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8) KUTULA

Quando Saaràn si riprese la seconda volta, non sentì più la pioggia cadergli addosso.

Era steso a terra, con il volto rivolto in basso e qualcosa di peloso gli faceva prudere il volto e il naso.

Sotto di sé aveva tappeti di lana, morbidi e asciutti.

Faceva caldo e nell'aria sentiva fragranze di incenso e delicati profumi di erbe balsamiche. Una Yurta.

La gola gli ardeva per la sete e la pressione contro il pavimento quasi gli toglieva il fiato.

Il braccio destro era insensibile e quello sinistro lo vedeva appeso in alto, bloccato tra due pezzi di legno serrati con corde ruvide e spesse.

Anche quello gli doleva come se fosse in fiamme.

Tentò di muoversi, ma fu impossibile. A malapena e con notevole sforzo poté piegare di lato il volto.

Poco alla volta si rese conto di essere bloccato con un Syedan, una gogna in legno che stringeva collo e mani, obbligandolo a restare con le braccia alte e distese. Cercò di voltarsi, ma non ci riuscì.

Era impossibile riuscirci da soli.

Tra il peso del legno, la posizione e i fili di lana infilati nella bocca e nel naso, si sentiva soffocare.

Gemette e subito udì dei passi affrettarsi verso di lui.

Non vide chi si stava avvicinando, ma ne avvertì immediatamente la rabbia nel rauco grugnito che emise quando si accorse che si era già ripreso.

Si attendeva altri colpi, invece la voce autoritaria di un altro uomo si fece sentire e i passi si fermarono all'istante:

"Chi ha osato fargli questo! Fermi, che nessuno lo tocchi più! Sollevatelo e portatelo a me! Svelti!" ordinò quella voce.

Mani solerti e delicate afferrarono Saaràn per le spalle e lo voltarono al contrario.

Gemette ancora per il dolore alla schiena, al collo, alle braccia, ma almeno poté respirare meglio.

Quando aprì gli occhi, riconobbe la struttura di una Yurta: era enorme, ricca, in ogni particolare vedeva lusso e opulenza.

Il legno del Seydan gli premeva contro il collo e le spalle, era ruvido e pieno di schegge appuntite.

Cercò di ruotare la testa, ma dovette fermarsi subito. Un dolore lancinante alla nuca gli impedì di muoverlo.

Udì la voce di prima:

"Sollevatelo a sedere, presto!" ordinò e subito quattro mani presero Saaràn per i bordi del Syedan e lo sollevarono di peso.

Finalmente seduto, per qualche secondo gli parve di rinascere, poi il peso del legno gli premette sul collo dolorante e temette di svenire nuovamente.

Reprimendo un conato cercò di controllarsi, di respirare lentamente e resistere. Aveva una sete tremenda.

Avrebbe dato qualunque cosa per un poco di acqua, però non osò parlare per timore di vomitare.

Chiuse gli occhi: la testa gli girava e le orecchie ronzavano come se fossero piene di api.

Forse passarono solo pochi attimi prima che potesse riprendersi abbastanza da rendersi conto di quello che lo circondava, ma lui non seppe dirlo.

Non udì più nulla, non vide più nulla, per un certo tempo fu sospeso in una bolla senza luci e suoni al di fuori di quella nausea che lo tormentava alla bocca dello stomaco.

Poi poco alla volta le vertigini passarono e il ronzio nelle orecchie si attenuò abbastanza da permettergli di udire ancora quella voce.

Un nuovo ordine si udì perentorio:

"Coppiere, portami il mio Khumish! Tu ragazzo, liberalo e poi uscite tutti e due!".

A Saaràn non parve vero, eppure quella voce la conosceva.

Sentì qualcuno replicare incerto:

"Mio Signore, ma... ".

Il Naaxia si fece attento: anche quella voce gli rammentava qualcosa, ma era troppo intontito dai colpi per metterla a fuoco.

"Voglio i colpevoli. Fate presto e fuori!" urlò imperiosa.

Per quanto fosse stordito, il prigioniero stesso sobbalzò davanti a tanta rabbia.

Quell'ordine non ammetteva repliche.

Mani tremanti gli tolsero veloci le corde che fermavano i legni e le braccia, tornate libere, caddero inerti senza forza.

