19) UNA LUNGA GIORNATA (seconda parte)
Approfittando della sua assenza, un drappello di cavalieri Un aveva incontrate sole e indifese Helun e Gerel, aveva portato via il figlio maschio e non le aveva molestate: per quanto fossero la moglie e la figlia del Naaxia, Saaràn non poteva che ringraziare il Ten-gri per la grazia ottenuta.
Tuttavia, con lo spirito pratico di chi aveva sempre dovuto contare soltanto sulle proprie forze, sapeva molto bene che era meglio non chiedere troppo a Ten-gri se non si voleva restare delusi, così preferì non fidarsi troppo dell'aiuto divino e allontanarsi ancora di più dall'Urdu.
Per l'esperienza che aveva accumulato in decenni di scorribande, con i cavalieri Un, ogni distanza non era mai abbastanza.
Fatti i debiti conti, gli uomini inviati da Kutula per recuperare i pezzi d'albero adatti per ricavare le ruote per il Carro Reale, non sarebbero partiti dall'accampamento prima di un giorno e mezzo e avrebbero impiegato forse dieci giorni a raggiungere le montagne.
I loro carri si muovevano lenti, rispetto al suo e inoltre non avevano lui a segnargli la strada. Avrebbero dovuto trovarla da soli e nessuno era bravo quanto il Naaxia a farlo.
Dieci giorni, non di più.
Quello era il tempo che aveva per allontanare la sua famiglia dall'Urdu e non voleva perderne inutilmente nemmeno un minuto.
Per tutto il giorno restò sempre a non meno di cinquecento Tese davanti alla piccola carovana.
Avanzò lento, per non distanziarla eccessivamente e non affaticarsi troppo, ma, per quanto avesse fatto attenzione a muoversi con cura, la ferita alla schiena riprese a dolergli già ben prima di raggiungere il fiume.
Violente fitte al dorso lo obbligarono a marciare troppo ritto sulla sella per attutirne gli effetti, con l'unico risultato di sforzare maggiormente le anche e le cosce sul dorso di Monglik, anch'esse già doloranti dalle percosse ricevute il giorno prima.
Ora gli bruciavano come se fossero in fiamme.
Nel primo pomeriggio faticava a muoversi sulla sella e le spalle erano talmente rigide e fredde, da essere diventate quasi insensibili.
Tuttavia mancavano ancora troppe ore prima che giungesse l'imbrunire e non voleva nemmeno pensare alla possibilità di fermarsi.
Doveva mettere più strada possibile tra la sua gente e Kutula e nonostante il dolore, l'avrebbe fatto.
Ringraziò Ten-gri di non avere almeno la strada da cercare.
Sulla sua destra scorreva l'alveo del torrente quasi in secca ed era facile da seguire.
Anche uno stupido avrebbe potuto riuscirci, bastava risalirlo.
Avendo tempo per osservarlo attentamente, constatò che era forse il letto più ampio che avesse mai visto in vita sua ed era impressionante immaginare la quantità d'acqua che vi potesse scorrere in primavera, durante la stagione del disgelo.
Più a valle diventava talmente ampio che la maggior parte dei carri dell'Urdu vi si era fermato dentro, rispettando la classica formazione Un, con il Carro Reale al centro e tutti gli altri attorno, disposti in cerchi sempre più ampi.
Saaràn era pressoché certo che in quella stagione le piene improvvise erano quasi impossibili.
Malgrado ciò, in altri frangenti avrebbe definito rischioso fermarsi nel greto di un torrente di quelle dimensioni per una sosta che si sarebbe potuta prolungare troppo a lungo, tuttavia, sapeva perfettamente che spostare sui sassi il Carro del Khan a forza di braccia senza le due ruote anteriori su cui farlo avanzare, sarebbe stata una follia ancora più grande.
Scrollò le spalle, tentando di farle riprendere un minimo d sensibilità.
In fondo non era affar suo, non era stato lui ad aver deciso il momento in cui le due ruote dovessero rompersi e tanto meno il luogo dove questo dovesse avvenire.
Inoltre, aveva ben altro di cui preoccuparsi: l'occhio destro ancora gonfio dalle percosse del giorno prima gli doleva, faticava a deglutire e la gola riarsa non gli dava tregua fin dal mattino.
Il Syedan che Ukhsen gli aveva fatto mettere dai suoi uomini, era stato assicurato per bene al collo e sulle spalle.
Era stato messo abbastanza stretto da lasciare per giorni interi il ricordo di esso, nei punti in cui le ruvide corde che gli Hanbakai avevano utilizzato, erano venute in contatto con la pelle.
I polsi e il collo erano in fiamme, circondati da un alone rossastro piagato e sanguinolento.
Saaràn avrebbe voluto scendere da cavallo, fermarsi e stendersi sull'erba per non muoversi più fino a sera, invece si obbligò ad andare avanti.
Non aveva mangiato nulla per tutto il giorno e anche bere era una pena. Appena provava a inghiottire qualcosa, per il bruciore il boccone gli si bloccava all'altezza della gola e non c'era più verso di far scendere il cibo verso lo stomaco.
Provò a succhiare un po' di carne secca e sorseggiò il latte cagliato di cavalla che aveva con sé.
Quel nutrimento lo sorresse un minimo, però non era sufficiente a dargli la forza di cui necessitava per stare tutto il giorno a cavallo.
Quando ancora mancavano un paio di ore all'imbrunire, la schiena era diventata un forno di lame arroventate e le gambe ormai livide, quasi non le sentiva più.
Le ombre si facevano via via sempre più lunghe.
Avevano già fatto moltissima strada per quel giorno e continuare nella medesima direzione, sarebbe stato difficile.
Fece fermare il pezzato e si concesse qualche minuto di riposo, per studiare il da farsi.
Il fondo su cui procedevano lui e Monglik si era fatto via via così accidentato e difficile, tanto che il carro tardava ad arrivare.
Erano arrivati in vista di una serie di poggi, sulla sinistra.
Li studiò con calma e vide che formavano un basso crinale ondulato che, percorrendolo da dietro, li avrebbe forse allontanati un poco dal greto pietroso, però, viaggiando ugualmente verso i Monti, li avrebbe portati nella giusta direzione per un percorso di certo più agevole di quello che seguivano ora.
Valutò cosa fosse meglio fare.
Volendo avrebbero potuto fermarsi in quel luogo per la notte, c'erano erba, acqua, riparo per gli animali, erano tutti stanchi e provati dalla lunga giornata di marcia, invece, quando Helun e gli altri apparvero alla sua vista, decise di avanzare ancora.
Era da qualche tempo che scorgeva che il carro sobbalzava troppo rumorosamente sui sassi che si erano fatti più grossi e irregolari e non voleva correre il rischio di spezzare una ruota proprio ora e doverla sostituire al buio.
Deviò e si allontanò nella Steppa, inoltrandosi dietro a quei bassi poggi che correvano paralleli a meno di uno Zai dal greto del torrente.
Avrebbero allungato di parecchio, però la sua esperienza da Cercatore di Strade gli diceva che passando di là si sarebbero trovati in una zona più sicura e tranquilla, al riparo da occhi indiscreti e meno accidentata di quella che stavano percorrendo da ore.
Difatti, appena svoltarono dalla rotta seguita fino ad allora, arrivati dietro i poggi il terreno divenne liscio, morbido e compatto al tempo stesso.
Il carro avanzò lento, ma senza fare rumore.
L'erba folta attutiva il rotolare delle ruote e gli animali erano talmente stanchi, da non emettere che sommessi respiri affannosi a ogni passo che facevano.
Li sentiva arrancare sfiniti dietro di lui.
Di quando in quando si voltava a guardarli, però, per quanto sia uomini che bestie fossero tutti allo stremo delle forze, voleva andare avanti affinché ci fosse stata ancora abbastanza luce per poterlo fare.
Poi a un certo punto, troppo stanco anche solo per voltarsi, si accasciò in avanti.
La vista gli si annebbiò per la fatica e per il dolore alla schiena, eppure passo dopo passo avanzò ancora, affidandosi in silenzio a Monglik.
Si fermò solo quando anche il fedele Tarpan decise che era troppo scuro e pericoloso per avanzare ancora.
Le tenebre ormai rendevano quasi indistinguibile il carro alle sue spalle.
Un piccolo rio gorgogliava nei pressi di dove l'aveva condotto il cavallo, l'erba era rigogliosa e il terreno piatto e riparato dal vento dietro i poggi, avrebbe offerto una sistemazione adeguata per la notte.
Pianse dal dolore nel momento in cui sollevò la gamba al di sopra del dorso di Monglik e quando scivolò lentamente lungo il fianco peloso dell'animale, ringraziò che fosse notte e nessuno lo vedesse.
Si sarebbe vergognato come un ladro a mostrare la sua debolezza davanti a Helun e Gerel.
Nel momento in cui i piedi toccarono il terreno morbido, le gambe intorpidite gli parvero colme di pugnali affilati e gli fecero comprendere quanto avesse richiesto troppo dal suo fisico già duramente provato dalle percosse del giorno prima.
