29) NELL'ACCAMPAMENTO UN
Dei quattro gruppi in cui si erano venuti a trovare separati gli Un, quello più consistente era rimasto nell'accampamento assieme a Muu-Gol, il Khan, colui che deteneva il possesso del Pugnale Azzurro.
Saaràn poteva comprenderli se avevano scelto di restare nel solco tracciato della tradizione.
Gli Un non andavano tanto per il sottile quando si trattava di reagire davanti a un pericolo e quando lo facevano, spesso agivano violentemente e d'istinto.
Quando si trovavano davanti troppi avvenimenti diversi, troppi cambiamenti rapidi in poco tempo, questi li spaventavano.
In costoro era troppo radicata la convinzione che i Naaxia fossero individui spregevoli, per poter accettare di sottostare al loro comando.
Per quanto anch'essi fossero scossi dai continui tremori che da giorni agitavano la Steppa e avessero visto il nono rappresentante di quella famiglia camminare in mezzo a loro preceduto da Bortecino, quegli Un odiavano talmente i discendenti di Scengun, da non poter accettare nemmeno l'evidenza dei fatti.
Comprendere che il Gran Khan di Dai-Sescen era tornato tra gli Un, per essi era inconcepibile.
Forse per consuetudine o forse per paura, costoro preferivano voltare le spalle a Ten-gri e rimanere con Muu-Gol, il Khan che deteneva il Pugnale Azzurro anche se non piaceva a molti di essi, piuttosto che ammettere di essersi sbagliati.
Come aveva detto Frassinella a Saaràn sul Monte Khurts Khutga prima del Taniltsuulakh Yoslol, tutti gli Un avrebbero dovuto scegliere per la propria vita e ora l'avevano fatto.
Costoro scelsero di restare e così facendo, inconsapevolmente, firmarono anche la propria condanna a morte.
Per la maggior parte di coloro che fecero la scelta di restare con Muu-Gol presto sarebbe giunta la fine, ma di questo egli non poteva farsene una colpa.
Lui aveva cercato di avvisarli e non gli avevano creduto.
Gli aveva portato a vedere ciò che rimaneva dei Gin contro cui aveva combattuto e l'avevano schernito.
Gli aveva mostrato gli aculei di Gioturna e avevano riso di lui.
Avevano scelto di non seguirlo e ora avrebbero pagato le conseguenze che tale scelta comportava.
Nessuno tra quei disgraziati sapeva ancora quanto violento sarebbe stato il male che già si manifestava tra i Clan.
La febbre presto li avrebbe colti impreparati.
Subdolo come la bruma del mattino, all'inizio il morbo si muoveva piano.
Al momento si era manifestato solo in pochi, sporadici, casi.
Avanzava lento.
Scivolava silenzioso tra i carri ed essi non se ne accorgevano.
Ogni contatto, ogni sfioramento, ogni colpo di tosse, lo favoriva.
Passava da una persona all'altra e si espandeva inesorabile ad ogni cenno di saluto.
Dei vari gruppi in cui gli Un si erano venuti a trovare separati, soltanto quello rimasto con Muu-Gol era stato abbastanza a lungo a contatto con il morbo di Gioturna, da diffonderne al suo interno il contagio.
Come un'ondata micidiale, quel male oscuro che per primo si era abbattuto sui Togril devastandone l'esistenza più di un terremoto, ora, terminato lo slancio distruttivo sui Monti d'Oro, ne defluiva verso valle, portando con sé il suo carico di lutti e sofferenze su chiunque incontrasse sulla propria strada.
Portato nell'accampamento degli Un dagli aculei di Gioturna che la Lupa Azzurra aveva lasciato cadere ai piedi di Muu-Gol sul Carro Reale, il morbo si diffuse come un incendio tra i carri per colpa del Khan stesso.
Egli, colmo di rabbia nel vedere andar via molti degli Un dall'Orda e folle abbastanza da non prendere sul serio gli ammonimenti di Saaràn, con una pedata ne fece volare uno a terra.
Lo scalciò nel greto del torrente, lontano dal carro.
Il male che l'aculeo conteneva passò dapprima a un cane che ne leccò i bordi taglienti con la lingua, poi da questo a un uomo, a cui l'animale morse una mano per esserne stato scacciato via con una pedata.
Divertito Muu-Gol vide la scena e disse all'uomo di uccidere l'animale.
Il cane venne giustiziato sul posto da una freccia dell'uomo, che sorrise nel farlo.
Infine, per compiacere il nuovo Khan, l'Un raccolse l'aculeo e lo riportò a Muu-Gol sul Carro Reale.
Glielo posò proprio davanti ai piedi.