In quel momento ringrazió Ten-gri.

Tolta la gogna dal collo, la pressione sulla schiena scomparve e le spalle poterono ricominciare a muoversi.

Erano dolenti, rigide e insensibili, però ora era libero ed era già qualcosa.

Si guardò attorno.

La vista ancora offuscata gli rimandava solo immagini distorte, tuttavia sapeva di non essere solo.

Udì, o meglio, percepì, alle spalle un fruscio di passi leggeri sul tappeto di lana.

Qualcosa gli venne posato in una mano e una voce di uomo gli disse: "Bevi".

Non vi era astio in quelle parole, piuttosto un vago dispiacere per quello che gli era capitato.

Era ancora stordito, dolorante, frastornato, nondimeno dal profumo che gli giunse alle narici capì in fretta che in mano stringeva una coppa di latte acido: Khumish!

Lo bevve avidamente, tenendolo con entrambe le mani per non farne cadere in terra nemmeno una goccia.

Era tiepido, fermentato, alcolico, scendeva lungo la gola riportando la vita dove a malapena passava l'aria. Sospirò, cauto. Era in paradiso.

Non riusciva ancora a parlare, altrimenti avrebbe ringraziato il suo benefattore.

"Ne vuoi ancora?" lo sentì domandargli e Saaràn scosse la testa: meglio non esagerare, la nausea non l'aveva abbandonato del tutto e non voleva vomitare sopra i tappeti.

I passi si allontanarono, sparirono in uno scricchiolio ovattato di legno e avorio.

Aveva capito dove si trovava; sapeva di chi era quella voce.

Se era ancora vivo lo doveva a lui. Ringrazió ancora Ten-gri.

Lentamente, cercando di non cadere indietro, si mise in ginocchio e si prostrò a terra.

Sforzandosi di far passare l'aria attraverso la gola infiammata, gracchiò poche parole:

"Mio Khan, il tuo servo è qui davanti a te, come hai ordinato. Comanda e sarai ubbidito" disse senza alzare lo sguardo da terra.

Udì una risata sardonica.

"Come potrei dare ordini al Signore della Steppa!" esclamò divertito.

Saaràn credette di morire a sentire quelle parole.

"Sì, mio caro Naaxia, credevi che non venissi a saperlo? Quel soldato... come si chiama, Omnod, mi ha raccontato tutto e a quanto ho visto, gli sei debitore di una vita. Alzati Saaràn, non ti si addice quella posizione. Almeno quando siamo soli, ti libero dall'obbligo di umiliarti".

Lentamente Saaràn fece come gli era stato detto, si rizzò, si mise inginocchiato e rimase seduto sui talloni all'uso Un.

Davanti a lui si ritrovò un uomo sorridente e dalla dentatura sana, più o meno della sua età.

Era longilineo, dai lineamenti del volto delicati, benché deturpati da una vecchia ferita mal curata che attraversava tutta la guancia sinistra, attraversandola dall'alto in basso.

Non aveva un colorito sano, però la muscolatura scattante e i movimenti agili ne denotavano un vigore innato.

Portava i capelli duri e neri acconciati come si conveniva a un Un: lunghi e raccolti in una coda, con poche ciocche libere che scendevano sulle guance.

Su entrambe vi erano profonde scarificazioni per passati scontri terminati con la morte dell'avversario.

Su quella sinistra erano inutilmente poste a mascherare l'altra ferita, più rossa, liscia, che l'attraversava tutta da parte a parte.

L'uomo era seduto su di una sedia pieghevole in legno, rivestita di pregiati inserti d'avorio e lamine d'oro.

Sopra, gettato negligentemente, c'era uno spesso tappeto di lana gialla, con sopra intessuti e intrecciati fili azzurri a formare la figura di un lupo.

L'uomo davanti a Saaràn portava vestiti semplici, adatti a cavalcare: seta e cuoio si intervallavano a metallo e osso.

La vita era stretta, avvolta più volte da una fascia di seta e alti stivali in cuoio gli proteggevano le gambe arcuate fino ai polpacci.

Era l'immagine stessa del potere e nei suoi occhi scuri e stretti si scorgeva un animo attento, indagatore, tanto curioso quanto spietato al bisogno.

Accanto allo scranno, appoggiata ritta e tenuta a portata di mano, vi era la spada curva e affilata solo su un lato dei cavalieri Un.

Alla cintola portava un pugnale riccamente adornato e rifinito, che risaltava per la bellezza sopraffina.

Una grande pietra azzurra era fissata sul pomolo e l'impugnatura era d'oro e avorio, intarsiata di pietre preziose: il Pugnale Azzurro, il pugnale del Khan, il sogno proibito di ogni Un-Han.

Tutto attorno, appesi alla parete circolare della Yurta, armi, code di cavallo e corna di Yak, i simboli del potere di quell'uomo sull'Urdu.

Oltre a loro due non c'era nessuno all'interno della casa. Anche le donne e i bambini erano stati portati fuori.

"Kutula!" mormorò Saaràn.

Erano quarant'anni che non lo vedeva, eppure quando lo vide, lo riconobbe immediatamente.

"Saaràn" ricambiò piano Kutula, sporgendosi in avanti "quanto tempo è passato. Una vita intera, quasi".

"Sotto il Ten-gri, cosa vale una vita..." recitò Saaràn, prontamente interrotto da Kutula: "... senza un amico che ti guarda le spalle".

Era un antico detto Un, ma per loro aveva un significato particolare.

Kutula mostrò a Saaràn il palmo aperto della mano destra: una cicatrice bianca l'attraversava tutta.

Saaràn fece altrettanto e sul palmo della mano destra mostrò una cicatrice simile a quella di Kutula.

Le avevano fatte insieme, quarantanni prima.

Erano Anda, fratelli di sangue.

"Non hai dimenticato, allora" fece emozionato Saaràn.

"Ti devo la vita, come avrei potuto. Ogni mattina ho visto il saluto che mandavi la mattina..."

"Non mi aspettavo risposta..."

"Nemmeno volendo avrei potuto risponderti, ma lo aspettavo con gioia, sempre".

In privato con poche parole i due Anda avevano cancellato una vita di lontananza, ma davanti agli altri, le distanze che vi erano tra di loro, restavano ed erano insormontabili.

Rischiando di essere travolto dai ricordi, a fatica Saaràn riprese il controllo.

Dovette ricordarsi che lui era il Naaxia e il suo amico era il Khan dell'Urdu.

La nuda terra non era tanto distante dall'Eterno Cielo Azzurro, quanto lo erano per rango e prestigio Saaràn e Kutula, l'uno rispetto all'altro.

"Cosa posso fare per il mio Khan" disse abbassando lo sguardo dal volto amico.

"Ho bisogno ancora una volta di te, Saaràn".

Stupito il Naaxia tornò a guardarlo:

"Hai tanti amici, compagni fedeli più potenti di me".

"Ahhhahh!" esclamò Kutula, facendo un gesto di stizza.

Si alzò facendo scricchiolare la sedia e mise a camminare nervosamente attorno a Saaràn.

"Belve, iene e lupi che aspettano solo un mio errore per tagliarmi la gola nel sonno. Non mi rispettano, mi temono. Solo per questo sono ancora vivo, ma tra loro c'è già chi affila la lama per me".

Saaràn sapeva che Kutula si riferiva agli Un-han, i nobili signori delle Sette Tribù che aspiravano a prendere il suo posto nel Khanato.

"Non capisco; avermi fatto venire qui, potrebbe essere un errore mortale, allora".

Kutula si fermò dal suo andirivieni scomposto e nervoso e annuì.

"Potrebbe, sì. Anzi, forse lo è già, ma ho bisogno del mio servo più fedele accanto a me. Mio Anda, temo il futuro quanto non mai".

Saaràn lo fissò interrogativo.

Perché il Khan gli ricordava per la seconda volta il legame che avevano stretto in gioventù?

Vedendolo incerto, Kutula gli sorrise: "Cosa vedi alla mattina, quando esci dalla Yurta?" gli domandò e lui rispose senza incertezza: "Ten-gri".

Kutula si toccò la fronte in segno di rispetto.

"E poi?".

"La Steppa" rispose Saaràn senza capire "Cos'altro dovrei vedere se non l'uno o l'altra?".

"Esatto, amico mio. Esatto. Cos'altro dovresti vedere? Sogni forse, di notte, Saaràn? Non sogni mai, tu?".

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