Gli ci vollero alcuni minuti per riprendere un minimo di mobilità, mentre il fido Tarpan, nonostante fosse riarso dalla sete e affaticato al pari suo, rimase immobile a sostenerlo per tutto il tempo, fino a quando non lo sentì scostarsi dalle sue redini.
Eppure neanche allora fu abbastanza, perché Saaràn all'ultimo lo trattenne e si attaccò al pomolo della sella per non scivolare in terra.
Quando provò a sostenersi con le proprie forze, la vecchia ferita alla schiena gli diede una fitta così lancinante, che per poco non lo fece urlare per il dolore che gli inflisse.
Si trattenne solamente perché non voleva che dal carro lo udissero e lo vedessero distrutto.
Il cavallo attese, paziente.
Per quanto fosse anche lui stanco, affamato e tormentato dalla sete, il pezzato attese docile accanto al suo cavaliere fino a quando il rumore ritmico e cigolante delle ruote del carro non divenne facilmente distinguibile nella notte.
Anche Saaràn li udì arrivare.
Si avvicinavano lentamente, ma a breve l'avrebbero raggiunto, avrebbero visto in quale stato si trovava e non avrebbe più potuto nascondersi.
Era disperato.
Poi successe qualcosa di incredibile.
Il cavaliere ancora appoggiava la testa alla sella del fido compagno tentando di riprendere un poco le forze, quando uno scossone improvviso del cavallo l'obbligò ad alzare il volto.
Distrutto dalla fatica, Saaràn si guardò attorno.
Il carro era ancora a una cinquantina di passi, a malapena se ne indovinava la sagoma dondolante e si avvicinava lento.
In breve lo avrebbero raggiunto e non avrebbe più potuto nascondersi alla loro vista.
Allora Saaràn, sul punto di crollare in terra dalla fatica e dal dolore, con un ultimo sforzo rizzò la schiena e oltre alla sella vide un alone opalino stagliarsi nel buio, a pochi passi dal cavallo.
Schiarendosi la vista temette di essere sul punto di svenire per la fatica, quando, nel chiarore indistinto dell'alone, la vide apparire: Lei! La Signora dei Monti d'Oro gli faceva un cenno con la mano, un po' saluto e un po' incitamento.
Gli sorrideva come solo lei sapeva fare.
Era bellissima, con gli occhi e la veste color Ten-gri e i lunghi capelli biondi, luminosi come la Steppa d'estate sotto la luna.
Lui la fissò trasognato, incredulo, estasiato per quello che stava succedendo.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta che l'aveva vista, adesso era ancora più bella di come se la ricordasse.
"Mia Signora" mormorò a fil di labbra dall'emozione.
Poi si riscosse, udì una voce chiamarlo nel buio quando il carro fu abbastanza vicino da essere a portata di voce.
Helun, lo cercava nella notte.
L'alone di luce scomparve e attorno a lui, rimase soltanto il buio della sera e il vento.
Era di nuovo solo con Monglik, eppure quella breve apparizione della Sua Signora bastò a ridargli un poco di forza.
Sorrise al pensiero di averla accanto a sé e si toccò la fronte per ringraziare Ten-gri per la sua benevolenza.
Si sentì meglio, con più forza e fiducia nel futuro: la Signora era con lui, al suo fianco e lo sosteneva, lo incoraggiava a continuare.
Quando poi la voce preoccupata di Helun lo cercò ancora nel buio, la stanchezza e il dolore gli concessero una tregua sufficiente per staccarsi dal cavallo e fare qualche passo verso il carro.
Dondolava forse più del dovuto, la schiena era rigida e il volto sfatto, ma nel buio della sera nessuno ci avrebbe fatto caso.
Tutti erano stanchi morti dopo una giornata come quella.
Anche Omnod e Uleg scesero rigidi e indolenziti dai loro Tarpan e non badarono altro che a fare i preparativi necessari per la notte.
Quando Saaràn raggiunse il carro si sostenne al ruvido legno, appoggiando la mano proprio accanto alla giovane moglie.
Nell'oscurità la guardò, indovinandone appena la sagoma nell'indistinta luminosità della luna che poco alla volta spuntava all'orizzonte.
"Helun, dobbiamo parlare!" le disse serio, ma si rese conto che il suo, più che un ordine, gli apparve come una sommessa preghiera.
La donna, nel pudore complice della notte, appoggiò la sua mano su quella del marito e con un sussurro, gli disse:
"Sì, Tunsh*, marito mio, dobbiamo parlare".
(Tunsh*, nomignolo famigliare per consorte, marito, compagno).
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