Nel farlo si graffiò la mano e nel volgere di un paio di giorni, quello stesso uomo morì a causa di una febbre sconosciuta.
Quella fu la prima vittima.
La sua fine giunse tra atroci sofferenze.
La mano morsicata dal cane si era ricoperta di orribili piaghe, nere e suppuranti.
Con la Yurta devastata dalla febbre, la famiglia dell'uomo venne distrutta quasi del tutto da un male oscuro e i carri a loro più vicini, vennero infettati irrimediabilmente.
Coloro che decisero di lasciare l'Orda per seguire Saaràn, si salvarono da tutto questo.
Tre giorni dopo la partenza dall'Urdu, all'arrivo di quella schiera all'imbocco della valle che conduceva a Togriluudyn, non vi era ancora stato nessun caso di febbre, mentre tra i carri di Muu-Gol, ormai vi erano centinaia di Un ammalati e già i morti si contavano a decine.
Gli Sciamani provarono di tutto.
Fumi, bagni, riti e scongiuri.
Nei saperi antichi che costoro tramandavano oralmente vi erano ricordi vaghi, confusi, di rimedi assurdi e inefficaci.
Ogni cura risultava vana, ogni tentativo per evitare il peggio, inutile.
Non vi era rimedio che funzionasse o modo alcuno per evitare il contagio.
Essi stessi cadevano vittime del male e non sapevano come curarsi una volta infetti.
Nel breve arco di tempo di due giorni dopo la comparsa di Bortecino e del Naaxia presso di loro, nell'accampamento dell'Orda Azzurra, regnò la paura.
All'arrivo del terzo mattino, il morbo decideva delle loro vite e dei loro animi.
Tra di essi iniziò a circolare il nome di Saaràn e di Bortecino.
Un barlume di consapevolezza si fece strada nelle loro menti.
Il Naaxia li aveva avvisati e non l'avevano ascoltato.
L'avevano deriso, ora sapevano di aver avuto torto.
Avevano avuto l'occasione di andarsene per tempo e non l'avevano fatto.
Rendendosi conto di essere perduti e senza una mano forte a condurli alla ragione, gli Un presenti nell'Urdu persero la testa.
La superstizione prese il sopravvento sulla mente, il timore del contagio imperò sulla già spietata natura di quelle persone e la situazione degenerò in fretta.
Non vi fu più pietà per nessuno.
Chi si ammalava venne abbandonato a se stesso e moriva in solitudine.
I morti aumentavano in fretta e nessuno badava a seppellirli.
I cadaveri giacevano ove cadevano, in balìa di cani, volpi e uccelli selvatici.
Quello che pochi giorni prima avvenne tra i Togril, ora accadeva agli Un, ma costoro non avevano presso di loro le Yaonai per accudirli e un Curandero come Neko, che avesse una vaga idea di cosa fare.
Essi erano indifesi contro il morbo.
Il dominio di Muu-Gol sull'Orda Azzurra era cominciato nel peggiore dei modi e questo, per ben che egli ancora non lo sapesse, non era che l'inizio della sua disfatta.
Difatti, da lì a poco, un altro fatto venne a sconvolgere la mente già folle del nuovo Khan degli Un.
All'alba del quarto giorno dopo la visita di Saaràn, mentre nell'Urdu governava il silenzio e la paura, egli si trovava nella Yurta Reale, solo, seduto sulla sedia in legno e avorio che fino a pochi giorni prima era stata di Kutula.
Ora era sua.
Giocava con il Pugnale Azzurro in mano, si puliva le unghie con esso e fissava assorto i due aculei che Bortecino e il Naaxia gli avevano portato come prova dell'esistenza dei Gin.
Li aveva fatti posare da un servo a portata di mano, appoggiati su di un tavolino davanti alla sedia su cui sedeva e li studiava attentamente.
Si domandava come potessero essere pericolosi degli oggetti del genere.
Neri, opachi, leggermente uncinati, non erano appuntiti come un pugnale e nemmeno lunghi quanto una spada.
Parevano inoffensivi.
Quando giorni prima ne aveva colpito uno con il piede e l'aveva scalciato lontano, non l'aveva sentito particolarmente pesante e massiccio.
Piuttosto, nel contatto con il piede, ne aveva avvertito una certa... flessibilità.
Pareva fatto di osso, ma poteva anche essere un'unghia, lunga, dura.
Forse poteva essere utile per grattarsi il naso e altro ancora.
Era perplesso.
Muu-Gol sapeva che nel campo aveva preso a circolare una febbre sconosciuta, contagiosa, mortale gli dicevano gli Sciamani, ma non ci badava, non dava importanza a cose del genere.
