11) L'ESECUZIONE
Se il soldato non avesse sollevato il volto, Saaràn non avrebbe notato l'abbondante pelle che gli cadeva a balze sul collo e non avrebbe compreso che egli era lo Scengun che lo aveva fatto pestare dal suo manipolo fuori dell'accampamento.
Ukhsen Aris era stato degradato davanti a tutta la sua tribù nel peggiore dei modi, con infamia, per aver disobbedito agli ordini del Khan: si vedeva la giubba fatta a brandelli dove gli avevano strappato i gradi, sul davanti, in modo che tutti potessero saperlo.
Omnod, che comandava l'esecuzione dei cinque soldati, vedendo la sfrontatezza del condannato e suo rivale in amore, si fece avanti e gli diede un violento ceffone in volto perché abbassasse lo sguardo.
Lo fece con ferocia e soddisfazione, con il chiaro intento di vendicarsi per il raggiro che il suo vecchio superiore gli aveva tirato mandandolo nella Steppa da solo.
Strappò con rabbia la spada di mano al carnefice del suo rivale e lo allontanò dalla sua vittima. Osservò Kutula e attese, tenendo una mano sulla spalla di Ukhsen.
La sua era una richiesta formale, fatta davanti a tutti.
Voleva essere lui a compiere l'esecuzione e se il Khan era d'accordo, era un suo diritto ottenere quel prezzo come risarcimento per il torto subito.
Con un lieve cenno del capo Kutula approvò e Saaràn riconobbe nel giovane Un la rude soddisfazione nel poter appagare in quel modo il proprio desiderio.
A un cenno del Khan, i quattro Baltai vennero sollevati a forza dai carnefici e ognuno di essi venne trascinato davanti a una della quattro parti delle due ruote spezzate.
Spinti nuovamente a terra davanti a esse, inginocchiati e bloccati nei movimenti dalle catene, costoro rimasero rigidi e tremanti al loro posto in attesa della propria fine.
Il Khan grugnì soddisfatto.
Gli piaceva avere il potere assoluto sulla vita di chiunque vivesse nell'Orda.
Poi, con una spinta decisa del piede, Kutula fece cadere dal carro i pezzi del Syedan usato su Saaràn, mandandoli a finire proprio davanti allo Scengun caduto in disgrazia.
Omnod venne avanti e sistemò i legni davanti al condannato, sovrapponendoli fino a formare una croce.
Quando tutto fu pronto, con un filo di voce Kutula sentenziò:
"Procedete".
I cinque carnefici tolsero i cappelli di pelliccia alle vittime e fecero chinare in avanti le teste, in modo che il collo di ognuno appoggiasse su di una superficie dura: i quattro soldati addossati sopra i monconi rotti delle ruote e lo Scengun degradato sull'incrocio dei legni del Syedan.
Portatosi alle spalle di Ukhsen, Omnod sollevò la spada ricurva e diede un segnale: gli altri quattro carnefici fecero lo stesso, sollevando all'unisono anche le loro.
Quando la lama che Omnod stringeva in mano sibilò nell'aria, anche le altre quattro si mossero all'unisono verso il basso.
La testa di Ukhsen Aris ancora non aveva toccato terra, che già quelle dei quattro giovani Baltai si staccavano dai corpi e cadevano nella ghiaia.
Rotolarono a lungo prima di fermarsi sulle pietre. Spruzzi di sangue insudiciarono il carro, i monconi rotti delle ruote, del Syedan e le pietre accanto il rigagnolo.
Colando sui ciottoli, i rivoli insanguinati raggiunsero l'acqua gorgogliante del torrente e la segnarono di un color vermiglio che si diluì allontanandosi lentamente lungo la corrente.
Un cane spelacchiato e rognoso venne avanti per leccarne qualche goccia da una roccia, ma venne allontanato con una pedata.
Una freccia sibilò nell'aria e gli attraversò il cuore, inchiodandolo in terra: Il sangue di un Un poteva essere versato soltanto da un altro Un.
Nessun altro essere, animale o uomo, poteva profanarlo senza pagare con la vita un tale affronto.
Omnod e i quattro carnefici andarono a raccogliere le teste delle rispettive vittime, le sciacquarono nell'acqua, le infilarono sulla punta di una lancia e poi conficcarono le aste, sistemate vicine le une alle altre, ritte con i loro macabri trofei, davanti al Khan.
I cinque volti deformati dalla morte gli si presentarono come vennero colti nell'istante del decesso, alcuni con i lineamenti inorriditi, altri dispiaciuti.
Kutula sporse in avanti le labbra e annuì soddisfatto.
