7) ARRIVO ALL'ACCAMPAMENTO
La pioggia tormentò i due cavalieri per tutto il tragitto, ma Saaràn nemmeno se ne rese conto.
Esasperando l'esuberante Omnod che aveva fretta d'arrivare, imperturbabile come sempre il Naaxia fece procedere al piccolo trotto Monglik senza mai forzare l'andatura, obbligando spesso il soldato a fermarsi ad aspettarlo.
Questi marciava avanti, fremente per il ritardo e impaziente di rientrare nell'Orda, eppure mai una volta osò richiamarlo a fare più in fretta.
In fondo il giovane Konghirato lo capiva, perché anche lui aveva un'inquietudine che non avrebbe creduto possibile soltanto all'alba di quel medesimo mattino.
Per quanto avesse sempre detestato il Naaxia, accettando di seguirlo fino all'accampamento, quell'uomo rischiava di perdere la vita.
Una volta giunti all'Urdu c'era chi l'aspettava con ansia e il suo compito era proprio quello di portarlo all'accampamento il prima possibile.
Era una trappola e lui lo sapeva.
L'aveva sempre saputo, ma se all'inizio aveva accettato con gioia quella missione, ora le cose erano cambiate.
Provava per Saaràn un sentimento contrastante, qualcosa che si collocava tra la repulsione e la gratitudine, che, se non fosse stato il Naaxia, avrebbe potuto confondersi anche con il rispetto.
Per quanto avrebbe dovuto disprezzare lui e tutta la sua famiglia, quell'uomo senza onore gli aveva salvato la vita e questo per un Un aveva un valore enorme.
Omnod era un giovane cresciuto nella migliore tradizione Un, solido, fermo nelle sue convinzioni, ambizioso, pronto a fare ogni cosa per salire nella gerarchia dell'esercito del Khan, però aveva anche ben chiaro cosa fosse il valore di un uomo.
E quell'uomo, il Naaxia, senza averne un vantaggio alcuno, l'aveva aiutato quando avrebbe potuto abbandonarlo al suo destino.
Si era comportato mille volte meglio del suo Scengun, Ukhsen Aris, che, ora l'aveva capito, aveva ordito un imbroglio anche contro di lui, per screditarlo davanti all'Urdu e davanti a Targin, la sua bella.
Questo era inaccettabile, sopratutto visto che appartenevano tutti e tre alla medesima Tribù dei Konghirati.
Omnod sapeva che Ukhsen Aris lo detestava da quando Targin aveva preferito i suoi doni a quelli del più maturo Scengun, ma mai si sarebbe aspettato tanta infame spietatezza da parte di un suo superiore.
Pensava che tra gli Un ci fosse un codice d'onore e che nell'esercito del Khan ci si difendesse l'uno con l'altro, ma chiaramente si era sbagliato. Sapeva che al pari suo, anche Ukhsen voleva Targin.
Come Un, Omnod sarebbe stato pronto a difendere in duello il suo diritto a corteggiare la ragazza, tuttavia faceva fatica ad accettare il meschino tranello che gli era stato teso dal suo rivale per liberarsi di lui.
Quello era un modo miserabile e infame di comportarsi, da vili che tramano nell'ombra e colpiscono alle spalle.
Omnod non amava Ukhsen, però non pensava che potesse essere così spregevole.
In qualche modo, presto o tardi avrebbe saputo vendicarsi di quell'oltraggio, ma per ora non avrebbe potuto fare altro che ingoiare l'amaro sapore dell'attesa e questo lo faceva fremere di rabbia.
Quando finalmente arrivarono in vista dell'Urdu, Omnod fece un cenno di saluto e alcuni cavalieri si staccarono al galoppo dai carri e si diressero a incontrarli:
"Eccoli!" pensò il soldato, poi si rivolse a Saaràn:
"Siamo arrivati, Naaxia. Ora saprai perché ti cercano".
Lo disse senza odio o rancore, non vi era sarcasmo nella sua voce e il Naaxia lo apprezzò.
Annuì in silenzio.
Fu grato al giovane per la delicatezza con la quale gli aveva appena comunicato che tra poco avrebbe saputo se avrebbe ancora vissuto o sarebbe morto.
Saaràn temeva e desiderava quel momento da quando erano partiti e ora che quel momento era giunto, doveva tenere a bada la paura.
Contò i cavalieri in avvicinamento, erano cinque, armati e si dirigevano diritti verso di loro.
Si stavano aprendo a ventaglio, forse temevano che volesse fuggire.
Mentre il cavaliere di metà continuava a venirgli incontro, gli altri quattro lo aggiravano e lo chiudevano da ogni lato.
Nel vedere quella manovra il cuore di Saaràn perse un colpo, perché era così che si comportavano gli Un quando volevano tendere un agguato a un nemico.
I quattro che lo circondavano alle spalle erano Baltai, giovani, inesperti, tesi, tanto nervosi quanto pericolosi.
Il quinto che veniva diritto verso di loro era uno Scengun.
Saaràn sentì l'agitazione crescergli dentro: non gli piaceva la cosa, lui era venuto in pace e non portava armi con sé se non il coltello.
Sollevò una mano in segno di pace.
Vide i Baltai stringersi attorno al suo pezzato con fare minaccioso.
Sul cappello di pelliccia avevano cucito una coda nera di Lupo.
Erano Hanbakai, appartenenti al Clan del Lupo Nero.
Erano furenti e desiderosi di fare male.
Glielo leggeva in volto, dai sorrisi, dagli sguardi che si scambiavano a vicenda per darsi coraggio, da come spingevano avanti i cavalli, quasi si aspettassero una sua reazione per poterlo colpire.
I loro Tarpan, furenti quanto i cavalieri che li montavano, spingevano e mordevano Monglik serrandolo da presso, ma al pari del padrone il piccolo pezzato rimase inerme.
Un Baltai si sporse veloce dalla sua cavalcatura e strappò via il coltello dallo stivale di Saaràn; un altro, vedendolo girarsi di scatto gli diede un manrovescio sull'occhio.
Un terzo gli diede un calcio alla gamba e il quarto lo colpì alla nuca, stordendolo.
Accadde tutto in un momento.
Con la vista annebbiata dal dolore si piegò sul collo di Monglik e si tenne al pomolo della sella per non cadere in terra.
Dolorante e fremente di rabbia, Saaràn rimase fermo e udì l'ufficiale rivolgersi al Baltai che l'aveva accompagnato:
"Sei tornato quindi, Omnod. Pensavo ti fossi perso!" gli disse schernendolo.
I quattro Baltai alle sue spalle ridacchiarono.
Sforzandosi a guardare sottecchi senza muoversi, Saaràn vide il giovane soldato stringere le briglie del suo Tarpan:
"Sì, Ukhsen, sono tornato e sono a tua disposizione!" lo udì rispondere furente.
Aveva formalmente sfidato a duello il suo rivale in amore.
L'altro finse di non sentire l'insolenza, ma gli occhi gli brillarono di una luce perversa e sul volto gli comparve un ghigno simile a un sorriso.
Era più anziano del soldato, ben piantato e con ferite visibili sulle braccia. Sulle guance aveva molte scarificazioni, una per ogni avversario ucciso in battaglia.
Saaràn non dubitava che quello Scengun i gradi se li fosse guadagnati lottando.
Sebbene non fosse più giovanissimo, lo giudicò un combattente tanto temibile quanto spietato.
Era uno di quegli Un che era meglio non provocare, a meno di non essere disposti a essere più spietati di lui.
Il suo volto era ributtante, aveva le guance cadenti e balze di pelle molle gli pendevano lungo il collo, ma Saaràn ebbe timore di quell'uomo e preferì fingere di essere ancora svenuto.
"Non temere, Omnod" gli rispose sogghignando lo Scengun "Quando avrò bisogno di te, te lo farò sapere. Vai pure adesso, a lui pensiamo noi".
Il Baltai parve agitarsi sul Tarpan, guardò il Naaxia ancora piegato sul cavallo e il suo diretto superiore; sembrò sul punto di dire ancora qualcosa, ma poi cambiò idea, diede un colpo secco di tallone e partì al galoppo verso l'Urdu.
Rimasti soli, lo Scengun si avvicinò al Naaxia.
Saaràn si sforzò di restare immobile.
Il soldato lo fissò chino, svenuto e ferito.
Poggiò una mano sull'impugnatura di una corta daga che portava infilata nella fascia a vita.
Una preda facile, se il Khan non avesse chiesto espressamente di condurlo da lui.
Sul volto dell'Un vi era il disprezzo che provava nel respirare la medesima aria che respirava Saaràn: accarezzava delicatamente il pomolo del suo pugnale; un colpo solo, alla gola, sarebbe stato rapido e decisivo, la tentazione era forte, lo portava a fremere dal desiderio di farsi un'altra cicatrice sul volto, ma all'ultimo ci ripensò, diede uno strattone alle briglie del Tarpan e si allontanò di un passo da Monglik.
Con un filo di voce bassa e roca disse ai Baltai che erano ai suoi ordini:
"Dategli una lezione, ma non uccidetelo. Dobbiamo portarlo vivo dal Khan".
Quella fu l'ultima cosa che Saaràn udì, prima di crollare a terra sotto una gragnola di colpi che lo fecero svenire per davvero.
Quando si riprese abbastanza per rivedere ancora la luce del giorno, si accorse di avere un occhio gonfio, una guancia insensibile e provava dolore in ogni parte del corpo.
Era disteso a terra, con la faccia piantata nell'erba e faticava a muovere il braccio destro.
L'arto era piegato all'indietro e gli faceva male.
Provò a spostare il sinistro, ma anche quello non si mosse.
Sentì il collo piegato all'indietro, bloccato in una posizione innaturale da una corda e stretto al punto da poter appena respirare.
La gola era riarsa dalla sete e bruciava.
Muovendo a stento la testa da un lato all'altro vide carri, buoi e cavalli.
Non vide nessuno attorno a sé, né uomo, né donna.
Nessuna guardia in vista. Era solo.
Doveva essere in qualche punto all'interno dell'Urdu.
L'avevano trascinato di peso e abbandonato lì, come un sacco vuoto. L'erba era bagnata e scendeva ancora una pioggia fine e insistente.
Cercò di prendere in bocca un filo d'erba per succhiarne una goccia d'acqua, ma nell'allungare la lingua oltre le labbra, gemette per il dolore.
Subito vide comparire un paio di stivali di cuoio, del tipo indossato dai soldati.
Un colpo violento al capo gli fece nuovamente perdere i sensi.
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