Per stare bene a lui bastava restare lontano dal contagio; solo, distante da tutti aveva cibo, latte cagliato di cavalla e Khumish a volontà, altro non gli serviva.
Donne non ne voleva più, in vita sua di quelle ne aveva già avute abbastanza.
Lui ora voleva di più, aveva il potere, era il Khan e voleva solo essere obbedito.
Aveva emanato una legge, il giorno prima.
Non aveva consentito a nessuno di morire senza il suo permesso e se lo facevano, peggio per loro, una volta guariti li avrebbe messi a morte.
Per quello, per curare gli ammalati, c'erano gli Sciamani, che ci pensassero loro, egli aveva altro a cui pensare.
Lui stava bene e questo era tutto ciò che gli importava.
C'era soltanto la gamba che gli doleva un po', dove un piccolo taglio che si era fatto giorni prima aveva fatto infezione e si era riempito di pus denso e puzzolente.
Era insignificante, era una cosa di poco conto.
L'aveva medicato, ci aveva gettato sopra un poco di Khumish, subito aveva bruciato come l'inferno, ma ora andava meglio.
Non ci badava nemmeno, sarebbe guarito in breve tempo.
Lui aveva altro a cui pensare, doveva decidere cosa fare dell'Urdu.
Ripensava a quello che Saaràn gli aveva detto prima di andarsene e sorrideva mettendo in mostra il dente d'oro.
Era rimasto sorpreso dall'ingenuità che quell'uomo aveva dimostrato.
Veramente credeva che lui, Muu-Gol, l' Hanbakai che si era fatto Khan dell'Orda Azzurra, gli avrebbe veramente portato il Pugnale Azzurro?
Mai, piuttosto la morte! Si diceva.
Girava e rigirava davanti agli occhi quel pugnale che tanto a lungo aveva desiderato stringere tra le dita e lo studiava nei minimi particolari.
Adesso era suo, soltanto suo.
Lo contemplava estasiato.
Ne osservava gli effetti di colore attraverso la pietra che ne costituiva il codolo, ne ammirava la trasparenza, la bellezza, i riflessi, la cura con cui tutto l'insieme era stato eseguito secoli prima a Dai-Sescen.
Era pesante, solido, fatto per uccidere, adatto per un Khan, adatto per lui.
Era bellissimo, scintillante di oro e pietre preziose.
Era suo, soltanto suo.
Eppure, la sua felicità aveva un tarlo.
Ora che si era lasciato sfuggire di mano Kutula, gli dava fastidio il fatto di non aver usato quel pugnale favoloso per uccidere il vecchio Khan quando ne aveva avuto la possibilità.
Voleva farlo davanti a tutti, invece era arrivato il Naaxia con quell'aria da profeta e se l'era portato via prima che potesse divertirsi ancora un poco con lui.
Ma davvero Saaràn pensava che gli avrebbe portato di sua spontanea volontà quel pugnale?
Mai, piuttosto la morte! Si ripeteva, sorridendo.
Mentre pensava a queste follie, Muu-Gol udì degli scricchiolii provenire da sotto il carro, una sorta di graffiare molesto, di scavare a forza, di svellere forzando fibra a fibra il legno.
Infastidito da quei rumori si sporse dalla sedia e vide che il tappeto steso sul pavimento della Yurta proprio davanti a lui, aveva preso a muoversi, a sollevarsi in alto come se qualcosa di appuntito lo alzasse dal basso.
Spalancò gli occhi dallo stupore e la pelle del collo gli si accapponò dalla paura.
Non ci vedeva nulla di buono in tutto questo.
Completamente folle e immobile davanti a quel prodigio sconosciuto, Muu-Gol lasciò cadere in terra il Pugnale Azzurro e a tentoni cercò la spada.
Quando la trovò, con mano tremante la puntò verso il tappeto.
Man mano che il tappeto si sollevava in aria, egli si sollevò a mezzo dalla sedia, stringendone un bracciolo con una mano e, con l'altra, stringendo l'impugnatura dell'arma.
Tremava, gli occhi gli uscivano dalle orbite e la bocca, spalancata dal terrore, non osava emettere un suono.
Quando poi il pesante tappeto di lana scivolò di lato lasciando scoperta una sorta di liana nera, scabrosa, grossa quanto un braccio e flessibile come un serpente, egli emise un gemito disperato.
Sulla punta di quella cosa orribile vi era un uncino in tutto e per tutto identico ai due che Muu-Gol aveva fatto posare davanti a sé. Riconoscendolo, comprese di essere davanti a un Gin.
Ne ebbe immediatamente terrore.
Saaràn, quindi, non aveva mentito! I Gin esistono... maledetto Naaxia, esistono!
Lasciò andare in terra la spada e cadde in ginocchio davanti a quella creatura che si fletteva in avanti, puntando l'aculeo dritto verso di lui.
Dopo averlo individuato, la liana si alzò improvvisa, pareva volerlo aggredire, si tirò indietro minacciosa per sferrare un colpo, poi si fermò nel vedere i due aculei posati sul tavolino.
Vi si avvicinò piano, riconoscendoli li osservò.
Gioturna li stava cercando e ora li aveva trovati.
Muu-Gol fu rapido nel capire che erano quelli a interessare a quella creatura orrenda, li prese in mano e glieli porse, inchinandosi davanti a lei.
"Tieni, sono tuoi. Li ho serbati per te, potente Gin. Sono ai tuoi comandi" le biascicò tremante.
Lei parve non udirlo, puntò l'aculeo verso i due aculei inerti, li sfiorò con il proprio pungiglione come se tentasse di rianimarli; non riuscendovi si rivolse all'uomo, tastò le mani di Muu-Gol, le braccia, i fianchi, le gambe.
Egli tremava, gemeva dal terrore ogni volta che ne avvertiva il tocco sul proprio corpo e temeva di essere trafitto da un momento all'altro da quella bestia orrenda di cui non sapeva nulla.
Ne avvertiva la potente presenza, il puzzo, incombere su di lui.
A un certo momento ella si scostò dall'uomo, avviluppò in una spira i due aculei posati sui suoi palmi e scomparve, attraversando a ritroso il foro nel pavimento della Yurta dal quale era emersa.
Muu-Gol ci mise un bel momento a rendersi conto che se ne era andata e che era salvo.
Tremava incontrollato, gemeva, teneva le mani tese in avanti, come fossero un'ultima difesa contro la morte che temeva inevitabile.
Alla fine osò aprire un occhio, poi l'altro: la creatura non c'era più, nella Yurta Reale, a parte lui, non vi era più nessuno.
Il grosso tappeto di lana era raccolto in un mucchio, di lato al foro da cui quella... cosa orrenda era apparsa dopo aver scavato le assi del pavimento.
Afferrando convulso il Pugnale Azzurro, egli si affacciò piano alla apertura scavata nelle assi e guardò di sotto: vedeva le pietre del torrente, un foro scuro che sprofondava in esso.
Da quel buco fuoriusciva un fumo giallognolo e puzzolente.
Si ritrasse, scalciò indietro di qualche passo, ansimante dalla paura si allontanò dal foro nelle assi, cercò di ragionare.
Non riuscendovi, in qualche modo si mise in piedi. Barcollò.
La testa gli esplodeva di pensieri incompleti.
All'esterno udì delle grida disumane provenire da più parti dell'accampamento.
L'Urdu intero pareva impazzito.
Rabbrividì, chiedendosi cosa stesse ancora succedendo.
Improvvisamente non ebbe più voglia di stare da solo.
Con il terrore dipinto sul volto si slanciò verso l'esterno.
Uscì spalancando violentemente la porta della Yurta e quando fu all'esterno, capì la ragione di quelle urla.
Ovunque guardasse, vi erano ovunque Gin che spuntavano dal terreno.
Ne vedeva a decine, a centinaia.
Tutto attorno a sé, tra i carri, tra le mandrie, tra gli Un che fuggivano terrorizzati senza sapere dove andare, vedeva soltanto Gin agitarsi in aria.
Liane nere, flessibili come fruste,
Uscivano dal sottosuolo puntando diritte verso Ten-gri e poi si abbassavano in picchiata, come falchi alla ricerca di qualcosa.
Sbucavano all'improvviso dove c'era un cadavere lasciato a terra. Svettavano alte sul corpo immobile per qualche attimo e poi con un colpo secco l'infilzavano, sollevandolo per aria prima di scomparire con esso nel foro da cui erano emerse.
Era una scena agghiacciante.
I cavalli scalciavano fuggendo impauriti, le mandrie muggivano terrorizzate, mentre i cani, pur non fuggendo davanti a quelle creature, abbaiavano molesti a quelle apparizioni orrende.
Unici tra tutti i viventi, solamente i cani avevano il coraggio di affrontarle andandogli incontro, ma i loro denti erano impotenti quanto i loro guaiti.
Gli Un non ancora contagiati scappavano sconvolti dalla paura e coloro che già portavano su di sé i primi sintomi del morbo, urlavano angosciati, vedendo cosa li avrebbe attesi da lì a poco.
Nel campo dell'Orda Azzurra, oltre al terrore, regnò la dissennatezza.
Muu-Gol vide tutto questo e nella lucida follia che improvvisamente emerse nella sua mente, capì che se non avesse agito in fretta, per tutti loro sarebbe giunta la fine.
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