Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

03, leggiadro come angelo è il cielo

❝ . . . Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera . . . ❞

Era mattina inoltrata ma ben poca luce riusciva a passare attraverso le imposte quasi perennemente accostate. Verlaine era così: preferiva il buio, non vedere niente, anche se ciò comportava che i pensieri lo portassero alla deriva — e con loro i ricordi, i rimpianti e, forse, anche solo quella voce che, nella sua testa, canticchiava una ninnananna in francese senza motivi apparenti. Chissà, forse era perché per l'ennesima volta non aveva chiuso occhio durante la notte, e sapeva quanto Arthur tenesse al suo sonno: più volte l'aveva rimproverato per non aver dormito un minimo di otto ore, diceva sempre che anche la spia più abile se non possedeva un orario del sonno regolare avrebbe finito per commettere imprecisioni, e più imprecisioni potevano portare al fallimento.

Ma Verlaine scosse la testa: non era stato per una carenza di riposo se quella notte aveva deciso di fermarsi e tradirlo, di questo era certo. Si pentì all'istante di quel pensiero: la sera prima s'era ubriacato proprio per evitare questo genere di riflessioni — non reggeva bene l'alcool, ma talvolta questo poteva andare a suo favore — e ora, con i consueti postumi, la testa gli faceva così male che, se non l'avesse appena fatto, avrebbe dubitato della possibilità di pensare a chicchessia. Ma, realizzò sbuffando forte, Rimbaud non era un chicchessia qualunque.

«Fanculo» mormorò, seccato, alzandosi in piedi. Come previsto, la testa gli iniziò a girare con violenza, tanto da farlo barcollare un po' prima di riprendere l'equilibrio. Con la mente ancora appannata, tentò di ricordare cosa Rimbaud gli avesse sempre raccomandato per simili circostanze: ma, a parte alcuni momenti in cui il moro gli spiegava quali fra i vini in vendita fossero i migliori, non aveva altri ricordi legati all'alcool degni di nota. Eccetto uno. In quell'occasione Arthur gli aveva regalato una bottiglia, più uno strano pacchetto.

Occasione. Un termine che a situazioni normali non avrebbe utilizzato, ma che il suo compagno aveva nominato in modo così naturale quel giorno. Come se lo fosse stata davvero: un'occasione speciale, un motivo per festeggiare.

Verlaine si mosse di scatto, stizzito. Ignorando la nausea si diresse verso la porta, recuperando il corto cappotto color crema e gettandoselo sulle spalle, prima di uscire sbattendo l'uscio da quella stanza buia.

Le strade odoravano di primavera e fiori morti. Un tempo pensava davvero che i fiori sbocciassero per appassire — magari fra le dita di qualcuno cui lacrime erano troppo orgogliose per essere versate in quella stagione, periodo d'amore e di fragranze floreali dal retrogusto amaro, poiché quegli stessi fiori dai bei colori venivano offerti alla persona amata e poi usati quando una vita s'estingueva e il corpo andava sepolto. Eppure s'associa quei germogli alla purezza e alla rinascita, come se ci fosse qualcosa di puro nei colori destinati a sbiadire al termine di una stagione come tante.

«Non essere sempre così cinico», lo aveva ammonito una volta Rimbaud. «È vero, i fiori non durano: alcuni muoiono e altri evolvono in frutti. Hanno vita breve. Ma non è forse questo a renderli così speciali?»

«Una vita dev'essere breve per essere speciale?»

«No», aveva ammesso. «La vita non è mai speciale, breve o lunga che sia. Per molti non è nemmeno bella. Ma, comunque vadano le cose, la vita di ognuno è la cosa più preziosa che esista. I fiori sono belli perché la raffigurano, tutto qui. E anche se nel giro di pochi mesi scompariranno dai rami, sappiamo per certo che torneranno la prossima primavera. Dunque anche se destinati alla morte, sono pur sempre destinati anche a una rinascita. E, banalmente, l'uomo ne trova conforto, poiché ha la percezione che la vita in senso lato sia infinita.»

Verlaine era rimasto in silenzio per qualche minuto. Poi aveva affermato: «Perdonami, ma non vedo cosa ci sia di positivo».

A dispetto del cipiglio sul volto del compagno, Arthur si era messo a ridere, prendendolo a braccetto e trascinandolo per le vie soleggiate e l'aria satura di polline. «Allora, mettiamola così» aveva riso. «La vita non è né infinita né finita: la vita è un fiore. Ne esistono di belli e meno belli, duraturi e non. Alla fine alcuni diverranno frutti, altri resteranno sterili e nessuno gliene farà una colpa. In ogni caso, appassiranno. Ma la vita delle nuove generazioni e i germogli della prossima primavera sapranno onorarne la memoria e portare un po' di gioia al prossimo. Non a tutti, è chiaro. Ma uno non vive per far contento il mondo.»

