1) SI PARTE
L'Orda procedeva lenta, aprendosi nella Steppa come un enorme ventaglio che ricopriva l'orizzonte intero, estendendosi da Nord fino a Sud.
Arrivava da Est e si dirigeva a Ovest.
Alle sue spalle, sorto da un paio di ore appena, il sole era ancora basso, sospeso tra cielo e terra.
Per tutta la prateria non si vedevano che carri. Centinaia di carri. Carri ovunque. L'Urdu del Khan si era messa in marcia.
Fin dove poteva giungere l'occhio, le Yurte in movimento degli Un coprivano tutta la pianura.
Oltre l'orizzonte, a Nord, a più di due Tarpan* di distanza, stendendosi come una sottile linea scura i Monti d'Oro sigillavano il confine estremo del mondo, mentre a Sud, alla medesima distanza, vi era il deserto, sassi e ciocche, "Il Mare disseccato", dove ai primordi dei tempi il Lupo Azzurro non volle portare la vita.
(Tarpan*, distanza coperta in un giorno di marcia veloce da un buon cavallino Tarpan. Questi animali potevano coprire fino a cento km al giorno)
La catena montuosa e il deserto procedevano paralleli l'una all'altro per decine di migliaia di Zai*, cingendo la pianura da una parte e dall'altra in un corridoio ininterrotto, ampio e piano.
(Zai*, distanza coperta in un'ora al trotto da un Tarpan)
Partendo dalle pendici dei monti un buon cavallo avrebbe impiegato cinque Tarpan (giorni di marcia) per raggiungere le sabbie del deserto e altrettanti sarebbero stati necessari per tornare indietro.
In mezzo a questo corridoio apparentemente senza limiti, verdeggiante e ventosa, si trovava la Steppa.
Pianori sconfinati, poggi arrotondati che ondulano appena l'orizzonte. Un'unica fascia indivisa, dove l'inizio e la fine si confondono con l'infinito.
In estate un unico tappeto erboso appena increspato da radi rialzi collinosi, in inverno una landa congelata senza fine.
Qualche boschetto raro, rarissimo, offriva di quando in quando l'unico appiglio a uno sguardo altrimenti destinato a naufragare.
E sopra a tutto, oltre i monti, al deserto e alla Steppa, disteso come una coperta sopra mondo, il Ten-gri, territorio infinito, immenso orizzonte sigillato da un cielo che sembra solido blu.
Un grande cielo a cui gli Un si rivolgono nelle loro preghiere, l'Eterno Cielo Azzurro delle Steppe, da cui tutto giunge e a cui tutto torna.
Era primavera e l'Orda aveva abbandonato l'accampamento invernale da poco, una settimana appena.
Il tempo si manteneva buono, il disgelo era terminato e defluendo dai Monti d'Oro verso la piana, le acque si erano perse andando a Sud, assorbite nelle sabbie del deserto e lasciando dietro di sé una moltitudine di piccoli rigagnoli facili da guadare.
Il vento, compagno inestinguibile di quelle lande, sferzava costantemente gli stendardi colorati delle Tribù e le guance dalle rade barbe degli uomini, mentre il terreno, già abbastanza asciutto per non far sprofondare le ruote dei carri, era ricoperto dall'erba nuova che svettava brillante sopra a quella più scura dell'anno precedente.
Dieci giorni prima il Naaxia aveva avvisato il Khan che la strada era libera e Kutula, l'attuale Khan, aveva parlato all'Orda perché tutti facessero i preparativi per la partenza.
C'erano voluti tre giorni per smantellare il campo invernale, poi, all'alba del quarto, il Grande Carro Reale si era messo in marcia per primo, davanti a tutti.
Per le sette Tribù era giunto il tempo di andare.
Le pesanti vetture in legno, ciascuna trainata da sei giganteschi buoi bianchi, avanzavano tenendosi a quattro Tese* l'una dall'altra.
(Tesa*, lunghezza pari a due Braccia Un, circa cento centimetri)
Seguivano il carro al centro dell'Urdu, il più grande e imponente di tutti, quello del Khan, il Carro Reale.
Le dimensioni del Gran Carro Reale erano tre volte quelle degli altri carri. Era largo dodici Tese e lungo ventuno.
Aggiogate a un'enorme stanga estesa per quaranta Tese davanti al carro, dieci coppie di buoi lo trainavano lentamente e con i loro enormi zoccoli impastavano fango ed erba, lasciando profonde orme nel terreno che calpestavano.
Le otto larghe ruote di legno su cui esso poggiava, piene e cerchiate di cuoio, erano alte tre Tese e larghe sei Spanne* l'una.
(Spanna*, larghezza di una mano aperta, circa venti centimetri).
Scale a pioli in legno poste su ogni lato, sospese a poco più di una Tesa da terra, permettevano a un cavaliere di salirvi sopra senza smontare da cavallo.
Tutto attorno al pianale, spessi anelli di metallo grandi quanto una mano tintinnavano a ogni sobbalzo.
Una Yurta saldamente fissata al suo centro ondeggiava seguendo le asperità del terreno e al suo interno le donne del Khan compivano gesti lenti, conosciuti e ripetuti sempre uguali da generazioni di Un.
La Yurta era larga dieci Tese, circolare, con pareti erette con solidi tralicci in legno, sormontati da un tetto spiovente, conico, costruito in legno e pelli sovrapposte.
Sulla sommità centrale del tetto, un foro circolare permetteva alla luce di entrare e al fumo di uscire.
