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17) VERSO I MONTI D'ORO

Da prima ancora che l'alba sorgesse, l'accampamento del Naaxia si preparò a essere abbandonato.

Benché quella giornata promettesse di mantenersi fresca e asciutta a lungo, nella notte una fine pioggia primaverile aveva inzuppato la Steppa e un vento teso da Nord aveva soffiato per tutto il tempo, fischiando e infilandosi ovunque, rendendo difficile il riposo.

Tuttavia, non fu quella l'unica ragione a impedire il sonno ai tre uomini e alle due donne, riuniti dentro e attorno alla sgangherata vettura di Saaràn.

Tanto nella Yurta come sotto al carro, quella notte si vegliò a lungo.

Vi era ben altro che animava i pensieri di tutti quanti loro, ognuno a modo proprio, da far sì che nessuno di essi avesse potuto dormire bene in quelle ore notturne.

In primo luogo, i quattro Un erano preoccupati perché dovevano andare a Nord e non a Ovest, come facevano sempre.

Ogni cambiamento di rotta che non portasse a Ovest, spaventava gli Un.

"A Nord il freddo minaccioso, a Sud il deserto tempestoso.

A Est il Gin sotterra, solo all'Ovest l'Un il nemico atterra".

Questo cantavano i Clan in marcia, da quando, secoli prima, fuggirono da Dai-Sescen.

Quando, ancora avvolti dal buio, i cinque si levarono dai loro giacigli e presero ad arrotolarli, fin da subito l'atmosfera attorno il carro fu cupa e mesta e, a eccezione di Uleg che fischiettò un motivetto allegro, nessuno ebbe voglia di parlare.

Saaràn, Helun, Gerel, Omnod, tutti lavoravano in silenzio, pensando ognuno a modo suo a quello che li avrebbe attesi nei giorni seguenti.

Marciare verso i Monti d'Oro era come scambiare il giorno per la notte e per Omnod figlio di Noogon, cresciuto nel solco della tradizione e nel rispetto della gerarchia, questo era troppo.

Troppe erano le cose che gli erano successe in poco tempo.

Troppe, tutte assieme e tutte difficili da comprendere, per un ragazzo inesperto come lui.

Oltre a questo, nella notte passata quasi tutta insonne a sopportare il sordo russare del Nonun, si era reso conto che qualcosa non tornava nella missione che gli aveva affidato il Khan.

Inquieto e incapace di chiudere occhio per le incognite che il viaggio verso le montagne poteva comportare, aveva passato buona parte del tempo a rimuginare sulle cose successe il giorno prima.

Più lo faceva e meno il sonno tardava ad arrivare.

In quelle ore tetre, poco alla volta l'orgoglio provato subito dopo la partenza dall'Urdu, si infranse miseramente contro una verità che, per quanto gli facesse male ammetterlo, sospettava essere ben diversa da quella che si era immaginato allora.

Poco alla volta il velo d'illusione sotto il quale ingenuamente aveva nascosto la verità si frantumò andando in tanti pezzi e alla fine il giovane Un, sebbene con rammarico, giunse all'unica conclusione plausibile di tutta quella faccenda: il Khan gli aveva affidato quella missione non perché si fidava di lui, ma perché aveva bisogno della sua inesperienza.

Kutula aveva bisogno di qualcuno abbastanza ingenuo che accettasse di andare fino a dove nessun altro sarebbe andato, in silenzio e senza fare troppe domande.

Ukhsen Aris stesso glielo disse, ma lui era pieno di rancore verso il suo superiore, per accorgersene subito.

Era giovane e inesperto quanto bastava per non comprendere appieno le malizie dei commilitoni più anziani e i loro velati sorrisi.

Omnod apparteneva alla Tribù dei Konghirati, da sempre fedele al Khan.

Volenteroso ed entusiasta, fin da bambino aveva creduto nei valori del Pentolone*, della Tribù, del Clan e della famiglia.

(Pentolone*: marmitta di metallo in cui viene cotto il rancio delle truppe del Khan e in cui si identifica lo spirito di indomita forza che anima l'esercito. Rappresenta l'unione, la fratellanza, l'appartenenza a qualcosa di superiore, offerto dall'individuo per il bene di tutti. Compare spesso nei vessilli dei vari Reparti di Baltai).

Ukhsen Aris rise di lui quando si arruolò e glielo disse, anzi lo derise.

"Povero sciocco valoroso!" gli urlò davanti a tutti facendolo arrossire dalla vergogna "Piuttosto di covare nobili sentimenti, cerca almeno di non perderti nella Steppa!".

Arrivando nel corpo dei Baltai, Omnod credette di aver trovato dei fratelli, dei fedeli compagni di lotta, un corpo unito, pronto a battersi l'uno a difesa dell'altro, invece scoprì di essere caduto in un covo di serpenti.

