2) GLI UN
Ricche vesti riparavano gli Un-han dal freddo e dal vento.
Nella fascia arrotolata a vita portavano un pugnale dalla impugnatura cesellata e sul fianco sinistro del cavallo, attaccato a una lancia ritta, ondeggiava un drappo.
Era lo stendardo della Tribù di appartenenza di ognuno di loro che garriva al vento: un animale vi campeggiava, intessuto su stoffe preziose con fili d'oro e argento.
Tra quegli uomini superbi si celava il prossimo Khan e tutti lo sapevano.
Vegliavano fedelmente sul loro capo, che proprio su questa rivalità spietata confidava per la propria incolumità, ben sapendo che ognuno di loro avrebbe ucciso senza pietà, pur di fermare un possibile pretendente al trono.
Sprezzanti, superbi, impettiti come galli cedroni, gli Un-Han montavano piccoli cavalli vivaci dal pelo lungo e folto, i Tarpan, senza mai guardarsi attorno.
Sui preziosi vestiti di seta a colori vivaci portavano spesse bardature in cuoio simili a quelle dei loro animali, mentre con eleganti stivali in cuoio ne cingevano i fianchi arrotondati.
Fili d'oro e argento arricchivano gli indumenti e dai cappelli di pelliccia che portavano sul capo, pendevano piccoli monili in osso o legno, rappresentanti l'animale della loro Tribù.
Capelli nerissimi, forti e lisci, spesso raccolti in lunghe e sottili treccine, contornavano facce squadrate dalla pelle spessa e giallastra, bruciata dal sole e dal vento.
Mascelle forti, coperte da rade barbe e profonde scarificazioni, terminavano su colli corti e tozzi.
Occhi allungati, dalla pupilla immobile e scurissima, fissavano qualunque cosa li circondasse senza tradire emozioni.
Cavalcavano con tanta naturalezza, che parevano un tutt'uno con gli animali che li portavano in groppa.
I Tarpan, compagni fedeli degli Un dalla notte dei tempi, obbedivano a ogni loro comando senza mai ribellarsi.
Piedi e gambe strette al torace del cavallo, permettevano al cavaliere una monta tanto stabile su questi quadrupedi, da poter bere una coppa di Khumish* durante la marcia, senza versarne una sola goccia in terra.
(Khumish, bevanda leggermente alcolica, ottenuta dalla fermentazione del latte di cavalla, della quale gli Un vanno ghiotti).
I Tarpan degli Un-han saltellavano agili e leggeri, sicuri, fieri e alteri come i loro padroni, muovendo appena la testa da una parte all'altra, quasi fossero consci dell'importanza degli uomini che trasportavano.
Dopo ai nobili Un-han venivano gli Altai, guerrieri scelti, volontari ambiziosi, crudeli, mille cavalieri per ognuna delle Sette Tribù che componevano l'Orda, armati di arco, frecce e lance.
Erano gli ufficiali dell'esercito del Khan.
Vestivano elaborati abiti di spesso cotone rosso bordati di seta colorata, con pesanti corazze di cuoio cotto a proteggerne corpo e gambe.
Marciavano su cinquanta colonne di centoquaranta cavalieri l'una, perfettamente allineati gli uni agli altri.
Un solo stendardo li precedeva, uguale per tutti.
Per gli Altai non esisteva Tribù, Clan, Famiglia, al di fuori dello Stendardo dei Settemila, non vi era nulla.
I Settemila erano la famiglia e la forza di quegli uomini.
Le regole per farne parte erano poche, precise e indiscutibili.
Un Altai non poteva sposarsi fino alla fine del servizio.
Quando entravano a far parte di questo corpo, giuravano di donare la vita per il Khan e all'Orda.
Il loro servizio, della durata di trent'anni, dai quindici ai quarantacinque, terminava soltanto con la vittoria o con la morte.
Il loro numero non cresceva o diminuiva mai.
I pochi che sopravvivevano al servizio trentennale, alla fine diventavano Un-han.
Quelli che morivano durante il servizio, venivano immediatamente sostituiti dai migliori Baltai.
Silenziosi e solenni, gli Altai erano orgogliosi di proteggere il Khan e lo dimostravano negli sguardi alteri e superbi.
Cavalcavano ritti sui loro Tarpan, portando un robusto scudo tondo in cuoio sulla schiena.
L'arco composito e le frecce muovevano avanti e indietro nella faretra fissata sul fianco sinistro del cavallo e la lancia pendeva mollemente sul fianco destro.
Attaccato alla parte posteriore della sella, un rotolo di seta fine e lucente era accuratamente fissato con robusti lacci di cuoio, pronto per essere sbrogliato in battaglia.
Gonfiandosi come una vela durante la cavalcata, avvolgendo e bloccando al volo le frecce nemiche come una ragnatela, avrebbe protetto la schiena dell'uomo meglio di una corazza in metallo.
Dietro agli Altai venivano i soldati semplici, i Baltai, giovani ambiziosi che avrebbero venduto un fratello o ucciso la madre pur di diventare uno dei Settemila.
