Chapter twenty-three: Save her
Qualcosa irrimediabilmente si era rotto dentro di me, completamente andato in frantumi dal momento in cui i miei occhi si sono posati sulla figura priva di sensi di Clarissa. Vederla lì, con i suoi bellissimi capelli imbrattati di sangue, la bacchetta ancora poggiata sul palmo della mano ormai schiusa e inerme, era stata la cosa più dolorosa che avessi dovuto affrontare in tutta la mia vita.
Avevo sentito proprio quel fatidico crack che precedeva un cuore spezzato. Magari fosse l'unica cosa ad essersi spezzata. Avevo la sensazione che si fosse frantumato ogni osso del mio corpo.
Ero stato uno stupido orgoglioso del cazzo. Avevo giurato di proteggerla, lo avevo promesso, e invece ero stata un totale fallimento.
Adesso la guardavo andar via, scomparire oltre la porta dell'infermeria, inerme su quella spoglia e barcollante barella, e sapevo che il mio cuore non avrebbe più battuto allo stesso modo. Non respiravo, c'era così poca aria nei miei polmoni che sarei potuto svenire in qualsiasi momento.
Non poteva lasciarmi, non poteva andarsene così. Non sarei sopravvissuto ad un dolore simile. Avrei passato l'esistenza a maledirmi per le mie colpe.
Dove cazzo era mio padre? Quanto ci voleva a smaterializzarsi in questo castello del cazzo?
Cominciai già a scrivere il settimo messaggio nel giro di una decina di minuti, quando sentii il boato che emisero le porte della scuola, spalancandosi. Ecco che la severa figura di mio padre, con i suoi capelli biondo platino, la faccia pallidamente severa, contornata dai suoi gelidi occhi color ghiaccio, assieme alla sua innata eleganza, fece il suo ingresso nel castello. Seppur minimamente, mi sentii sollevato.
«Non servivano sei messaggi di fuoco, avevo capito al primo che fosse una situazione grave. Dov'è la ragazza?»
Come sempre, nessuna emozione traspariva dalla sua voce. Era freddo e insensibile, quello sguardo di ghiaccio che passava in rassegna la mia figura, soffermandosi sulla mia felpa ormai imbrattata del sangue di Clarissa, e l'aspetto decisamente distrutto. Non mi serviva uno specchio per saperlo.
Immediatamente, la McGranitt fece strada a mio padre, ovviamente seguiti a ruota da me e Weasley, o almeno ci provai, perché una forte mano afferrò il mio braccio, strattonandomi violentemente.
«Malfoy! Cosa è successo alla mia amica, cosa cazzo le è successo, e perché tu non eri con lei!»
Ma certo, aggiungiamo altro senso di colpa come se il mio non fosse abbastanza.
Era ovviamente Morgana, che urlava parole così velenose nelle mie orecchie, rischiando quasi di trapassarmi i timpani. Era sconvolta come tutti, doveva da poco averlo saputo, tanto che il suo volto era ancora umido delle lacrime.
«Penso di star già male abbastanza, non c'è bisogno anche che ti aggiunga tu.»
Ed ecco la sua mano veloce e violenta si allungò verso di me, con uno schiaffo che mi colpii in pieno volto, lasciando la mia pelle leggermente arrossata, ma non sentii nulla. Nessun dolore, niente di niente. Soltanto il vuoto.
Non puoi spezzarti se lo sei già, e non può farti male qualcosa che hai meritato.
«Se invece di litigare per le cazzate non l'avessi fatta correre via da te per l'ennesima volta, ora non staremmo parlando di questo. Ti giuro Malfoy, che se le succede qualcosa...»
Tra un singhiozzo strozzato e l'altro, Brandon le cinse la vita, lasciando la frase a mezz'aria, cullandola teneramente tra le sue braccia, mentre piano le accarezzava la testa, tempestandola di piccoli baci.