Quando lo Scengun disse che gli serviva un volontario per andare a cercare il Naaxia, nessuno volle accettare un compito così infamante per un Un. Tutti i veterani rifiutarono.

A disposizione di Ukhsen rimasero soltanto i componenti del manipolo sotto al suo comando.

Ukhsen li convocò tutti assieme.

Erano cinque, tutti giovani, Omnod e quattro Hanbakai suoi coetanei, arruolatisi con lui appena una settimana prima.

Le loro teste adesso si trovavano appese a delle lance davanti al Carro Reale per insubordinazione, assieme a quella dello Scengun.

Omnod conosceva poco quei quattro anche se avevano lottato qualche volta a Boke durante il Az jargaltai khűűkhed nas.

Non era mai corso buon sangue tra le loro due Tribù.

Quelli erano Hanbakai, lui un Konghirato.

Benché la sua Tribù fosse partita direttamente da Dai-Sescen assieme a quella Kaidu.

Un tempo era potente, rispettata, però con il trascorrere degli anni e l'arrivo delle altre Tribù, perse prestigio e potere, ebbe sempre meno cavalli, buoi e alleati e venne messa da parte.

Adesso era la più povera e lontana dal Khanato, mentre quella degli Hanbakai, giunti per ultimi a unirsi nell'Urdu, come ricchezza e potere era seconda soltanto a quella Kaidu, a cui apparteneva Kutula.

Muu-Gol in persona ne era la prova.

Nobile Un-han e potente Capo della Tribù Hanbakai, dopo che Kutula divenne Khan, assunse il compito di Coppiere*.

(Coppiere*: uomo di assoluta fiducia del Khan. Era addetto ad assaggiare cibi e bevande destinate al sovrano dell'Orda, prima che costui se ne servisse. Era colui che più facilmente lo avvicinava).

Fieri delle proprie origini e altezzosi nei suoi confronti, i suoi quattro commilitoni Hanbakai lo guardavano sprezzanti dall'alto in basso e quando Ukhsen chiese chi volesse offrirsi volontario, essi si voltarono dall'altra parte, lasciandolo solo.

Si consideravano troppo importanti per una missione del genere.

Erano figli di nobili famiglie, aspiravano ad alte cariche nell'esercito e compiti ben più importanti di quello.

Nessuno dei quattro volle andare a cercare il Naaxia e lo Scengun li tenne con sé.

Rimase quindi solo Omnod a poter accettare quella missione; lo sciocco, ingenuo Omnod, che acconsentì ad andare solo per dimostrare a Ukhsen Aris e a Targin che ne sarebbe stato capace.

Inoltre, egli temeva Ukhsen, lo detestava e non voleva dargli un pretesto per fargli rapporto.

Si era appena arruolato e sapeva quello che avrebbe potuto fare alla sua famiglia, e a Targin, se avesse osato ribellarsi, perché Ukhsen Aris, Konghirato anch'egli, al contrario suo era conosciuto, famoso e temuto nella propria Tribù.

Egli era uno dei pochi Konghirati che Muu-Gol volesse sempre con sé quando vi erano da fare dei lavori sporchi.

Era pericoloso Ukhsen, da sempre fedele come un cane al Khan e al Coppiere, eppure questa volta Kutula lo aveva fatto giustiziare come un vile perché gli aveva disubbidito.

Ma disubbidito a cosa, e a chi?

Ukhsen Aris era un soldato fino al midollo e, Omnod ne era certo, aveva fatto soltanto quello che gli era stato ordinato di fare.

Allora perché tagliare la testa a lui e ai quattro giovani nobili Hanbakai del suo manipolo?

Qualcosa non tornava in tutto questo.

Perché il Khan aveva promosso lui al posto di Ukhsen e non un altro con maggiore esperienza?

Solo perché l'aveva avvisato che il Naaxia era in pericolo di vita se non interveniva immediatamente?

Molti Baltai con vecchie scarificazioni in viso avrebbero preso volentieri il posto dello Scengun degradato, invece Kutula aveva scelto lui che non ne aveva nemmeno una.

Si portò la mano alla guancia, dove la scarificazione di cui tanto andava fiero il giorno prima, ora gli bruciava di un sentimento nuovo e che aveva il sapore della vergogna.

In cambio della promozione, il Khan gli aveva ordinato di badare alla sicurezza di Saaràn e della sua famiglia, spiarlo, riferirne le mosse e impedirgli di fuggire.

Allora che bisogno c'era di portare via il figlio del Naaxia, se vi era già lui sul posto per controllare le sue mosse?

Benché nessuno glielo avesse detto espressamente, Omnod aveva compreso che cosa era successo al ragazzo.

Da indizi, mezze frasi e parole lasciate in sospeso tra Saaràn e la moglie, aveva capito che le cose non stavano come apparivano.

Inoltre, dalla sera prima il cavallo del ragazzo era al campo, lui no.

Il Naaxia avrebbe lasciato il figlio di quell'età a vagare per tutta la notte da solo nella Steppa, forse sperso e magari in pericolo? No, credeva di no.

Questo allora voleva dire una cosa sola: rapimento.

Ma in questo caso, come avevano fatto gli uomini del Khan ad arrivare così presto, se lui stesso aveva vagato per ore prima di avvistare il Naaxia e riportarlo all'Urdu?

Non c'era che una risposta plausibile: l'avevano seguito, in attesa del momento giusto per intervenire.

L'avevano usato come esca, insomma.

Quale altro scopo poteva avere la sua presenza nel campo di un uomo abituato a fare tutto da solo, se non per farlo allontanare dalla sua tana?

Ma sopratutto, quello che più gli bruciava, era un'altra cosa.

Perché nessuno lo aveva avvisato di portarsi un cavallo di ricambio?

Se lo domandò e ridomandò più volte, fino alla nausea si ripeté la medesima domanda: perché, perché!

Poi, alla fine, verso l'alba, scartando una alla volta tutte le altre possibili risposte, dovette arrendersi all'evidenza di quella che gli rimase come l'unica plausibile.

Per quanto gli facesse male ammetterlo, essa poteva essere solamente una: nessuno credeva che sarebbe tornato indietro.

La sua era una missione senza ritorno.

Ecco perché nessuno voleva sprecare inutilmente un buon Tarpan per lui.

Omnod, figlio di Noogon, non doveva fare ritorno all'Urdu.

Se non l'avesse ucciso il Naaxia, ci avrebbe pensato qualcun altro a farlo, ma chi?

Ukhsen Aris? Forse uno dei suoi stessi commilitoni?

E se questo era vero, perché era ancora vivo?

Qualcosa doveva essere andato storto e anche se non sapeva cosa, capiva che per lui ora era più sicuro stare nella Steppa che nell'Urdu.

Era giovane, credulone forse, ma non stupido fino a quel punto e sapere, capire, di essere stato usato in quel modo dai suoi stessi compagni d'armi, lo amareggiava tanto quanto lo deludeva il comportamento del suo superiore.

Era entrato nell'esercito del Khan per cercare riscatto per sé e per la sua famiglia; aveva speranze di gloria, illusioni di fama e onori, ma la realtà lo aveva raggiunto rapida e crudele prima di quanto non si aspettasse e gli aveva fatto un male tremendo.

Altro che Pentolone!

Si sentiva uno straccio quella mattina, buono soltanto per lavori umili ed essere beffato da chi invece doveva dargli fiducia e protezione.

Tuttavia per quanto si sentisse amareggiato e deluso, avrebbe ugualmente ubbidito agli ordini del suo Khan come meglio avrebbe saputo fare.

L'avrebbe fatto per se stesso, per la sua famiglia e per Targin.

Non aveva altra scelta se non seguire quella strada e lavorare accanto a Uleg, anche se restare accanto al Nonun, quel mattino, gli dava fastidio più del solito.

"Ma perché non la pianta di fischiare?" pensò infastidito all'incessante zufolare del Taiciuto.

Omnod e Uleg avevano dormito insieme sotto al carro del Naaxia.

Oltre ad aver russato per buona parte della notte, il motivetto che da quando si erano alzati l'anziano servo cantava, gli dava sui nervi e faticava a sopportarlo ancora.

Tra tutti quanto loro, quel vecchio pareva essere l'unico contento di andare verso i Monti d'Oro e Omnod non ne capiva il motivo.

Scrollò le spalle e non avendo voglia di discutere con lui, si allontanò.

Si trovò a passare vicino alla famiglia del Naaxia.

Anche Saaràn e la moglie erano taciturni, quella mattina.

A malapena al risveglio l'avevano salutato e poi si erano subito dati da fare nei preparativi per la partenza.

Avevano fretta di andarsene e di lasciarsi alle spalle quei luoghi.

Persino la piccola Gerel era triste, aveva gli occhi gonfi e quando scendeva dal carro, restava accanto alla madre senza allontanarsi di un passo da lei.

A malapena l'aveva salutato.

Quasi nemmeno lo guardò, quando uscì dalla Yurta.

La bimba prese poche cose da terra e vi risalì veloce, andandosi a piazzare al posto di guida, sul davanti del carro, con le gambe a penzoloni.

"Meglio così" si disse lui guardandola sottecchi, passargli accanto con le gote rigate e gonfie di pianto e i capelli color del sole a coprirle il volto.

Quando tutto fu pronto per muoversi, il primo a farlo fu il Naaxia.

Anche Saaràn non aveva chiuso occhio ed era di cattivo umore.