Li mostrò a Saaràn, in modo che tutti vedessero che li aveva puniti per aver osato disobbedire a un suo ordine, colpendo il Naaxia e mettendolo alla gogna.
"Fateli sparire" disse ai carnefici e quelli presero i corpi decapitati, li spogliarono, li trascinarono accanto a grossi calderoni pieni di acqua bollente, li eviscerarono, li fecero a pezzi e infine li misero a cuocere nella brodaglia, mischiando assieme i pezzi dei corpi.
Le viscere vennero gettate tutte assieme a bruciare sul fuoco e in pochi minuti dei cinque uomini non rimasero che fumo e acqua ribollente.
In distanza si udì un urlo disperato: forse una madre o una moglie, ma nessuno ci fece caso.
Il vento ebbe uno sbuffo improvviso e la pioggia si fece più intensa, lavando via il sangue dei cinque giustiziati lasciato a macchiare le pietre.
Il Khan fece un cenno alla folla e quella fu libera di andarsene.
Prima di ritirarsi a sua volta nella casa, Kutula attese ancora qualche attimo fermo al suo posto, poi fece cenno a Saaràn di seguirlo all'interno della Yurta.
Appena furono dentro, gli sussurrò: "Chiudi".
Il Khan parlò appena con un filo di voce.
Era affaticato, il sorriso soddisfatto di poco prima, improvvisamente gli si spense sulle labbra.
Si diresse verso la sua sedia, ma fatti pochi passi si accasciò a terra esanime, cadendo pesantemente sui tappeti. Era svenuto.
Saaràn si precipitò verso di lui e lo soccorse.
Lo rigirò, gli mise un cuscino sotto la testa e lo osservò: un filo di saliva insanguinata gli colava dalla bocca e gli macchiava il mento.
La pelle del volto aveva perso colorito ed era umida, per la pioggia e il sudore.
Non era ferito, doveva essere qualcosa d'altro ad avergli provocato quello svenimento.
Per un istante il Naaxia provò un brivido, un'eccitazione improvvisa che gli comparve davanti agli occhi come un segno del destino che gli presentava un'occasione che difficilmente si sarebbe ripetuta una seconda volta.
Il Pugnale Azzurro era lì, a portata di mano.
Kutula era inerme, il potente Khan dell'Orda Azzurra era indifeso nelle sue mani.
Il Pugnale con la pietra azzurra sul pomolo avrebbe potuto essere suo, se avesse osato allungare la mano.
Erano soli, avrebbe potuto prenderlo senza problemi.
Se l'avesse strappato dalla cintola e usato su Kutula, secondo la legge Un sarebbe diventato immediatamente Khan, avrebbe innalzato la sua famiglia sopra a tutte le altre e avrebbe avuto il potere, tutto il potere del mondo, nelle sue mani.
Se avesse avuto anche soltanto un briciolo di ambizione verso il comando, ora avrebbe potuto approfittare di questa occasione unica.
Nessuno avrebbe potuto impedirglielo; nessuno, secondo la legge Un, avrebbe potuto negargli quel diritto, perché sebbene fosse il Naaxia, era pur sempre un Un come tutti gli altri.
Il destino gli presentava la possibilità di scegliere se cambiare la sua esistenza di reietto, oppure restare quello che era.
Bastava prendere il pugnale e conficcarlo nel petto inerme di Kutula.
Con un solo gesto avrebbe potuto diventare l'uomo più potente dell'Urdu, invece, scuotendo la testa, si alzò, andò a prendere la brocca del Khumish e ne versò una coppa.
Sollevandogli delicatamente la testa, la diede da bere a Kutula.
Il latte di cavalla tiepido e fermentato, alcolico e inebriante, lo fece riprendere poco alla volta. Le guance ricuperarono un poco di colorito.
Kutula riaprì gli occhi, lo vide chino su di sé, gli sorrise, poi ricordandosi di essere il Khan e del pericolo che correva in quel momento, si rimise a sedere con un ruggito disperato: aveva gli occhi spalancati, sospettosi, terrorizzati, una pupilla completamente dilatata, l'altra stretta come una punta di spillo.
Respirava a fatica, affannosamente tentava di dilatare i polmoni che faticavano a riempirsi.
Strinse una mano sull'impugnatura del Pugnale e si guardò attorno alla ricerca di un nemico.
Quando vide che oltre a loro due nella Yurta non c'era nessuno, si rilassò.
A fatica si rimise in piedi rifiutando l'aiuto di Saaràn e si portò fino alla sedia reale, dove si lasciò accasciare di peso.
Gli mancava il fiato.
Il volto era livido, con una mano si pulì la saliva che gli colava sul volto e vedendolo sporca di sangue, la pulì sui calzoni.