«E allora perché?» aveva chiesto Verlaine, confuso.

Un sorriso enorme fu la risposta. «Dev'esserci un motivo? Se credi di sì, sappi che in realtà non c'è. I fiori non esistono per farci fare delle belle passeggiate o discorrere fra noi: esistono e basta, e la scienza è l'unica responsabile. La filosofia è qualcosa di umano, per questo non può essere estesa a tutto — non tutto è umano.»

«Quindi mi stai dicendo che sto filosofeggiando a vuoto? È così?»

Un altro sorriso. «Be', lo fai sempre.»

«Non posso credere che tu abbia fatto tutti quei discorsi complessi solo per dirmi che il mio più grande difetto è prettamente umano» aveva sbuffato Verlaine. «Sei spregevole.»

Portandolo ancora a braccetto, Arthur aveva proseguito a camminare all'ombra degli alberi con un'espressione sfacciatamente allegra. «Da qualcuno avrai pur preso.»

«Non montarti la testa.»

«Non temere» gli aveva mormorato, «non lo farò».

Al tempo gli aveva dato fiducia: aveva davvero voluto credere che Arthur non si sarebbe mai ritenuto abbastanza importante per Verlaine da credere di influenzarlo — cambiarlo, perfino. Ma aveva commesso un errore. Rimbaud, dopo tutto, era umano, ed ogni umano è fallace a modo suo. Il suo peccato era stato la superbia, talmente ben celata da buone intenzioni e un inspiegabile affetto nei confronti di quel mostro a cui aveva insegnato ogni cosa che perfino Paul, per lunghi anni, non aveva saputo riconoscerla. Superbia perché si ostinava a credere che il suo compagno fosse umano, superbia perché mormorava con un tono odiosamente calmo che loro erano uguali, superbia perché non si arrabbiava mai, perché gli aveva insegnato ogni cosa e solo per questo pretendeva di riuscire a insegnargli anche a vivere, a ridere, a considerarsi umano e a condurre ciò che gli restava della sua esistenza nell'illusione di non essere artificiale, non essere pericoloso, non essere assolutamente fuori luogo ovunque andasse. Rimbaud peccava di superbia perché il suo sguardo privo di ogni disagio e paura nei suoi confronti era la prova di come si considerasse al di sopra di tutti coloro che — a ragione — temevano il più instabile dei Poètes Maudits come la peste, si macchiava di quel crimine morale ogni volta che Verlaine, per qualche motivo, s'imponeva di rivolgere un flebile sorriso al suo partner, poiché come reazione riceveva sempre una gioia talmente ingiustificata (e gradevole) che gli pareva giusto provare a incurvare un po' le labbra solo per renderlo contento. E Paul lo capiva, sapeva perché era contento; perché un gesto così banale come un sorriso, se sul proprio volto, provocava in Arthur tutta quella lietezza: ché gli faceva pensare, ingenuamente, che quel sorriso fosse sincero e che Black No. 12 stesse davvero iniziando a capire d'essere vivo e di meritarlo. Arthur, oltre che superbo, era anche sciocco.

Ma forse anche lui lo era stato. Di tutto questo, al proprio compagno non ne aveva mai parlato — non molto, almeno. No, non una parola di troppo, perché per quanto biasimasse ogni giorno di più quell'uomo per le sue parole e i suoi sorrisi, in fondo, aveva pensato una volta, non voleva che smettesse o che se ne andasse, e per quanto lo odiasse proseguiva a sorridere falsamente di tanto in tanto, solo per osservare le reazioni umane e stupide di una spia che non avrebbe dovuto avere legami o sentimenti, e che tuttavia li riservava a un essere che non poteva averli. Era sempre stato zitto, e solo una volta s'era azzardato, finalmente, a parlare: quando il peso d'un bambino pelle e ossa gli incurvava le spalle e una pistola era stretta fra le sue dita guantate.

Incolpava la superbia e l'ingenuità di Rimbaud per l'accaduto: all'inizio credeva davvero che la responsabilità fosse sua, di chi altri avrebbe dovuto essere? Era il suo mentore, il suo compagno e non s'era mai sforzato di capirlo, solo di cambiarlo. Meritava quella pallottola, quel rifiuto, quel tradimento.

Quello che non meritava, invece, era non riuscire a vedere il mostro che aveva allevato neanche quando questi gli aveva sparato alle spalle. Non lo meritava Arthur, non lo meritava Paul: ché in quegli occhi non era riuscito a vedere la rabbia che pregava di scorgervi, solo delusione e una profonda, dolorosa tristezza.

E per quello la colpa era di Verlaine. Era stata colpa del suo ostinato silenzio e dei suoi finti sorrisi se Arthur non era riuscito a odiarlo neanche in quell'istante, ed era sempre a causa sua se adesso stava camminando sotto dei ciliegi in fiore senza nessuno che lo tenesse a braccetto.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro