Capitolo 4
Passò una settimana, un mese e, in un giorno come tanti altri, la famiglia di Jo, che fino ad allora non aveva subito pesanti traumi, venne improvvisamente toccata dal dolore.
Proprio quel pomeriggio di aprile infatti Tim, che si stava dirigendo verso la fermata dell’autobus per tornare a casa, venne brutalmente investito da un’auto poiché il conducente, essendo al telefono, prestava poca attenzione alla strada.
Il ragazzo fu violentemente scaraventato sull’asfalto dopo aver subito il rovinoso impatto con l’auto e perse subito i sensi. I soccorsi arrivarono pochi minuti dopo l’incidente: ambulanza e auto medica s’arrestarono a poca distanza dal corpo di Tim privo di conoscenza.
Appena Jo tornò a casa ricevette una telefonata dall’ospedale. La madre, che aveva risposto al telefono, scoppiò subito in lacrime e tutta la famiglia si precipitò preoccupata all’ospedale.
Tim era lì, immobile con il sangue sui vestiti e gli occhi chiusi.
Un gran numero di medici lavorava freneticamente attorno al corpo del ragazzo.
Poi improvvisamente Tim ebbe uno spasmo, aprì gli occhi, si dimenò a causa del dolore e delle ferite. Il suo volto era invaso da un’espressione di terrore accompagnata da numerosi tagli bagnati di sangue.
Subito dopo si immobilizzò come se fosse stato congelato, aveva gli occhi fissi su una ragazza, una ragazza che piangeva, urlava il nome del fratello e si divincolava strappandosi di dosso le braccia di medici e infermieri che cercavano invano di tenerla ferma.
Jo riuscì ad entrare nella stanza a vetri dove il corpo del ragazzo era adagiato su di un lettino con le ruote. Si fece spazio tra la moltitudine di medici che, inutilmente, cercò di mandare la ragazzina fuori dalla sala.
Raggiunse Tim, era pallido e aveva tanti tubicini che gli entravano nelle braccia.
Tremante, la ragazza gli sollevò una mano, la baciò e quest’ultima si bagnò di lacrime che sgorgavano ininterrottamente dagli occhi straziati della fanciulla.
Mormorò con voce tremante il nome del fratello e gli accarezzò una guancia. Jo si sentì mancare e i medici ne approfittarono per scortarla fuori dalla stanza.
Un monitor iniziò ad emettere un suono convulso e i dottori iniziarono a correre spingendo la barella. Uno di essi comunicò alla famiglia che avrebbero portato Tim d’urgenza in sala operatoria e che avrebbero provveduto a dare maggiori informazioni non appena la situazione si fosse stabilizzata.
Una donna con un camice bianco li fece accomodare nella sala d’attesa. La ragazza smise di sentire la voce dell’infermiera, fissava le figure ormai piccole che correvano in fondo al corridoio e le pareva di essere dentro una bottiglia.
La famiglia di Tim rimase in silenzio piangendo ad aspettare per ore che sembrarono secoli poi si alzarono di scatto quando un medico si avvicinò e parlò: <<Le condizioni sono più gravi di quanto pensassimo: il ragazzo ha riportato un trauma cranico con ematoma subdurale, fratture ad entrambi i femori e al polso sinistro. Ora i nostri neurochirurghi più talentuosi si stanno occupando dell’emorragia cerebrale. Se questo primo intervento andrà a buon fine, dell’aspetto ortopedico ci occuperemo più tardi>>.
Passarono un paio di secondi che sembrarono infiniti.
<< Dottore mi dica che ce la farà…>>, disse la madre affondando la faccia in un fazzoletto.
<<Mi dispiace signora ma la situazione di suo figlio non è ancora sotto controllo. I medici stanno facendo il possibile ma come le ho detto le condizioni sono assai gravi>>, rispose l’uomo risistemandosi la cuffietta in testa e congedando la famiglia addolorata. Jo vide i suoi genitori abbracciarsi in lacrime e pensò che, fino a quel momento, c’era sempre stato Tim ad abbracciarla quando era in pianti. Improvvisamente si sentì sola come non mai e la sfiorò il pensiero che potesse accadere il peggio. La ragazza cadde sulle sue ginocchia, fiumi di lacrime iniziarono a sgorgare impetuosi dai suoi occhi castani.
<<Tesoro… ce la farà… possiamo solo affidarci a Dio…>>, disse la madre, tra un singhiozzo e l’altro, abbracciando la figlia. Quest’ultima però, udendo le parole della madre, si sottrasse all’abbraccio con fare quasi disgustato: <<NO! No! Come posso affidarmi a Dio? Non c’è nessun Dio! Quale Dio lascerebbe che succedano realtà come questa? Dov’era Dio quando la macchina ha investito mio fratello?>>, Jo era fuori di sé e in cuor suo pensava a come si potesse parlare di una qualsiasi divinità in queste situazioni, divinità che dovrebbe proteggere e non nuocere. Aveva sentito racconti di persone che si erano svegliate dopo anni di coma o che erano sopravvissute a realtà terribili. Pensò riguardo l’esistenza di Dio e si chiese, se egli riuscì a salvare qualcuno di insalvabile, perché lasciò suo fratello al suo destino… e nel frattempo sia lei che i suoi genitori non avevano smesso di piangere.
Tim era morto.
Dopo aver passato due giorni di infernale panico e tensione, la famiglia aveva ricevuto la risposta definitiva: Tim era morto.
Alle nove di sera di mercoledì 8 aprile i medici avevano dichiarato il decesso con la morte cerebrale del ragazzo mettendo ufficialmente fine alla vita di Tim. Inutile dire che i dottori avevano cercato di confortare la famiglia parlando della donazione di organi e di come, così facendo, Tim avrebbe salvato la vita ad altre persone ma ciò non cambiava il fatto che lui non ci sarebbe più stato.
La mente di Jo fu riempita da un vuoto straziante e doloroso. Che cosa avrebbe fatto ora? Come sarebbe cambiata la sua vita? Una parte di lei non lo voleva sapere. Improvvisamente sentì una confusione assordante, un mal di testa che si andava diffondendo in tutto il corpo sotto forma di dolore vero e proprio, si accasciò a terra incapace di muoversi, di pensare, incapace di mettere a tacere quella sensazione che non conosceva. Era un’emozione nuova per lei, non l’aveva mia provata e la spaventava. La sentiva muoversi come se si fosse impossessata del suo corpo, la percepiva, viva, come un parassita e subito la ragazza capì che non se ne sarebbe liberata molto presto.
<<Tim! TIM! Non mi lasciare! Tim! Io ho bisogno di te! Dove sei?>>, parole che uscirono sotto forma di grida dalla bocca di una fanciulla con il volto pallido, rigato dal pianto, con la disperazione negli occhi e una voragine nel cuore.
Due mesi dopo Jo si trovava nella sua stanza, distesa sul letto a fissare il soffitto. Aveva dipinto di rosso, il colore preferito del fratello, il muro sopra la sua testa. Indossava una delle felpe di Tim sulla quale aveva spruzzato poche gocce del profumo da uomo che il ragazzo usava sempre.
Aveva rotto con Tommaso poiché sosteneva di aver bisogno di stare da sola e di elaborare il lutto. Nonostante infinite telefonate e messaggi da parte del ragazzo, aveva continuato ad ignorarlo da quando, una settimana dopo il funerale, lo aveva definitivamente lasciato. Tommaso era stato molto presente per Jo, per tutto il tempo in cui glielo aveva concesso, aveva accolto il suo dolore ed era diventato la sua spalla su cui piangere, le era stato saldamente a fianco per impedirle di cadere. Ma non appena la ragazza lo respinse, quest’ultima precipitò rovinosamente nella strada senza fine dell’autolesionismo. Non si tagliava perché le piaceva farlo ma perché trovava nel sangue quella concretezza, quella reale verità, che non trovava nella sorte capitata al fratello. Aveva troppe domande, troppi dubbi, troppi pensieri che non avevano lo spazio per essere del tutto concepiti. Di tre cose era del tutto certa: primo: Tim era morto, l’uomo che amava di più al mondo non c’era più e non sarebbe mai più tornato; secondo: soffriva, in tutta la sua vita non aveva mai sofferto così tanto; e terzo: il dolore, il vuoto e il sangue erano le uniche entità reali, le uniche realtà stabili che le garantivano una qualche sicurezza che però non riusciva a spiegarsi, il resto altro non era che un conglomerato di dubbi e perplessità, di polvere e nostalgia. Il suo non era poco rispetto per la vita, casomai era poco rispetto per il corpo, ma il suo obbiettivo non era morire. Sebbene ci avesse pensato, non avrebbe MAI lasciato sua madre e suo padre, non avrebbe mai potuto causargli così tanto dolore. La possibilità di rivedere Tim era allettante ma aveva imparato che la vita è l’unico dono che non riceverai mai due volte, ti può essere portata via in un soffio, può essere meravigliosa come può essere un incubo ma viverla è in ogni caso meglio che gettarla via. Jo recuperava le lamette da un temperino e, disinfettandole, usava sempre quelle due che ormai erano rimaste le uniche amiche al suo fianco. I suoi punti prediletti dove incideva il suo dolore e il suo bisogno di concretezza erano i polsi e gli avambracci. Percepire il calore della bolla di sangue che si formava sui bordi della ferita le dava quasi piacere. Poi però la bolla si trasformava nel getto caldo della realtà che le bagnava il polso e la mano fino alla punta delle dita. Bruciava, dio se bruciava.
Aveva preso le distanze da tutti i suoi amici e dalle persone che avevano provato a starle vicino nel tentativo di proteggersi. Ma il risultato fu una realtà ancora più dolorosa. I suoi genitori soffrivano molto e la ragazza non si sentiva di chiedere aiuto a loro. Chissà se un giorno la situazione si sarebbe risolta da sola? Questo pensiero non era molto convincente ma, per Jo, era la cosa migliore in cui sperare.
Dopo aver saltato qualche lezione la ragazza aveva ripreso l’attività a scuola e in palestra. La gente era a conoscenza del suo lutto e spesso le venivano lanciati sguardi strani. Questa cosa Jo non la sopportava proprio. Detestava fare pena agli altri. Questa situazione le aveva fatto crescere una rabbia dentro, che, se fosse uscita, Dio solo sa cosa sarebbe potuto succedere.
Al contrario di quello che pensavano i suoi genitori Jo passava gran parte del so tempo da sola e cercava di interagire con gli altri il meno possibile. La madre aveva iniziato a portarla da uno psicologo, con il quale, però, aveva spiccicato solo qualche frase.
Cosa le importava ormai se non era più protagonista della sua vita ma aveva invece iniziato a subirla?
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