35) PENTIMENTO
Saaràn vide Chonyn dirigersi verso la Casa dei Lupi.
Il Togril andava a riferire alla Signora.
Ne provò invidia, eppure lasciò perdere e diede delle pacche affettuose al suo fedele Tarpan.
Era soprattutto merito suo se erano riusciti a tenere testa a quel giovane presuntuoso ed era giusto che avesse un riconoscimento adeguato.
Ma anche se era fiero di quello che erano riusciti a fare, quando vide uscire dalla casa in cui erano ospitati Omnod, Gerel, Saryn e per ultima Helun, zoppicante a raggiungerlo appoggiata a un bastone sagomato a stampella, si ricordò il reale motivo per cui aveva rischiato la vita.
L'esplosione del vulcano, il terremoto, la folle fuga da Khurts Khutga, quando vide la sua famiglia sana e salva venirgli incontro, tutto gli ritornò alla mente.
Rapidamente diede un sguardo alle costruzioni e allo spiazzo che lo circondavano.
Non vide danni irreparabili.
Il violento terremoto pareva che qui avesse avuto meno forza che in alto, non lasciando segni evidenti alle strutture.
Se si escludevano qualche catasta di legna rovinata a terra e pochi oggetti sparsi qua e là, tutto pareva aver retto bene alla scossa.
Anche la stalla pareva non aver riportato danni e al di fuori di un paio di imposte da rimettere sui cardini e un'anta del portone aperta in modo anomalo, non scorgeva crepe nei muri, né tanto meno nel soffitto.
Non poteva dirsi un esperto di tale genere di strutture, però gli parve di non vedere muri traballanti o instabili.
Il vecchio Monglik deve essere salvo, per Ten-gri, pensò.
Sorrise al ricordo del vecchio pezzato e si ripromise di andarlo a trovare appena avesse ripreso abbastanza le forze da camminare senza zoppicare, ma per ora doveva evitare di farsi notare troppo.
Imbarazzato dalla propria debolezza si guardò attorno.
Vide stallieri andare e venire dagli stabbi per assicurarsi che i cavalli non avessero subito danni.
Erano tutti occupati a rimettere a posto le cose, però i più giravano a vuoto, agitati, sconvolti, troppo sbadati per avvicinarsi a lui e al suo cavallo.
Li vide disorientati.
Anche nei Togril riconobbe lo stordimento che seguiva il terremoto, eppure in nessuno di essi percepì il timore che fosse successo qualcosa di irreparabile o la voglia di lasciarsi andare.
Tensione, incredulità, paura, sì, tanta paura, palpabile al tatto, nell'aria e negli sguardi, ma non smarrimento.
Anche nel pericolo quelle persone sapevano come comportarsi per reagire al meglio, senza lasciarsi corrompere dal panico.
Li vedeva andare avanti e indietro a rimettere a posto le cose, guardandosi l'un l'altro come se stessero cercando di darsi coraggio a vicenda.
Questa è la loro forza, pensò.
Quando Saryn e Gerel lo raggiunsero li abbracciò, poi tenendoli stretti a sé si diresse passo passo verso Helun.
La donna, claudicante sulla stampella, li seguiva come poteva.
Strinse anche lei tra le braccia, con una foga che non sapeva più di avere da tanto tempo.
Aveva temuto il peggio, credeva di averli perduti per sempre e solo allora riusciva a rendersene conto appieno.
Non volle nemmeno pensare a cosa avrebbe fatto, se li avesse persi per davvero.
Omnod passò loro accanto.
Saaràn lo vide, il ragazzo si teneva un poco in disparte dalla famiglia riunita.
Stretto a Helun e ai due ragazzi, vide che anche lo Scengun aveva gli occhi dilatati dallo spavento e l'aria agitata di chi non sapeva cosa aspettarsi dal futuro, ma non sembrava ferito.
Bene, si disse.
I due Un si scambiarono un rapido saluto prima che il ragazzo si dirigesse verso il Tarpan del Naaxia rimasto fermo davanti alla stalla.
Gli si inginocchiò al fianco, ispezionandogli con cura i garretti.
Monglik era stremato, sudato, tremava dalla fatica tenendo sollevata la zampa anteriore ferita e saltellava, nel tentativo di raggiungere come poteva il ricovero.
