28) SCONCERTO (Prima Parte)
Verso il tardo pomeriggio di quel medesimo giorno, il piccolo gruppo di cavalieri Un fece ritorno verso Chuluun Tsaiz, il Castello di Pietra.
Vi arrivarono al calar del sole, tra il disinteresse quasi totale dei Togril presenti nella piazza d'armi.
Marciavano lenti, in silenzio, seguendo i due Taiciuti in testa con lo sguardo vuoto, perso a fissare il nulla.
Stupore e sconforto li accompagnavano ad ogni passo, entrambi malamente celati dietro a una stanchezza più morale che fisica.
Quando giunsero nello spiazzo polveroso si diressero subito verso la stalla per ricoverare i Tarpan, ma per quanto tentassero di camuffarla sotto una patina d'indifferenza, sui volti inespressivi di Saaràn, Helun e Omnod, era scolpita un'amarezza difficile da dissimulare.
Quello che avevano scorto per tutta la giornata nella valle dei Togril, li aveva feriti profondamente.
Tutti quanti loro, chi per un motivo, chi per un altro, non sapeva cosa pensare.
Togriluudyn, per il loro modo di vivere, era inconcepibile, era lo scempio di quello per cui avevano vissuto la vita intera, avevano cresciuto dei figli e sperato in un futuro per se stessi e per coloro che li avrebbero seguiti.
La montagna, la valle, la terra, erano state distrutte, modificate a tal punto da faticare a riconoscerle per quelle che erano state un tempo.
Migliaia e migliaia di Togril vivevano assiepati gli uni agli altri alla base della montagna in una vicinanza e una promiscuità tali, da fare rabbrividire gli Un al solo pensiero di poter vivere un'esistenza del genere.
La diga, i campi coltivati nella valle e sul fianco della montagna, il villaggio stesso, Tosgon, con i suoi rumori assordanti e i suoi odori acri, avevano lasciato nei tre nomadi una sensazione di disagio così profonda, che difficilmente avrebbero saputo descriverla in altro modo se non definendola disgusto.
Eppure, i Togril erano felici di vivere in quel modo.
Glielo si leggeva chiaramente in volto ovunque essi li avessero incontrati, nelle risaie come nei campi in costruzione o nell'accudire i cavalli.
Il loro unico pensiero era il lavoro.
Uomini e donne faticavano dalla mattina alla sera come bestie, tuttavia erano contenti di farlo e osservavano soddisfatti i progressi ottenuti dal loro impegno.
Vivevano fianco a fianco in una promiscuità impossibile da sopportare per un abitante della Steppa, cionondimeno si sfioravano, si salutavano e se ne andavano, ognuno per la propria strada come se nulla fosse stato.
Tutto questo per i Togril era normale.
Questo lasciò perplessi gli Un, che nell'avventurarsi nella Steppa, mai considerarono possibile un altro modo di vivere se non quello che essi stessi adottarono lasciando Dai-Sescen, il paese Dove sorge il Sole, secoli prima.
I nomadi rispettavano la terra come un dono, ne coglievano i frutti senza mai fermarsi in un medesimo luogo più dello stretto necessario, poi se ne andavano, non lasciando altro segno del loro passaggio se non un poco di erba calpestata.
Come potevano degli uomini lavorare in quel modo la terra e sentirsi liberi?
Per cosa lo facevano?
Perché si sentivano così contenti di farlo?
Queste erano le domande che li tormentavano.
Nella Steppa le uniche volte che gli Un avevano incontrato cose simili, era quando erano passati accanto ai formicai, enormi costruzioni in fango alte anche varie Tese, dentro le quali un numero incalcolabile di piccoli insetti si muovevano tutti assieme, sempre, continuamente.
Milioni di esseri apparentemente indaffarati in cose a loro incomprensibili, costruivano con tenacia enormi nidi in terra in grado di resistere a qualunque intemperia.
Lavorando senza sosta, le formiche li rendevano inattaccabili al caldo e al freddo e questi immensi nidi proliferavano a lungo, sotto Ten-gri, che indifferente li lasciava fare scempio della terra che egli aveva consegnato agli uomini.
Disgustati, quando incontravano questi formicai, i soldati dell'Orda li distruggevano. Sempre, ogni volta, senza nessuna pietà.
Li abbattevano come un oltraggio a Ten-gri, calpestando poi con gli zoccoli dei Tarpan formiche e fango fino a ridurli in polvere.
Li sbriciolavano e poi se ne andavano.
Tosgon aveva fatto il medesimo effetto sui tre Un.
Esattamente quella fu la sensazione che colpì Saaràn, Helun e Omnod, dopo essere usciti dal villaggio Togril: di trovarsi all'interno di un formicaio, così esteso, di cui nemmeno credevano possibile l'esistenza.
Saaràn ed Helun rimasero in silenzio per tutto il tempo della discesa dalla diga fino alla valle, persi ognuno nelle proprie considerazioni, mentre Omnod il Konghirato osservò con sguardo inespressivo ogni cosa che incontrarono cavalcando lungo la via.
Saaràn lo vide e ne fu di nuovo preoccupato, ma questa volta non si avvicinò al soldato.
Nel farlo, temeva soltanto di peggiorare la situazione.
Erano tutti molto stanchi, inoltre non avrebbe saputo cosa dirgli, temendo di avere egli stesso i medesimi dubbi che in questo momento tormentavano l'animo del giovane.