«Ehi, ehi. Clarissa è forte ed è nelle mani migliori che conosca. Andrà bene 'Gana.»
In realtà Brandon cercava di confortare tutti noi, ma se le parole potevano ingannare, gli occhi smascheravano ogni bugia. E proprio dentro quelle iridi azzurre, scorgevo l'incertezza, la paura e l'angoscia che lo affliggevano. Non era convinto di ciò che diceva, ma nessuno di noi lo era davvero.
E a chi se non me, si poteva riversare tutta la colpa?
Il momento di confrontarmi con la realtà, quella dura e spregevole, era arrivato. Questa bastarda che ti si parava proprio di fronte la faccia, e rendeva vere e reali tutte le tue paure: lei sarebbe stata meglio se non mi avesse avuto tra i piedi, se non fossi mai incappato nella sua vita, facendole più male che bene.
Se non l'avessi lasciata andare, se non l'avessi fatta arrabbiare, non l'avrei ridotta così.
Troppi se, troppi ma. Troppo senso di colpa, e nessuna certezza.
L'unica che avessi mai avuto adesso era a due metri da me, ferita e inconscia.
Il silenzio regnava sovrano tra di noi, ognuno col proprio magone e la propria sofferenza da tenere a bada, accomunati soltanto dal bene che tutti avevamo nei confronti di quella piccola testarda orgogliosa.
In meno tempo del previsto ci trovammo fuori al portone bianco dell'infermeria, formata da due grandi ante scorrevoli, che ancora tremavano grazie al movimento della barella che entrando violentemente, le aveva fatte ballare per più di qualche minuto. Sopra di esse c'era un piccolo oblò di vetro, ma essendo opacizzato era impossibile guardarvi all'interno.
Non mi bastava restare fuori ed aspettare l'imprevedibile, senza una risposta concreta, senza poterla vedere.
Fregandomene di tutte le regole che potessero esistere, non sapevo neanche se esistessero, spalancai la porta dell'infermeria ed entrai.
Immediatamente lo sguardo torvo di mio padre mi fulminò, ma io non lo guardavo neanche.
Tutto ciò che vedevo, erano i lividi che coprivano tutto il corpo di Clarissa, ormai coperto solo dall'intimo, i graffi che lo scontro le aveva causato. Trasalii a vederla in quello stato, la faccia ed il corpo inerme, gli occhi chiusi e nessun segno di ripresa. Non mi accorsi neanche di quanto stessi tremando, soltanto l'idea di non poter guardare di nuovo nei suoi meravigliosi occhi color nocciola, e innamorarmi ancora, mi rendeva isterico.
Intorno a lei c'era mio padre e un'altra infermiera, la testa era stata già tamponata con delle fasce, mentre si passava alla rassegna degli altri danni.
«Io non mi muovo di qui, quindi almeno aggiornami sulle sue condizioni.»
Mio padre non alzò lo sguardo dal suo lavoro, mentre preparava l'intruglio da somministrarle.
«Il danno alla testa è la cosa che mi preoccupa di più, ha perso molto sangue e probabilmente servirà una trasfusione. Credo abbia avuto una commozione celebrale causata dalla botta. Il corpo invece, ha subito i danni della maledizione Cruciatus più potente che io abbia mai visto, mai una persona aveva riportato danni così estesi. È un miracolo che non sia morta. Era questo il tuo modo di proteggerla?»
Altra spada che si conficcava ancor più violentemente nel mio petto. Non si preoccupava neanche di essere spregevole, e manco guardare le mie condizioni aveva frenato la sua lingua da serpe.
Ma in questo momento poco m'interessava. Lo volevo concentrato solo su di lei, e so che è quello che stava facendo.
«Se ha bisogno di trasfusione, prendete il mio. Lo so che sono un donatore universale, sono zero positivo.»
Era soltanto il minimo che potessi fare, e avrei versato fino all'ultima goccia di sangue se fosse stato necessario. L'avrei salvata, avrei rivisto quelle due iridi meravigliose splendere ancora dentro le mie, a qualunque costo.
