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L'Eco Del Vuoto

Il freddo e triste inverno era sceso come un fantasma nella desolata e spoglia campagna inglese. Minuscole gocce ghiacciate scendevano dal plumbeo cielo. La candida nebbia avvolgeva la nera cattedrale dalle mura di pietra lavica e dalle immense vetrate color polvere di carbone del villaggio di Thornfield. Un solitario corvo planò sulla punta della guglia più alta.

La luce calda e fievole dei candelabri illuminava le mura marmoree della chiesa, rivelava gli occhi vitrei, sporgenti e i grossi volti grotteschi dei demoni affrescati sui grandi quadri dipinti che adornavano le navate del sacro edificio. Le persone, in vesti funerarie, erano riunite in piedi davanti all'altare. Stavano in silenzio con il capo chino.

«Ophelia, ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.»

Una mano tremante, pallida e affusolata si protese in avanti. Due occhi celestini vibrarono di terrore quando incontrarono l'oscura brillantezza che irradiava quel diamante nero.

Non era il destino che si meritava. Una glaciale lacrima rigò la sua guancia diafana. «Mi dispiace.»

Prese i lembi dell'abito lucido e scuro e fuggì via.

Il grande portone in legno intarsiato si spalancò.

Scese in fretta la scalinata. Piangente corse verso il bosco.

Si lasciò cadere, affondò le ginocchia nell'umido terreno e abbracciò una lapide. I lunghi e ondulati capelli biondi le coprivano le spalle e la schiena. Piangeva e singhiozzava. Il suo gracile cuore era tormentato dal dolore. Si scostò dalla tomba. Andò a sedersi su una panchina. Da una tasca nascosta prese un fazzolettino di pizzo, si asciugò il volto arrossato.

Davanti a lei c'era la tomba del suo gentile e buon padre. Era adornata da un groviglio di rovi e spine. Le rose erano morte al gelo, i petali erano caduti tutti, marci e neri. Sulla lapide bianca dalle venature corvine era inciso su lettere di bronzo il suo nome: Barnaby Darkmore.

Sospirò, si morse le labbra screpolate. Una goccia di sangue cremisi le cadde dal mento. Si tolse il nero velo ricamato che le adombrava il viso sciupato. La sua felicità era volata via insieme alla vita di lui. Era persa, sola e abbandonata, senza più un briciolo di amore. Il suo cuore non batteva più, era diventato pesante e duro come una roccia oscura, impossibile da scalfire, impossibile da bruciare. La sua anima era attraversata da sottili crepe di incolmabile sofferenza. Stava lentamente appassendo come l'ultimo fiore della Primavera. La sua perfida matrigna l'aveva costretta in matrimonio a un giovane e ricco commerciante di Londra. Si era fatta coraggio ed era riuscita a svincolarsi da quella promessa troppo ingiusta, inadatta al suo spirito ribelle e libertino.

Si era promessa che non sarebbe più tornata a casa. Sarebbe rimasta lì, a mettere radici insieme al padre, finché la morte non sarebbe venuta a rapirla. Attese nel silenzio, confortata dalle gocce di pioggia che picchettavano sulle fronde smeraldine degli abeti. Chiuse le palpebre ed emise un profondo respiro.

Ci fu uno schiocco, succeduto da un crepitio. C'era qualcuno che la stava spiando. Sobbalzò in piedi, si strinse una mano al petto. Intorno al cimitero regnava una perpetua quiete.

Fra alcuni cespugli di felci comparì una sagoma pelosa e grigiastra.

La seguì con sguardo impaurito.