Addirittura Khar e Zurvas, stanchi anch'essi dopo aver arrancato sui monti tutto il giorno dietro Monglik da cui non si erano staccati un solo momento, ripresero a trotterellare soddisfatti soltanto quando furono arrivati in prossimità della piazza d'armi.
Saaràn non avrebbe saputo dire cosa provavano i due lupi nelle loro menti, se avvertivano nell'aria la presenza dei loro simili o se erano soltanto affaticati dalla lunga marcia, comunque anche quelle belve parevano sollevate nell'essere tornate a casa.
Si vedeva chiaramente che anche loro erano prostrati dal sopportare la presenza di troppi essere umani in una volta sola e il passaggio attraverso Tosgon li aveva provati allo stesso modo degli Un.
In fondo erano entrambi abitanti delle Steppe, esattamente come i nomadi anch'essi erano abituati agli spazi immensi delle pianure e al silenzio del vento.
Sotto quell'aspetto, essi erano uguali.
Saaràn sorrise amaro quando se ne rese conto e in quel frangente sentì di appartenere di più al mondo di quelle belve delle praterie, che a quello dei suoi simili.
Ciononostante, per quel giorno era stanco di pensare, di cercare risposte a domande che nemmeno sapeva formulare correttamente nella sua testa e che il suo cuore non comprendeva a fondo.
Aveva soltanto voglia di scendere da cavallo e andare a vedere come stava il vecchio Monglik.
Al momento non avrebbe saputo dire se questo era un bene o un male, ma dopo la cavalcata nella valle dei Togril, quella era l'unica cosa che avesse voglia di fare.
Le uniche note positive di quella lunga giornata, furono il ritrovamento della mandria di Tarpan e le risate dei figli.
Sia lui che Helun, in tutti gli anni che avevano vissuto nella Steppa, non si ricordavano di aver visto i due bambini così euforici come in quel giorno.
Saryn e Gerel, durante quella cavalcata, parevano rinati.
Dopo tanti patimenti subiti, aver visto crudeltà inaudite, aver sopportato fughe nella prateria al limite della resistenza umana per giorni e giorni interi, sentirli finalmente felici e contenti era un balsamo per le loro orecchie.
Eppure, in quella eccitazione piacevole da ascoltare dopo tanta paura patita, sebbene entrambi facessero il possibile per non trasmettere il proprio disagio l'uno all'altro, in quella euforia dei figli sia Helun che Saaràn intravedevano un pericolo, quasi un presagio, di qualcosa che stava per accadere.
Nei due ragazzini, infatti, la visita alla valle pareva aver sortito una trasformazione.
Sia Gerel che Saryn ne parlavano entusiasti, commentando con l'anziano servo Taiciuto ora questo, ora quel particolare della giornata, con una luce negli occhi che gli adulti non riuscivano a comprendere e in fondo temevano.
Addirittura il taciturno Saryn non smetteva di raccontare a Uleg di cose viste e sentite, come se per la prima volta in vita sua avesse incontrato qualcosa che lo stimolasse a uscire dall'apparente apatia con la quale affrontava le sue giornate nella Steppa.
Vedendo tutto ciò, il Naaxia ebbe la sgradevole impressione di aver fatto il suo tempo.
Soltanto questo risveglio del figlio dal torpore di tutti i giorni avrebbe dovuto bastare per dare a Saaràn le risposte che cercava nel suo cuore, ma in realtà era tutto il giorno che vedeva segnali che gli dicevano, che gli facevano comprendere implacabilmente, di aver terminato la sua epoca.
Quando finalmente i cavalieri giunsero davanti al ricovero in fondo allo spiazzo e Saaràn smontò dal morello, la schiena gli diede una fitta tanto forte da costringerlo a stringere i denti per non urlare dal dolore.
Era dal mattino che la vecchia ferita lo tormentava, eppure aveva sempre fatto in modo di tenerlo per sé.
Anche adesso non ci badò e appena riprese fiato si diresse subito all'interno della stalla.
Voleva andare a vedere come stava il vecchio pezzato e niente e nessuno l'avrebbe fermato dal farlo.
Salutò gli stallieri che lo riconobbero e lo lasciarono passare senza fargli storie.
La stalla era quasi vuota, ciononostante l'odore della paglia pulita, dello strame, dei pochi cavalli presenti, gli sbuffi che facevano quando lo sentivano passare, i colpi di zoccoli sul pavimento, lo fecero sentire a casa.
Quando poi arrivò nello stallaggio in cui Monglik era ricoverato, lo trovò più o meno nella medesima posizione del mattino.
Steso su di un fianco, così affaticato e debole com'era, pareva più vecchio di quello che in realtà già non fosse.
Vederlo in quello stato gli diede una dolorosa sensazione alla bocca dello stomaco e avvertì le lacrime salirgli agli occhi.
Il cavallo soffriva per colpa sua e non sapeva darsene pace.
Rimase lì, fermo a guardarlo, eppure quando il Tarpan si rese conto della presenza del padrone, sollevò la testa e nitrì debolmente.
L'uomo gli si inginocchiò accanto e l'accarezzò lungo il collo.
La pelle era un poco calda, febbricitante, ma l'occhio vispo e il respiro calmo facevano ben sperare il Naaxia.
Probabilmente si sarebbe salvato, pensò.
Gli sorrise. Era vivo, grazie a Ten-gri e alla Sua Signora.
Era vivo. Ne era felice. Tanto, tanto, felice.
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