Mio padre annuì, facendo cenno all'infermiera di preparare il necessario all'operazione.
Mi prepararono un semplice lettino, per potermi poggiare proprio al suo fianco, per assicurarsi di effettuare la trasfusione nel più breve tempo possibile.
E in meno di pochi minuti, il sangue già fluiva dal mio corpo al suo.
Era una sensazione strana, che a poco a poco m'indeboliva. Sentivo la bocca farsi pastosa, e il tremolio alle mani non faceva che aumentare, per quanto cercassi di restare stabile per lei. Potevo sopportarlo ancora per un po'. Dovevo.
Strinsi flebilmente le labbra, notando che le forze cominciavano a venirmi meno, ringraziai di esser già steso, sarebbe stato imbarazzante sbattere per terra di colpo. Avevo così tanta voglia di chiudere gli occhi, riposare soltanto per un po'.
Ma fu lei a tenermi sveglio, non permettendo alla spossatezza di averla vinta.
Dopo poco mio padre fece cenno di smettere, e io potetti notare di come il colorito di Clarissa avesse quasi ripreso il suo naturale colore. Seppur senza la forza di muovere un singolo muscolo, mi sentii felice al pensiero di aver contribuito a salvarle la vita.
«Va bene così ragazzo. Va a riposarti, non hai molto da fare qui.»
Non esisteva, non mi sarei mosso da questo cazzo di posto neanche se mi avessero trascinato fuori con la forza. Quella era stata l'ultima volta che la perdevo di vista, cazzo l'avrei costretta a mettersi un paio di manette e rimanere attaccata a me per tutta la vita. Stavo delirando, lo sapevo.
«Non vorrei essere da nessun'altra parte. È questo il mio posto.»
Sospirò flebile, scrollando le spalle, e tornando a girare attorno a lei. Controllò che la ferita si fosse rimarginata, e nel frattempo iniziava a somministrarle una sorta di pozione bluastra, che lentamente le entrava nelle vene, grazie a un piccolo tubicino trasparente.
«Questa pozione dovrebbe tamponare tutti i danni interni e aiutarla a stare meglio. Ma non posso dirti con certezza quando aprirà gli occhi. Per il momento è stabile, ma è giusto che si avvisino i genitori.»
Già, mister e miss simpatia.
Se soltanto pensavo a suo padre, mi venivano ancora i brividi. C'era qualcosa di malvagio in quello sguardo, pareva volermi polverizzare semplicemente guardandomi. Ma non perché fossi vicino a sua figlia, c'era dell'altro, lo percepivo, un astio ben più radicato e profondo che mi aveva fatto accapponare la pelle. Decisamente non sarei stato il fidanzato preferito di casa.
Che idiota, mi proclamavo il suo ragazzo e davanti ad Alissa avevo definito la mia Clarissa come un'amica. Lo sapevo che era stato quello a farla innervosire, la conoscevo.
Ma come cazzo avrei dovuto chiamarla?
Sarebbe fuggita anche se avessi detto la mia ragazza, e non lo era, non ufficialmente.
Si sarebbe offesa anche se l'avessi definita la ragazza con cui occasionalmente mi baciavo. C'era poco da fare, con le donne sbagliavi sempre, comunque tu facessi.
L'infermiera corse al di fuori della sala, dove sapevo che avrebbe dovuto passare l'interrogatorio dei ragazzi, sicuramente avidi di notizie.
Eravamo rimasti solo io e quella figura così austera di mio padre.
Dopo non so neanche quante ore mio padre si voltò verso me, guardandomi veramente, passando minuzioso lo sguardo sulla mia figura.
«Come stai ragazzo?»
Come stavo. Che bella domanda del cazzo.
