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02, i sentieri sono aspri

. . . Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero? . . .

Ma il suo più grande tormento non stava nell'effigie del partner ormai perduto, quanto nei sogni che, ultimamente, lo perseguitavano. Per lungo tempo orridi incubi erano stati i soli protagonisti di notti agitate, prima ancora dell'infinito ma incostante periodo in cui perfino quelle tremende visioni lo avevano abbandonato, senza quasi mai presentarsi. Ora, tali visioni erano tornate: ogni notte, con terribile precisione, venivano a trovarlo; e mai seppe accoglierle preparato.

Negli anni della sua reclusione in quelle fredde mura da laboratorio era solito vivere scene raccapriccianti al di fuori delle ore di veglia: grida e cigolii di alti cancelli, ringhi gutturali e foreste nere, la paura più cieca mista a una rabbia primordiale. Queste erano le immagini a lui più familiari, lo tormentavano fin da quando aveva memoria.

Ma adesso, ora che quelle miserabili stagioni erano passate, nuovi scenari gli si presentavano innanzi, e quei sogni sapevano atterrirlo più d'ogni altra cosa avesse mai vissuto — e sognato. Non erano mai, di per sé, agghiaccianti o orrendi, tutt'altro: erano magnifici. Magnifici, magnifici ricordi che gli appartenevano e che, a ogni calar delle tenebre, lo facevano alzare urlante o allibito, sempre esangue e col fiato mozzo, in lacrime o meno. Correva fin troppo spesso in bagno e il suo stomaco rigettava indignato quel poco, povero cibo ch'era riuscito a buttar giù in giornata: ma quando questo finiva la nausea e il disgusto non cessavano, e sputava sangue e saliva fra i singhiozzi mentre quell'ombra maledetta lo guardava gentile, in modo tranquillo. A volte sembrava quasi che volesse accarezzargli la schiena quando le gambe gli cedevano, scosse da tremori; ma poi sembrava ripensarci, e non s'avvicinava mai più del dovuto: stava in disparte, come uno spettro fa.

Quello spettro forse l'osservava anche quand'era incosciente, non poteva saperlo: ma no, quello non era un reale fantasma, solo un gioco di luci e nostalgia e dolore, illuminazioni maledette nere come pece e capelli di stoffa mal cucita, stoffa rossa con motivi scozzesi, forse, ma no, quella stoffa era così sottile, perfino quel ricordo sbiadito avrebbe patito il gelo di quelle mura spoglie. E tremava, Verlaine, tremava con lui. Freddo o paura, non lo capiva, ma li sentiva entrambi: lo stringevano stretto, si sentiva soffocare, e quell'uomo non faceva nulla, non li scacciava, non s'apprestava a scaldarlo, non lo sfiorava, non respirava neppure; forse era arrabbiato, ma che importanza aveva, quello era solo un delirio, un orrido scherzo della sua mente bacata e corrotta — un tempo placata da stoffa francese, ma ora non più, non funzionava più bene, quel dono si era rotto con lui.

Ma eccolo, ora Arthur respirava di nuovo. Lo vedeva più giovane, dolce ragazzo, e coi suoi capelli d'ebano che splendevano più della Ville Lumière al sole di primavera. Le labbra incurvate all'insù, occhi sereni e mani fasciate, guardava la Senna, con gli occhi più belli dei dipinti che avevano ammirato prima e l'impressionismo ancora vivido nelle sue iridi ceree. Mirava affascinato le pennellate di tempera che componevano il mondo, ma erano sintetiche — lui no, era così vivido da togliere il fiato, lui era il pittore inconsapevole di quei quadri, colui che dava loro un senso e una vita, ché i colori da soli non trasmettono molto, sono così vuoti.

Lo guardava, e attraverso le ere Verlaine avvertiva quello sguardo ormai perduto sulla propria pelle, vedeva Monet che dipingeva quel volto etereo con pennelli setosi attraverso le stagioni, sentiva i respiri leggeri del compagno e sfiorava con titubanza quella figura soave: una ciocca scura si era mossa per il vento, andava aggiustata, dava fastidio sugli occhi. Ed era ripagato da un sorriso riconoscente, una gratitudine tanto rara quanto preziosa che Arthur dedicava solo a lui.

Sapeva cosa avrebbe detto e fatto, dopo: quel ricordo gli era talmente familiare da sorprenderlo, quasi credeva di respirare l'aria parigina di quegli anni passati. Rimbaud lo avrebbe ringraziato con un ultimo, debole sorriso, poi si sarebbero incamminati lungo il corso del fiume con il passo di chi non è turbato dal lavoro o sceglie di non esserlo per una mattinata, e così sarebbe trascorsa un'altra stagione, con una serenità precaria quanto le loro vite pronte a essere sacrificate in ogni missione per il bene di un Paese che entrambi amavano, ma a cui solo uno riusciva a essere davvero fedele.

In quel momento, l'Arthur delle sue memorie si fermò, arrestando il passo senza motivi che ricordasse ma mantenendo i suoi modi pacati. «Non disperare, mio Paul», lo udì sussurrare. «Lo so che nessuna fedeltà ha mai guidato il tuo animo.»

Fu allora che vide tutto crollare, e lui stesso lo fece. Riconosceva la voce, non le parole: il compagno che ricordava non l'aveva mai pronunciate, non a quel tempo, almeno. Eppure... perché gli erano così familiari? Guardava attonito quegli occhi calmi come le acque del fiume sotto di loro e ne rimaneva turbato: come poteva rimanere impassibile, come?

Verlaine tentennò, ancora stupito da quell'accusa tanto improvvisa, e gli tese una mano, tutt'a un tratto implorante come non ricordava d'essersi mai mostrato, forse in cerca di quel supporto ch'era sempre stato troppo orgoglioso, o sciocco, per accettare. «Rimbaud, io—»

Venne ricambiato da una debole risata. La sua mano rimase a mezz'aria, vuota, e non fece in tempo a notare le lacrime sul volto ridente del compagno che di nuovo si trovava in quella stanzetta fosca, col respiro mozzo e l'animo pesante. S'era svegliato.

E, come sempre accadeva, l'ombra non era al suo fianco: sarebbe tornata tra poco.

La mano ancora tesa ricadde pesante sui cuscini e i primi singhiozzi gli scossero il petto, poiché anche nei sogni più belli e cari non poteva fare a meno di vedere Rimbaud in lacrime, col cuore crepato quanto il suo, conscio d'averlo condannato a non ridere mai più, in nessun'era e in nessun luogo. Erano destinati, forse per colpa d'entrambi, a struggersi in quella cupa camera senza che l'uno potesse realmente vedere l'altro se non attraverso un velo di lacrime e ricordi passati.

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