Portavano semplici vestiti di spesso cotone rosso e pesanti corazze di cuoio a proteggergli corpo e gambe.
Erano armati come gli Altai, fatta eccezione per lo scudo sulla schiena di cui erano sprovvisti.
Il loro numero era variabile e ogni Tribù doveva fornirne almeno duemila per il servizio del Khan.
In tutto, l'esercito del Khan non contava meno di ventunmila cavalieri armati di tutto punto.
Più indietro, dopo l'esercito, in groppa a bassi animali mansueti, c'erano i servi del Khan, i Nonun, perlopiù abitanti della Steppa sopravvissuti alle razzie dell'Orda e resi schiavi per servire i loro nuovi padroni.
Poi venivano i mandriani che spingevano senza sosta le innumerevoli mandrie di cavalli e bovini del loro padrone.
Migliaia e migliaia di capi che nessuno avrebbe potuto toccare senza rischiare la vita.
Infine giungevano i carri dell'Orda, suddivisi per Tribù e disposti a ventaglio nella Steppa.
L'Orda del Khan era composta da sette Tribù, marcianti in un'unica interminabile linea: quella a cui apparteneva l'attuale Khan, i Kaidu, al centro, le altre posizionate da una parte e dall'altra in ordine di nobiltà e ricchezza.
La gerarchia era determinante per gli Un, governava ogni azione nell'Urdu e ne manteneva forte e saldo il legame.
Ogni posizione sociale era il gradino di una scala che arrivava fino al Khan e ogni gradino di questa scala costava fatica e lotte spietate per chi volesse scalarla.
Ogni famiglia all'interno del Clan, ogni Clan all'interno della Tribù, ogni Tribù all'interno dell'Orda, mirava a sovrastarne le altre.
Ogni lotta contava morti e feriti, ma la posizione sociale era tutto per gli Un: cavalli, guerrieri, buoi, servi, schiavi, donne, ogni cosa aveva un valore e serviva per determinare la ricchezza e il valore di un uomo.
Più un Capo Famiglia ne possedeva, più era tenuto in considerazione all'interno del Clan ed era vicino al Khan.
Più era vicino al Khan, più facilmente trovava alleati.
Più alleati fedeli aveva un Capo famiglia, più ancora si avvicinava al Khan, ma se perdeva alleati, mandrie e ricchezze, ne veniva allontanato.
Ogni famiglia, Clan e Tribù veniva censita accuratamente a ogni luna nuova e i controlli erano spietati.
La conta del bestiame era fondamentale e minuziosa, scrupolosa fino all'ultimo capo. Quella degli alleati, anche.
Pochi capi di bestiame di differenza, potevano portare alla perdita di influenza, alleati e posizione che altri avrebbero immediatamente occupato.
Non c'era pietà tra gli Un e queste regole valevano per tutti, Khan compreso.
Anche lui doveva rispettarle, se voleva continuare a restare al centro dell'Orda.
Una volta divenuto Khan, se voleva restarlo doveva essere il più ricco in cavalli, guerrieri, servi e donne.
Doveva saper essere il più munifico e giusto tra i Signori in tempo di pace, quanto doveva saper essere spietato e feroce in guerra.
Doveva essere generoso con chi era fedele e crudele con chi tradiva e non poteva permettersi di fallire.
Se avesse saputo difendere l'Orda, ne avrebbe avuta la fedeltà, se avesse sbagliato, il suo destino sarebbe stato segnato.
La pena era una sola, la morte.
A ogni luna nuova, la posizione delle Tribù nello schieramento dell'Orda veniva rivista, così quella dei Clan all'interno della Tribù e delle Famiglie all'interno del Clan.
Alla fine di ogni conta, più le Tribù, Clan e Famiglie avevano i carri lontani da quello del Khan, meno le Famiglie, Clan e Tribù erano nobili e ricche.
Sopra a ogni carro svettava un palo con le insegne della Tribù, del Clan e della Famiglia di appartenenza; di fianco a esso vi era la Yurta e dentro a questa, le donne e i bambini della Famiglia.
Dietro al carro, seguivano a cavallo gli uomini e dietro agli uomini seguivano i Nonun, i mandriani e le mandrie.
Dietro a tutti, dopo al Khan, agli Un-han, agli Altai, ai Baltai, alle Tribù e ai Nonun, c'erano i Raccoglitori di Sterco, i Fugai, che provenivano dalle famiglie più povere dell'intera Orda. In genere non avevano che un servo solo e raccoglievano l'unico combustibile che nella prateria, una volta seccato, potesse bruciare e avrebbe riscaldato le Yurte d'inverno e cucinato il cibo.
Per i Fugai essere poveri era una tradizione, quasi quanto raccogliere sterco per una vita intera fosse il loro lavoro.
Erano talmente lontani nella gerarchia dell'Orda che mai avrebbero osato pensare di divenire qualcosa di più che un servo di un Baltai.
Eppure, per quanto fossero di umili origini, anche loro avevano uno stendardo, perché, per quanto modesto, il loro lavoro era utile all'Orda e al Khan.
