombra, scorsi due letti, in cui giacevano supini due uomini. Uno era un vecchio, i radi capelli bianchi spuntavano scarmigliati da dietro le orecchie. L'altro era molto più giovane e a giudicare dalla sagome che le lenzuola lasciavano intuire, una volta doveva aver avuto una stazza considerevole.
I due non si assomigliavano, eppure la degenza li aveva appiattiti in una sorta di dimensione comune deformandone i tratti nella stessa smorfia di dolore.
Lanciai un grido silenzioso.
Portai la mano alla bocca mentre gli occhi mi si riempirono di lacrime.
- Marco!
- Esatto.- Confermò il mio accompagnatore con voce atona.
- Ma io... io dovevo tronare da lui.
- No Sara, non è così, è lui che...
Tutto cominciò a vorticare, sentii la crisi imminente salirmi dalle viscere e sbarrare fuori il mondo esterno. Lottai contro l'oscurità per qualche istante, sufficiente per urlare la mia angoscia più grande:
- DOV'E' AURORA?!?
Poi, fu il buio.
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