Al bisogno una pelle sollevata da un lungo palo avrebbe impedito al vento di spingerlo all'interno e alla pioggia di entrare.
Tutt'attorno, alle pareti spessi strati di feltro impermeabile ne isolavano l'interno dal caldo soffocante dell'estate e dal freddo pungente dell'inverno.
Sul davanti, rivolto a Ovest, l'unico ingresso sigillato accuratamente da una porta leggera, lasciava entrare una lama di luce a ogni scossa della struttura che tremolava elasticamente avanti e indietro, senza mai rompersi.
All'esterno, infisso saldamente nello spesso assito del pianale del carro, a fianco della porta d'ingresso, un palo di quattro Tese di altezza reggeva le insegne del Khan: in alto, perché si vedesse da distante, il Tug, lo Stendardo Reale costruito in corna di Yak, sorreggeva le cinque code di cavallo.
Sotto a questo torreggiava lo Sherdan, lo stendardo del Khan, uno scudo tondo con dipinto sopra un Lupo Azzurro su fondo giallo: dove vi era lo Sherdan, lì si trovava il Khan.
E più sotto ancora l'Aul, lo stendardo con un Orso Nero Rampante su fondo viola, stendardo della Tribù dei Kaidu, a cui apparteneva Kutula, l'attuale Khan.
Dal foro centrale della Yurta Reale usciva un filo di fumo denso e bianco.
Dietro al carro del Khan, a poca distanza vi era il suo seguito personale, i suoi guerrieri più fidati, gli Un-han, i nobili.
Non erano molti, al più una decina per Tribù, ma tutti, indistintamente forti e fieri, fidati compagni e leali alleati di Kutula, lo seguivano ciecamente.
Finché il Khan fosse stato abbastanza forte e saggio da saperli dominare con mano ferma, essi avrebbero ubbidito senza fiatare a qualunque suo ordine.
Avrebbero dato la vita per il Khan, avrebbero badato alla solidità dell'Orda e avrebbero vegliato sulla sicurezza di tutti.
Ma altrettanto prontamente avrebbero provveduto a tagliargli la gola non appena fosse diventato troppo vecchio per guidarli ancora e nessuno tra loro avrebbe esitato un solo momento a farlo, per il bene proprio e dell'Orda.
Sarebbe stata una lotta rapida, feroce e definitiva.
Il primo Un che fosse entrato in possesso del Pugnale Azzurro, il pugnale del Khan, avrebbe prevalso sopra gli altri, chiunque egli fosse stato.
Uomo, donna o ragazzo, non avrebbe fatto differenza.
Tutti lo sapevano, il Khan tanto quanto tutti gli Un dell'Orda, ma da tempo gli Un-han si ritenevano gli unici che ne avessero il diritto e poco alla volta riservarono quel diritto a essi soltanto, quasi fosse un ordine divino disceso da Ten-gri, sancito, invero, soltanto dalla forza delle armi.
Un vecchio detto Un, diceva :
"Il pugnale del Khan può essere toccato soltanto dal suo assassino".
Per questo motivo il Khan aveva scelto i nobili delle Tribù come sua guardia personale, per sapere in ogni momento dove si trovassero i suoi pericolosi rivali e averli sempre sotto controllo.
Gli Un-han erano tutti eguali davanti alle Tribù, ma quando uno di essi riusciva a strappare il Pugnale Azzurro al Khan in carica, lo uccideva e ne prendeva il posto sulla Yurta Reale.
Dopodiché ci sarebbe stato qualche disordine.
Nuove alleanze si sarebbero formate, qualche vecchio regolamento di conti sarebbe stato pagato, alcune esecuzioni sommarie li avrebbe placati, in seguito tutto sarebbe tornato come prima e ognuno avrebbe ripreso il proprio posto come sempre: il nuovo Khan avrebbe comandato sull'Orda e gli Un-Han, suoi sottoposti, l'avrebbero servito finché fosse stato in grado di farlo con mano ferma e decisa.
Così fu fin da quando gli Un fuggirono da Dai-Sescen, il paese Dove sorge il Sole.
Così era successo quando Kutula divenne Khan dell'Orda e così sarebbe stato ancora, quando anche lui fosse diventato troppo debole per governarla.
Questa era la legge della Prateria, l'unica che gli Un conoscessero e che tutti all'interno dell'Urdu rispettassero ciecamente: quella del più forte.
Non esisteva figlio, parentela o amicizia che tenesse, contavano solamente le alleanze e la forza bruta.
Non vi era un solo Un-Han che non desiderasse ottenere il Pugnale del Khan e allo stesso modo avrebbe fatto qualunque cosa pur di impedire a qualcun altro di ottenerlo.
Nella loro bramosia di ottenere il potere, essi stessi erano la migliore garanzia perché il Khan potesse dormire tranquillo la notte, pressoché certo di risvegliarsi al mattino senza avere la gola squarciata da parte a parte.
Se vi era anche solo il sospetto che uno tra di essi tramasse qualcosa ai danni del Khan, costui presto o tardi avrebbe incontrato un pugnale anonimo a tranciargli la gola nel buio dell'accampamento e sarebbe sparito in fretta.
Gli Un-han, marciando dietro il carro Reale, raramente si guardavano negli occhi, eppure ognuno di essi controllava tutti gli altri.
Cavalcavano ritti, alteri e fieri, senza mai togliere la mano dall'impugnatura della lunga sciabola dalla lama ricurva e affilata che portavano al fianco, pronti a sfilarla al bisogno.
Essi erano i compagni fidati del Khan.
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