Anche la Yurta Regale si scaldava grazie allo sterco raccolto dal loro lavoro e questo li rendeva orgogliosi di quello che erano.
Al loro interno vi erano Famiglie, alleanze, gerarchie ben precise e organizzate, che confluivano tutte nel Ata Fugai, Capo indiscusso dei Raccoglitori di Sterco.
L'ordine di marcia nell'Orda era questo e non poteva variare se non in periodo di guerra.
Il carro del Khan era il primo a muoversi all'alba e poi via via tutti gli altri. Quando l'Ata Fugai comandava ai suoi di mettersi in movimento, il carro del Khan marciava già almeno da un paio di ore.
Ma ultimo degli ultimi, disprezzato, odiato e tenuto a distanza persino dai Fugai, c'era il Naaxia, il Cercatore di Strade, colui che apparteneva alla famiglia dagli Occhi Limpidi.
Egli infatti li aveva grigi, come la cenere dello sterco bruciato.
Non vi era Tribù o stendardo per lui.
Nessun alleato, nessun amico, nessuno che volesse prendergli il posto.
La sua era la famiglia più povera tra tutte quelle che viaggiavano nell'Orda.
Naaxia era stato il padre e Naaxia sarebbe diventato il figlio primogenito dopo di lui.
Tutti i maschi primogeniti di quella famiglia avevano gli occhi di quel colore.
Era così diverso da quello degli occhi Un, neri e cupi, da renderli immediatamente riconoscibili da chiunque.
Era sempre stato così, fin da Sangun, il traditore.
Per colpa sua gli Un lasciarono Dai-Sescen fuggendo davanti ai Gin, esseri diabolici che avevano determinato la fine del loro potere su quelle terre.
Il Naaxia non possedeva che il carro, la Yurta malconcia che vi era sopra, una moglie e i figli che costei gli avrebbe dato.
Una donna Un mai avrebbe accettato di unirsi al Naaxia, a meno di essere essa stessa bandita dalla Famiglia, dal Clan e dalla Tribù.
E per molte di queste donne reiette, la morte era preferibile all'unire il proprio destino all'ultimo degli ultimi, perché sapevano che la loro vita e quella dei loro figli, sarebbe stata costellata soltanto di miseria e fatica.
Solo il primogenito maschio del Naaxia sarebbe diventato Naaxia come il padre, gli altri avrebbero dovuto arrangiarsi.
Maschi o femmine che fossero, poco importava, i più fortunati tra di essi sarebbero andati a servizio dei Fugai conducendo una vita di stenti, mentre gli altri si sarebbero persi nella Steppa.
Pochi cavalli macilenti e qualche capo di bestiame per trainare il carro completavano la sua ricchezza.
La sua vettura non trovava posto nemmeno nell'Orda: la precedeva sempre, di un giorno almeno, se non di più.
Aveva contatti soltanto con il Khan e da lontano.
Nessuno all'interno dell'Orda voleva avere a che fare con il Naaxia. Nessuno gli parlava se non era strettamente necessario.
Il suo era il più infame dei lavori: trovare la strada che ogni giorno l'Orda avrebbe dovuto seguire nel dirigersi a Ovest, quando anche i cani sapevano che i carri venivano da dove il Sole sorge e andavano verso il Sole che tramonta.
I carri Un non avevano assali mobili, non potevano sterzare, svoltare o girare in tondo.
La stanga e le ruote anteriori erano fisse. Nemmeno volendo avrebbero potuto tornare indietro o sbagliare direzione, dovevano soltanto andare avanti.
I Gin erano dietro di loro, li inseguivano e sbarravano la strada del ritorno ed era così da generazioni: gli Un potevano soltanto andare avanti.
Otto ne erano già passate, da quando gli Un fuggirono da Dai-Sescen.
Duecento cinquanta anni di peregrinazioni nella Steppa, li dividevano ormai dal loro paese d'origine.
Quello che rimaneva di un popolo intero, un tempo potente padrone di terre e di genti, entrò nella prateria sconfitto, distrutto e scacciato dalle proprie case da Nemici più potenti di lui.
Spinti lontani dalle proprie terre, gli Un si diressero nell'unica direzione di cui non sapevano nulla: la Steppa, verso il vuoto, il nulla, l'ignoto, andarono a Ovest, seguendo il consiglio di Sangun, confidando in Ten-gri e nel Lupo Azzurro.
Se fossero rimasti nella terra dei padri sarebbero stati sterminati.
Quindi fuggirono per colpa di Sangun, che per primo divenne il Naaxia dagli Occhi Grigi.
L'onta della sconfitta e la vergogna della fuga scese sul loro popolo per colpa sua e dei suoi discendenti.
Tutti nell'Orda sapevano della storia di Sangun e a ogni nuovo Naaxia riservavano quello che avrebbero voluto fare a lui.
Ogni bambino Un avrebbe riso di Sangun nel vederlo; ogni vedova Un gli avrebbe tirato sterco secco e sputi, perché se erano nella prateria era per colpa sua. Solo per colpa sua.
Questa era l' unica vita che Saaràn il Naaxia avesse mai conosciuto.
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