Le prime luci dell'alba avevano appena tinto di rosa il Ten-gri, che prese Monglik, si allontanò dal campo senza dire una parola a nessuno e andò a cercare la strada migliore per tutti, come sempre.

Nonostante i pensieri amari e l'angoscia che provava per la sorte di suo figlio Saryn, un po' di riposo aveva fatto bene alle percosse ricevute il giorno prima e gli aveva ridato un poco di forze.

Aveva fretta di partire, perché era preoccupato per Helun, Gerel, quello che rimaneva della sua famiglia e ora era in pericolo.

Voleva portarle lontane dal Khan il prima possibile, ma la pioggia della notte aveva inzuppato la Steppa e muoversi sarebbe stato più difficoltoso.

Il terreno era molle e poteva diventare insidioso per le ruote del carro.

Era meglio non rischiare, per cui doveva cercare un percorso facile e sicuro per arrivare lontano, presto, in sicurezza e il più velocemente possibile.

Non potevano permettersi di impantanarsi e perdere ore preziose tentando di uscirne.

Doveva fare quello che sapeva fare meglio e questa volta lo doveva fare per quello che aveva di più prezioso al mondo, per sé e per la sua famiglia.

Inoltre aveva bisogno di andarsene per un poco dal campo, andarsene da tutti, respirare l'aria libera della Steppa e assaporare il sibilo del vento in silenzio.

Sapeva di non essere responsabile per quello che era successo a Saryn, eppure non poteva più sopportare il silenzio della moglie.

Nella Yurta, nel suo giaciglio Gerel aveva pianto tutta la notte.

Anche lui e Helun non avevano chiuso occhio per tutto il tempo, ma la donna si era voltata e gli aveva dato le spalle.

Tentò più volte di parlarle, volle dire, spiegare, giustificarsi, ma lei non volle udire nulla di quello che gli era successo il giorno prima.

Non diede al marito la possibilità di spiegarsi.

Helun sapeva soltanto che lui era stato picchiato, Saryn era stato portato via dagli uomini del Khan e questo, per il momento, le bastava.

Saaràn, che invece avrebbe voluto parlare, spiegare ed esserne da lei compreso, ne rimase amareggiato e frustrato.

Sentiva di averla delusa e questo per lui era imperdonabile.

Stanco di cercare un inutile riposo, appena avvertì le marmotte fischiare nella Steppa, si levò che non era ancora chiaro.

Andò a chiamare il vecchio pezzato, che appena udì il suo richiamo accorse verso il carro come sempre faceva, sbuffando e scalciando in aria.

Mentre lo sellava la schiena gli doleva e rimpianse le comode staffe del cavallo del Taiciuto del giorno prima, tuttavia si obbligò a non pensarci.

Nonostante il collo e le spalle ancora scricchiolassero ad ogni movimento, non volle tradire almeno il suo Tarpan, tuttavia, già ben prima di saltare in groppa a Monglik, sapeva che prima di sera avrebbe rimpianto la scelta che aveva fatto.

Quando fu pronto per partire si diede lo slanciò e spiccò il salto per montarlo, ma le gambe risposero male, erano lente, dure per le botte e doloranti per gli ematomi.

Dovette tirarsi su a forza reggendosi al pomolo e quando finalmente si adagiò sulla groppa del suo fedele amico, trattenne a fatica un gemito di dolore.

In quel momento pensò nuovamente alla confortevole sella del servitore.

Con un sussulto di dignità si riscosse e si vergognò della sua debolezza. Era soltanto più un vecchio, stanco, inutile per sé e per la sua famiglia.

Un peso, incapace di garantire a chi amava l'agio e la sicurezza che si meritavano.

Quando partì per trovare la strada per il carro, lo fece con rabbia.

Per quanto fosse animoso d'incontrare la Sua Signora, temeva il prezzo che avrebbe potuto pagare per questo privilegio e bestemmiò.

Un peso gli comprimeva il petto e al solo pensare dove potesse essere suo figlio in quel momento, provava un dolore sordo che gli comprimeva il petto e gli toglieva il fiato.

Kutula lo aveva preceduto, era stato più veloce di lui e lo aveva messo in trappola.

Era il Khan ed era potente, dietro di sé aveva tutta l'Orda ai suoi ordini.

Lui invece era il Naaxia, solo e isolato come un cane nella prateria.

Sorrise, amaro.

Una facile preda per un branco di lupi, nella Steppa.

Aveva tentato di spiegarlo a Helun, ma la donna si era chiusa in un riluttante silenzio e non aveva voluto parlargli, nemmeno quando il carro fu pronto per partire.

Invece di guardarlo in volto come sempre faceva quando alla mattina spostavano il campo, la donna salì sul pianale e si sedette accanto a Gerel, come la bimba con le gambe a penzoloni.

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