Indicò la brocca del Khumish e il bicchiere che Saaràn stringeva in mano: ne voleva ancora.
Quando ebbe in mano il bicchiere colmo, lo bevve tremando e ne versò un poco sulla sedia e sui vestiti.
Ne volle un altro e parve stare meglio: il tremore poco alla volta passò; il volto, prima livido, riprese un colorito normale.
Il petto si riempì e si svuotò regolarmente, a lungo e ripetutamente.
La fame d'ossigeno l'obbligava a respirare a bocca aperta e a boccheggiare come un pesce gettato fuori dell'acqua.
In silenzio il Khan assaporò a lungo l'aria che gli scorreva nei polmoni, prima di rivolgersi a Saaràn.
Con un gesto della mano, indicò l'esterno:
"Sei vendicato. Quegli uomini non ti toccheranno più, adesso" gli disse con voce arrochita. La fatica era evidente.
Ebbe un colpo di tosse violento e improvviso: uno schizzo di saliva insanguinata gli insozzò la mano.
Saaràn lo fissò, sconvolto. Sapeva cosa significava.
Suo padre Ebuken era uno Sciamano e gli aveva insegnato tutto quello che sapeva sulla natura umana.
Altre volte in passato aveva visto uomini con quei sintomi e nessuno aveva vissuto abbastanza a lungo da raccontarlo ai nipoti.
Anche Kutula lo doveva sapere, perché prese un pezzo della coperta di lana sulla sedia e si pulì freneticamente la mano.
Aveva paura di quello che sapeva e tentò di nasconderlo dietro un sorriso cinico e tirato.
"Sei stato uno sciocco! Avresti dovuto approfittare del momento opportuno e saresti diventato Khan al posto mio!" disse all'amico sorridendo amaro, conscio del destino che lo attendeva "Invece sarà un altro a farlo, prima o poi".
Saaràn scosse il capo, profondamente rattristato per quello che aveva scoperto del lontano amico d'infanzia. Egli era gravemente ammalato.
Se aveva visto giusto, in genere le persone affette dal quel morbo non raggiungevano i cinquant'anni di età e Kutula li aveva già compiuti.
Forse le visioni notturne, i sogni che turbavano il suo sonno, erano soltanto delle premonizioni del futuro che vedeva prossimo.
Non glielo disse, ma preferì rispondere diversamente:
"Ho il sonno troppo pesante per desiderare di essere il Khan, mio Signore".
Kutula si schernì e sorrise più rilassato.
"Sei un uomo saggio e inoltre ti sono nuovamente debitore, Saaràn! È la seconda volta che mi salvi la vita e prima che sia troppo tardi, vedrò di sdebitarmi. Ma ora ho bisogno di te e della tua onestà. C'è una cosa che devi fare per me".
"Il Khan ordini, Saaràn obbedirà" fu la risposta del Naaxia.
Il potente Khan si sporse in avanti e quasi sussurrò all'orecchio di Saaràn.
Il suo alito sapeva di marcio e sangue:
"Voglio che tu vada sui Monti d' Oro a cercare la Signora per me. Solo lei può curare il morbo che mi corrode i polmoni!".
Kutula era spaventato. Sputava sangue e saliva sull'orecchio di Saaràn mentre bisbigliava.
Il Naaxia deglutì e rimase inespressivo.
Kutula in questo momento era terrorizzato e poteva essere tremendamente pericoloso per chiunque deluderlo. Occorreva cautela.
"Mio Khan farò come chiedi, ma alcune cose mi potrebbero impedire di esserti fedele".
"Sarebbero?" fece il Khan un poco contrariato.
"La Signora è imprevedibile, lo sai, inoltre sono il Naaxia: mi è vietato allontanarmi dal mio compito di Cercatore di Strade. In ultimo, non conosco i Monti verso cui mi mandi".
Il Khan fece un gesto infastidito, come per allontanare una mosca molesta dalla fronte.
"L'Orda è ferma" disse "Fino a quando il mio carro sarà bloccato, ti sollevo dal tuo compito e ti ordino di andare a cercare l'albero adatto per le ruote del Khan. Avrai due giorni di vantaggio a partire da oggi, poi partiranno da qui un carro e gli uomini necessari per trasportarle all'Urdu. Lascerai dei segnali lungo la strada, in modo che ti seguano facilmente. Non avrai mai contatti con loro, a sapere dove sei ci penserò io. Invece che a me, indicherai la strada ai miei uomini" rispose senza incertezze Kutula.
Saaràn grugnì.
Doveva essere da tempo che Kutula meditava sulla cosa, per avere già la soluzione pronta per ogni problema.