Alla penombra di un ramo aghiforme si rivelò una sconosciuta creatura. Mogia, si acquattò sopra una pietra grigia spigolosa. Il suo corpo mingherlino era nascosto in parte da un lucido mantello nero, legato stretto al collo con un fine fiocchetto. Era coperto da un manto di pelo corto cenerino dai riflessi color castagno, macchiato da scure chiazze bagnate e vermiglie. La fanciulla compì un incerto passo in avanti e si chinò per scrutarlo meglio. Aveva quattro zampe ossute e sottili, i piedi palmati dagli artigli affilati e giallognoli. Il suo volto romboidale si inclinò di lato. Aveva le guance scavate e gli zigomi prominenti. Sembrava le stesse sorridendo. Aveva due orecchie elfiche penzolanti, al centro della fronte rugosa gli spuntavano un paio di spesse corna incurvate all'indietro. Assomigliava a un cucciolo deforme di una capra. Era lì, immobile, che continuava a fissarla, ipnotizzato da una bramosia ossessiva di possedere la sua linfa vitale. Nelle sue iridi ambrate ardevano riflessi rosso fuoco. Ophelia protese un braccio verso l'animale, voleva donargli una carezza. Lui si ritrasse, infastidito le ringhiò contro. Dal mantello estrapolò una clessidra in vetro dorato e la sollevò in aria. Dalla sua bocca fuoriuscì una risata acuta e malefica. Rivelò un ampio e candido sorriso di denti aguzzi. Ruppe a terra l'oggetto. Minuscoli pezzi di vetro esplosero sul terreno e una polvere oscura si dissolse nell'aria. La capretta scomparì nell'ombra.

La fanciulla prese a rincorrerla nel fitto bosco.

Si trovò davanti a una quercia morta dalla corteccia nera e ruvida, i rami scheletrici si innalzavano fino a nascondersi nella nebbia alta.

Si avvicinò piano all'albero. Il tronco rivelava un'oscura apertura. Sopra c'era incisa una scritta che recitava "Obsiddian Hollow".

Ophelia fece un passo in avanti e allungò una mano nella buia caverna. Venne accolta da una ventata fredda, le fece accapponare la pelle e un brivido sinistro le scese lungo le vertebre. Giunse un profondo e sofferto ruggito, un'implorante richiesta di aiuto. L'eco del vuoto la stava chiamando.

Fece un altro passo in avanti. Il terreno sotto di lei cedette, cadde nel buio. Gridava, piangeva e si dimenava in cerca di un appiglio. Le pareti erano brune e melmose, cosparse da enormi e fitte ragnatele, in cui erano aggrappate giganti e pelose tarantole. La guardavano sprofondare sempre di più nelle viscere dell'oscurità. Riuscì ad afferrare un ramoscello. Si aggrappò stretta ad esso con entrambe le mani. Aveva il respiro affannoso e la gola secca. Rivolse lo sguardo verso quel buco nero che voleva inghiottirla. La caverna prese a tremare e a cedere. Pezzi di pietre e zolle di terreno si staccarono dai fianchi della grotta. Giunse di nuovo quel verso gutturale. Dalle pareti iniziarono a spuntare  mani e piedi artigliosi. Infinite teste di demoni arrancavano verso di lei. Ghignavano, perfidi. Uno di loro la raggiunse e strappò il ramoscello su cui era appesa. La fece cadere negli abissi delle tenebre. La fanciulla cacciò un urlo impotente.

Si risvegliò, seduta a una tavola imbandita, situata la centro di una stanza calda, ma sconosciuta con le pareti rivestite di un finto rosso broccato.

Stordita e con il mal di testa non sapeva dove si trovava.

Davanti a lei c'erano squisite prelibatezza e calici in cristallo riempiti di un liquido scuro.

Alla sua destra, a capotavola, vide un giovane. Aveva il petto scoperto e scolpito da marmorei muscoli. Il viso duro, dalla mandibola squadrata, celava un'espressione vanitosa e maligna. Aveva i capelli corvini, alcune ciocche ondulate le ricadevano fino alle spalle. Stava fissando la ragazza con penetranti occhi cenerini.

«Benvenuta all'Inferno, Diana.»

«Chi sei tu?» Domandò confusa. Non si ricordava nulla. 

«Io sarò il tuo Lucifero.»

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