Faceva pena a vedersi, nello stato in cui si trovava.
In quella arrivarono al trotto anche Chadvarlag e Uleg.
Quando videro il Naaxia assieme alla famiglia, rallentarono e gli andarono incontro al passo.
Erano trafelati, spaventati, disorientati come tutti, ma non erano distrutti come si sentiva lui in quel momento.
Scendendo da cavallo, il Togril vide le condizioni del Tarpan dell'Un e scosse la testa, poi si allontanò senza dire una parola, portando per la cavezza il proprio nella stalla; Uleg, dopo aver fatto un cenno al padrone, smontò anch'egli.
Le loro cavalcature erano affaticate, sudate per l'andatura elevata e per lo spavento, ma nessuna delle due era sfinita come il suo Tarpan.
Gli zoccoli del cavallo del Taiciuto erano consumati dalle pietre, tuttavia erano integri, mentre quelli ferrati dello stallone Togril, intatti.
Nel vedere tutto questo, si vergognò della propria stupidità.
Per guadagnare solo una misera manciata di minuti aveva rischiato la propria vita e quella di Monglik e ora se ne rendeva conto.
Era stato un sciocco a lasciarsi trascinare in quella folle competizione.
Era stato un irresponsabile, uno stupido Naaxia della Steppa e ora lo sapeva.
Si vergognò profondamente di quello che aveva fatto al proprio cavallo e sciogliendosi dall'abbraccio dei suoi cari, raggiunse Omnod che l'accudiva, prendendosene cura al posto suo.
Il ragazzo era accucciato davanti alla zampa ferita del Tarpan e gliela lisciava, per assicurarsi che non ci fosse nulla di rotto.
Aveva gli occhi umidi dalla rabbia.
"Come sta?" gli fece Saaràn quando a fatica s'inginocchiò al fianco del giovane, ma non ebbe nemmeno bisogno di attendere la sua risposta per comprendere quale danno avesse fatto il folle gesto di poco prima.
Quello che restava dello zoccolo destro, consumato all'inverosimile, si era spezzato in due e sanguinava, fesso nel mezzo da una larga fenditura.
Pure gli altri erano consumati, sbrindellati e consumati dalle rocce e dal pietrisco, tuttavia non erano rotti.
Era già un miracolo che almeno quelli non sanguinassero e non fossero arrivati a ledere la pelle.
In quasi mezzo secolo di cavalcate, per Saaràn quella era la prima volta che gli capitava di vedere degli zoccoli ridotti in quel modo orribile.
Nella Steppa, il terreno morbido e l'erba soffice non consumavano gli zoccoli così velocemente, ma le pietre, le rocce, le montagne, ora lo sapeva, non erano la Steppa.
I morbidi zoccoli dei Tarpan Un, non erano adatti a scendere sui ciottoli come aveva fatto fare lui a Monglik.
Gemette dall'orrore per quello che aveva fatto al proprio compagno di avventure e, dalla disperazione, si strinse la testa tra le mani.
Sentendo il suo disagio, il cavallo sbuffò e gli appoggiò il muso sul cappello quasi volesse consolarlo.
Rendendosene conto, Saaràn si sentì un verme e lo accarezzò con delicatezza, come mai era riuscito a fare prima d'allora.
Sottecchi osservò anche il giovane Un inginocchiato al suo fianco.
Ancora ricordava di come aveva strapazzato Omnod al loro primo incontro, solo pochi giorni prima.
Lo aveva trattato come uno sconsiderato per il modo in cui aveva spinto al galoppo il Tarpan per venirlo a cercare, riprendendolo duramente per non aver pensato alle conseguenze del proprio gesto.
Allora l'aveva duramente ripreso per il suo comportamento imprudente, l'aveva fatto vergognare per aver mancato di rispetto al proprio animale, tuttavia ora toccava a lui a vergognarsi per quello che aveva fatto.
E tutto per uno stupido, sciocco momento di dissennata follia.
Invece di rispondergli, lo sguardo che Omnod gli lanciò davanti a quello scempio orribile, fu più acuminato di una punta di freccia e più devastante di un colpo di lancia nel costato.
Negli occhi del giovane soldato, Saaràn lesse un tale intenso dispiacere per le lesioni riportate dal cavallo, che lo ferì più che se glielo avesse detto a parole.
Aveva sbagliato e non aveva giustificazioni per quello che aveva fatto.
Anche se lui era il Capo a cui l'Un aveva scelto di donare fedeltà e appoggio, gli doveva un rispetto che fino ad allora non gli aveva riconosciuto nel giusto modo.
Era stato arrogante, presuntuoso, tronfio nel suo sentirsi il Signore della Steppa, quando altro non era che un Naaxia, l'ultimo tra gli ultimi dell'Orda Azzurra, l'inutile Cercatore di Strade della Steppa.
Passandosi una mano sul volto: "Scusa ragazzo, di tutto" gli disse a mezza voce in modo che solamente lui potesse udirla, ma se in quel momento un tuono avesse squarciato Ten-gri e un fulmine avesse colpito il terreno al suo fianco, l'effetto sortito non sarebbe stato meno violento nell'animo del giovane.
Era quello di cui Omnod aveva bisogno per dissipare i tormenti e i dubbi che agitavano il suo animo, ormai totalmente sconvolto da quando erano giunti a Togriluudyn.
Il suo modo di ragionare era grezzo forse, ma semplice e sincero.
Tutte le sue certezze erano saltate per aria dopo aver visitato la Valle dei Togril.
La Lupa Azzurra, era lei che comandava su quella gente.
Tutto ciò che quelle persone avevano realizzato in secoli di duro lavoro, pur essendo uno scempio ai suoi occhi, era avvenuto con la benedizione di Ten-gri.
Bortecino stessa gli era apparsa, si era trasformata ed era diventata donna davanti a lui.
Come poteva essere vero, giusto e buono tutto questo, se i Togril deturpavano la montagna e violentavano la terra?
Come poteva ancora credere che fosse giusto quello che l'Orda faceva nella Steppa, quando la Lupa Azzurra ordinava di fare l'esatto opposto a quella gente?
Che senso aveva tutto quello che la sua gente faceva da generazioni?
In quel momento tutte le sue certezze più profonde erano state messe a dura prova, ma udire quell'uomo che stimava e a cui aveva promesso obbedienza abbassarsi a chiedere scusa a lui, ebbero l'effetto lenitivo di un balsamo sulla piaga di un uomo ferito.
Il Naaxia, l'uomo che parlava a tu per tu con Bortecino, chiedeva scusa a lui, che non era più certo di cosa fosse giusto o sbagliato.
Colui che comprendeva i lupi come faceva con gli esseri umani, era al suo fianco.
Colui che ancora più del Khan si avvicinava a Ten-gri divino, si prostrava davanti a lui, che trovava attraente una ragazza Togril dai capelli rossi e il volto pieno di lentiggini, nonostante fosse già promesso a Targin, una ragazza del suo Clan.
Per Omnod fu troppo e abbassò lo sguardo, fiero di appartenere a un tale uomo.
Nel frattempo, dalla stalla comparve anche la figura massiccia e rubiconda di Nuuts.
Camminava veloce, trafelato.
Era stato avvisato dell'arrivo della spedizione ed era andato a vedere come se l'era cavata il suo compaesano.
Aveva le maniche arrotolate sugli avambracci, un grembiule di spesso cuoio gli tirava sulla pancia e sul petto e robuste scarpe di cuoio gli ricoprivano i piedi.
In testa, al posto del cappello floscio, calcava sulla fronte una pezza di tessuto legata sulla nuca.
Era sudato, sporco di cenere e ferro, in una mano stringeva un paio di pinze di ferro e nell'altra un grosso martello da fabbro.
Quando vide Uleg, sospirò e gli fece un cenno.
Contento di vederlo in buona salute gli disse qualcosa nella loro lingua, poi si rese conto delle condizioni di Monglik e la sua contentezza svanì in un attimo.
Senza che qualcuno glielo chiedesse, si diresse verso la zampa ferita del Tarpan e la prese delicatamente dalle mani di Omnod.
La sua espressione corrucciata e il grugnito che emise dopo averla esaminata, bastò a Saaràn per comprendere che la situazione era grave.
In Murlag, la lingua franca della Steppa, il Naaxia gli domandò:
"Sei... cura cavalli?".
Senza guardarlo in volto, con un cenno del capo, l'altro negò:
"Fabbro, no cura cavalli. Tu fatto questo?" gli domandò ancora in Murlag, senza staccare gli occhi dallo zoccolo spezzato.
La voce piatta e il tono con cui il Taiciuto pronunciò quelle parole sconnesse e sgrammaticate, tradivano un nervosismo a malapena celato dietro la cortesia.
Vergognandosi di se stesso Saaràn lo comprese e abbassò la testa.
"Puoi fare qualcosa?" gli fece a mezza voce.
"Oi!" esplose l'altro trattenendo a stento la rabbia.
Monglik sobbalzò, poi controllandosi per non spaventare ulteriormente il Tarpan, Nuuts aggiunse:
"Forse. Tu lascia me lavorare. Va!".
Con un gesto carico d'ira e di stizza, il fabbro gli fece cenno di allontanarsi e l'Un si alzò senza replicare.
Entrò nella stalla e si diresse verso lo stabbio dov'era ricoverato l'altro Monglik.
Appena lo vide arrivare, il vecchio pezzato sollevò la testa dalla paglia e fece per alzarsi, ma non vi riuscì.
Aveva gli occhi spalancati e il respiro affannato.
Tradito dalla debolezza e dall'età scalciò inutilmente. Nitrì.
Saaràn gli fu subito accanto e lo trattenne.
Come gli altri cavalli presenti nella stalla, anche il Tarpan aveva paura, era teso, nervoso, come tutti era rimasto scosso dal violento terremoto e nessuno pareva essersi ancora preso cura di lui.
Allora lo blandì con la voce e lo fece distendere.
Continuando ad accarezzarlo pensò a quanta fedeltà potessero donare gli animali, disposti a qualunque sacrificio pur di soddisfare l'essere umano a cui avevano donato il loro cuore.
Molto più degli uomini, essi sapevano dare più di quello che ricevevano e ne erano contenti.
Alle sue spalle avvertì un fruscio di piedi nella paglia.
Senza voltarsi, dal rumore che facevano gli attrezzi sbattendo l'uno contro l'altro ad ogni passo che l'uomo faceva, comprese che era Nuuts.
"Perché tu fatto quello?" gli domandò il Taiciuto in Murlag.
La sua voce era calma, ma colma di tristezza.
Saaràn comprese che si riferiva agli zoccoli dell'altro Tarpan.
Scosse la testa.
"È stata una follia. Non succederà più, te lo prometto. Salvalo e un giorno te ne sarò riconoscente" gli disse.
Era sinceramente pentito di quello che aveva fatto per un insensato senso di rivalsa verso una giovinezza ormai perduta.
Il Taiciuto grugnì.
Dopo un poco, aggiunse:
"La Signora cerca te in Casa di Quelli che Mangiano. Solo te. Ora".
In Murlag per "Quelli che Mangiano" si intendono i Lupi e Saaràn lo sapeva.
Sorrise e annuì alle parole del fabbro.
Senza mai guardarlo negli occhi, dandogli le spalle Saaràn si alzò e uscì.
Si vergognava troppo per quello che aveva fatto al suo cavallo, per riuscire a sostenere uno sguardo carico d'accusa come quello del Taiciuto.
Quando arrivò all'esterno del fabbricato, andò da Helun:
"La Signora mi vuole incontrare, ci vediamo dopo a casa" le disse, poi si allontanò piano, cercando di non far notare troppo l'andatura rigida e dolorante che aveva ogni volta che muoveva le gambe.
Dopo pochi passi avvertì alle spalle dei leggeri scalpiccii seguirlo da vicino, uno sulla sinistra, l'altra sulla destra.
Non si voltò, ma sapeva di chi fossero.
Khar e Zurvas, uggiolando sommessamente, lo scortarono restandogli un po' discosti.
I due lupi erano inquieti per il terremoto, ansimavano a bocca aperta, marciavano a testa bassa annusando il terreno ad ogni passo, tuttavia non lo abbandonarono nemmeno allora.
Per la prima volta, l'uomo della Steppa provò un profondo piacere ad averli con sé.
Ripensando a come li aveva chiamati poco prima il Taiciuto, gli venne da sorridere.
Seguitando a camminare, disse loro:
"Andiamo, Quelli che Mangiano. La Nostra Signora ci aspetta".
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