"La stagione è giusta per seminare il miglio" proseguì il Khan "Inoltre si inizierà con qualche settimana d'anticipo il Kavryn-an, la Grande Caccia di Primavera. Lo sai, durerà non meno di un mese e tu avrai tutto il tempo per andare e tornare".
Alla fine, si fermò ansimante.
Lo sforzo che aveva fatto era stato eccessivo, boccheggiava alla ricerca di ossigeno che faticava ad arrivare ai polmoni saturi di sangue.
Saaràn lo fissò in volto, rantolante a lottare per ogni sorsata di ossigeno. La crisi sarebbe passata, ma Kutula ora combatteva per non soffocare. Non poteva fare nulla per aiutarlo e l'impotenza lo lasciò ad attendere con una domanda che non avrebbe osato fare.
Eppure Kutula l'afferrò al volo e gli rispose ugualmente, come se l'avesse udita:
"Non temere, al tuo ritorno sarò qui ad attenderti".
"Farò come desideri, allora. Ma ricorda: non è in mio potere comandare sulla Signora. Se non vorrà farsi vedere, non ti potrò essere di nessun aiuto".
"Correrò il rischio, allora. Al contrario di te, non ho scelta".
"Mio Khan?" fece incerto Saaràn, non comprendendo cosa volesse dire Kutula.
"Ora potresti sedere al mio posto. Se sei ancora al tuo è perché così hai scelto. Sei leale, Saaràn. E saggio più di quanto tu possa credere, visto che hai scelto di restare libero".
Saaràn sorrise, ma preferì tacere.
"Per ripagarti della tua lealtà" disse ancora Kutula "voglio sdebitarmi dicendoti questo: quando partirai per i Monti d'Oro, porta con te la tua famiglia, allontanala il più possibile dall'Urdu" aggiunse facendosi serio.
Il sorriso si spense dalle labbra di Saaràn. Si fece sospettoso e attento.
Il Khan se ne accorse e annuì.
"Fai bene a essere attento" gli disse "Hai una figlia che alcuni nobili dell'Urdu vedrebbero bene nella loro Yurta. Se fino a ora è salva, lo deve soltanto al fatto che nelle sue vene scorre sangue Naaxia".
Saaràn rabbrividì. Per quanto tentasse di mantenersi saldo e controllato, serrò i denti e i pugni fino a farsi male.
"Avevo pensato di farla portare nella mia" aggiunse Kutula "ma nelle mie condizioni, se mi succedesse qualcosa, rischierei di metterla ancora più in pericolo che non nella tua casa. Prendi il carro e vattene, amico mio. Vai verso i Monti d'Oro seguendo il corso di questo torrente e cerca la nostra Signora. Forse potrà aiutare anche te, se la troverai".
Furente e angosciato da quello che aveva udito, Saaràn accennò un inchino.
"Come desideri, mio Khan. Con il tuo permesso, allora partirò immediatamente" disse deciso.
Ora più che mai desiderava tornare al suo carro.
"Bene" proseguì Kutula "Come lasciapassare per le nostre pattuglie avrai una scorta. Un mio uomo fidato resterà con te fino al tuo ritorno e terrà i contatti con me".
<il mio assassino, casomai volessi fuggire> pensò Saaràn tra sé e sé, ma invece di rispondere si trattenne e imperturbabile ringraziò.
"Sarà un aiuto prezioso per la nostra sicurezza, però desidero che anche un'altra persona venga via dall'Urdu con me e resti affidato alla mia famiglia. Quel servo di poco fa, quello con il cappello floscio, dammelo, aiuterà mia moglie e lavorerà per me".
Kutula strinse gli occhi.
Per un attimo ridivenne lo spietato Khan dell'Urdu degli Un, poi li distese in un sorriso divertito.
"Perché vuoi quell'uomo con te?" gli domandò incuriosito "Lo conosci, forse?".
Saaràn scosse la testa.
"Non desidero avere anche la sua testa sulla coscienza" replicò sincero. Kutula restò pensieroso per un istante, poi, schernendosi, acconsentì.
"Tu parli ancora di coscienza?" gli disse con una punta d'invidia.
Come Khan nemmeno sapeva più cosa fosse una coscienza. Non poteva permetterselo se voleva vivere fino all'indomani, però il Naaxia aveva visto giusto e a lui piacevano le persone accorte: in effetti aveva deciso di punire quel servo per essersi fatto sorprendere sul carro.
Appena il Naaxia si fosse allontanato dall'accampamento il suo corpo sarebbe finito a bollire insieme a quello dei soldati, invece... pazienza.
Scrollò le spalle. Con calma, Kutula annuì.
"E sia. Da questo momento la sua vita ti appartiene".
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro