Parte seconda, Capitolo V
In una giornata di sole capii che era giunto il momento di andare, di proseguire il mio viaggio.
Ero rimasto a Londra più del previsto, ma non mi dispiacque.
Osservando due piccioni beccarsi scherzosamente sul marciapiede, mi sentii solo.
Ero lontano da casa, stavo svolgendo una missione per conto di un cliente deceduto, in un paese che non era il mio. Eppure non ero per nulla giù di morale, anzi, quelli che potevano sembrare problemi mi stavano scivolando addosso. Inizialmente non riuscii a spiegarmi perché tutto ciò accadesse, poi capii che stavo assaporando una spensierata libertà.
Cenando con la signora Sienna, decisi di aprirmi a lei.
"Credo proprio che partirò domani" dissi.
La donna sembrò pensarci su per qualche istante, poi portò alle labbra un boccone.
"Capisco" rispose, imperturbabile.
Se un giorno rincontrassi la signora Sienna le direi che me ne sono andato di nascosto perché l'amavo. O forse perché non potevo amarla. Comunque le spiegherei che l'amore si era messo in mezzo, in qualche modo.
Così, quella stessa notte, in punta di piedi, dopo aver fatto la valigia, me ne andai da casa Parker e intrapresi il mio viaggio solitario nella notte, con una sola sigaretta nel pacchetto.
Chiamai un taxi per andare all'aeroporto, destinazione Aberdeen. Là avrei concluso la mia missione.
Ci pensai: la mia storia era "bizzarra", era tutto così strano per me; un medico di un paesino francese in viaggio tra Inghilterra e Scozia, alla ricerca di due donne amate da un altro uomo.
Nelle luci di Southend-on-sea riconobbi l'aeroporto, pagai il tassista e mi avvicinai all'entrata. Ovunque, persone si abbracciavano, qualcuno piangeva, altri strizzavano forte le palpebre abbracciando vigorosamente l'altro.
Io, sperduto spettatore d'altri tempi, avrei invece dovuto attendere qualche ora per il mio volo, ma tutto ciò non aveva importanza. Mi coricai su una poltroncina come molti altri avevano già fatto e, tra un pensiero e l'altro, riuscii a sonnecchiare per un paio d'ore.
Quando salii sull'aereo la malinconia mi colse osservando l'alba dal finestrino, così abbassai la tendina e, senza pensarci troppo, ripresi il mio sonno.
Arrivai che il sole era già alto. Aberdeen non aveva certo la grandiosità di Londra, ma era comunque una bella città. Percorrendo le sue strade mi accorsi che aveva qualcosa di familiare, mi ricordava Praga. Là, molti anni fa, conobbi un pianista pazzo, ma questa è un'altra storia.
Chiamai un taxi, come d'abitudine in quei giorni, e mi feci portare all'indirizzo di Jolene.
Il viaggio non fu lungo e dopo una decina di minuti giunsi a destinazione.
La casa, decisamente più modesta di quella della signora Sienna, era collocata a pochi passi da un parco giochi triste popolato da bambini allegri.
Una donna bellissima conduceva una bimba su un passeggino. Ebbi timore che si trattasse proprio del mio contatto, non sapevo se fosse una madre oppure no. Invece, dopo essersi fermata per qualche istante di fronte alla casa, ripartì per la sua via e non la vidi mai più.
Mi sedetti su una panchina di legno e fissai lungamente il portone, sperando di vedere Jolene uscire. Rimasi fermo lì per quasi un'ora, quando vidi un'automobile un po' malandata entrare nel vialetto. Doveva essere lei, non c'era dubbio.
Mi avvicinai, ma non feci in tempo ad attraversare la strada che la donna aveva già fatto il suo ingresso in casa. Così, con la scatola sotto braccio, suonai il campanello.
Jolene aprì; non era bella. Con mia grande sorpresa, Jolene non era bella.
"Desidera?" mi chiese sorridendo.
I suoi capelli biondi erano legati ma in disordine, era così magra che le ossa del torace sporgevano come due pomi d'Adamo sotto la pelle.
Non era brutta. Aveva, come dire, tutto ciò di cui un uomo si innamora, quell'insieme di gradevoli imperfezioni chiamato amore.
"Salve signora, le porto notizie da parte di Marcus" dissi.
"Oh... va bene, entri pure" rispose lei titubante, e un'ombra comparve sul suo viso, il sorriso si trasformò in un'espressione accigliata un po' curiosa e dispiaciuta.
Osservando l'arredamento capii che quella donna non navigava di certo nell'oro, ma aveva un buon gusto.
"Posso offrirle qualcosa, che so, un succo di frutta?" chiese.
"Certo, la ringrazio" le risposi.
Ci sedemmo al tavolo della cucina e, sorseggiando del succo alla pesca, le spiegai tutto.
Mentre parlavo Jolene non muoveva un muscolo, ascoltava attentamente ogni mia singola parola eppure non ne era colpita o stupita, niente affatto, così le chiesi il motivo di quella sua inconsueta reazione.
"Beh, immaginavo da tempo che sarebbe morto" mi disse. "Noi donne spesso capiamo certe cose sin da subito. Non c'era bisogno che mandasse qualcuno a comunicarmelo. Marcus mi amava, forse è per questo che ha voluto nascondermi la sua malattia".
I suoi occhi furono attraversati da un bagliore improvviso, come l'ultimo barlume di un'amore vinto dalla rassegnazione e sepolto dai suoi stessi ricordi.
"Bene signora" risposi io, "credo non ci sia più molto da dire, ma prima di andarmene ho qualcosa da darle" e parlando così le porsi la scatola delle lettere.
"Qui dentro, come avrà già capito, troverà tutto ciò che Marcus non le ha mai detto, almeno credo. Non ho mai aperto questa scatola, non spetta a me farlo" conclusi.
La donna mi ringraziò e mi accompagnò alla porta sorridendo. Forse l'avevo resa felice.
Uscii di casa sua; ero stanco di chiamare taxi e così, dandomi una rapida occhiata attorno, incominciai a camminare alla deriva, senza una meta. Con un po' di fortuna, forse, avrei rincontrato la donna con il passeggino che avevo visto circa un'ora prima.
FINE SECONDA PARTE
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