Ma non si vedeva? Non era percepibile? Stavo come sta qualsiasi ragazzo perdutamente innamorato che vede l'amore della sua vita stesa inerme su un cazzo di letto scomodo e anemico.
«Una favola. Come cazzo vuoi che stia?»
Sospirò, passandosi distrattamente una mano tra i capelli. Essere empatico e comprensivo non era da lui, gli risultava tremendamente difficile, e i suoi vani tentativi di essere un padre quanto meno presente erano sempre più tragici.
«La tua Clarissa si riprenderà, è una ragazza forte. Perché invece non cerchi di pensare a chi possa essere il responsabile. Pensa Thomas, usa la testa. Chi avrebbe potuto attaccarla?»
Altra bella domanda del cazzo. E io che ne potevo mai sapere?
Non mi ero neanche focalizzato sulla figura nera che correva veloce nella direzione opposta, non appena avesse udito la mia voce. Avevo visto soltanto lei.
Ma aveva ragione, io dovevo trovare il responsabile di tutto quel massacro, di tutto questo terrore gratuito. Lo dovevo a Megan, e lo dovevo a lei.
Chiusi gli occhi per un momento, poggiando piano la testa all'indietro fino a toccare lo scomodo cuscino alle mie spalle.
«Sei sicuro di non saperne niente in più di quello che mi hai detto un anno fa, su quella setta?»
Mio padre rimase per un attimo in silenzio, e non fece neanche in tempo a rispondere, quando le porte dell'infermeria si spalancarono di forza. Una figura raccolta in un severo caschetto marroncino ed un mantello rosso molto familiare fece ingresso nella sala, puntando dritta verso mio padre.
«Mi state davvero dicendo che la vita di mia figlia è stata messa nelle mani di questo codardo Serpeverde? Non avreste potuto toccare fondo peggiore!»
Mio padre si voltò, lanciandole uno sguardo pieno d'odio. Tanti anni e ancora gli addossavano le colpe del passato, di una battaglia che non aveva causato lui, che gli era costata più cicatrici di quanto non fosse disposto ad ammettere.
Adesso mi sentiva quella vecchia bisbetica.
«Se Clarissa respira ancora, è grazie a mio padre. Gli mostri il rispetto che merita, perché non tollererò un'altra parola ancora contro l'uomo che ha salvato la vita di vostra figlia!»
Marcai volutamente le parole 'mio padre', per far in modo che gli arrivasse chiaro alle sue orecchie. Non avrei mentito oltre sulla mia identità, ne avrei avuto paura di nascondere il nome della famiglia da cui provenivo.
La signora Brave mi guardava dalla testa ai piedi, con uno sguardo così carico d'odio e disprezzo, che in realtà quasi mi fece provare pietà per lei. La sua mente era così retrograda e medievale da fondare ancora pregiudizi soltanto in base ad un colore e un simbolo.
«Avevo avvertito mia figlia dei danni che comportava avere a che fare con le serpi, ed ecco il risultato! Scommetto sarai contento, magari neanche t'importa di lei. Cos'era per te, l'ennesima ragazza della settimana?»
Clarissa, soltanto perché ti amo così tanto che non salto addosso a tua madre e le spacco quella faccia acerba che si ritrova!
Anche perché ovviamente era una donna, e non mi sarei abbassato a tale livello.
Le sue parole però, mi fecero salire una furia omicida, ribollivo di una tale rabbia che sarei potuto esplodere da un momento all'altro. Non riuscivo neanche più a controllare quel bruciore di stomaco così forte che se fosse fuoriuscito, avrebbe causato solo disastri. Anche se indebolito, stringevo i denti e i pugni così forte, che sentii le ossa delle falangi schioccare. E prima che potessi aprir bocca e fare terra bruciata, fu mio padre a parlare per me.
«Giusto perché lo sappiate, è stato mio figlio a trovare la sua e portarla qui in salvo. Come se non bastasse, ha donato quanto più sangue poteva per salvarle la vita. Quindi quando Clarissa riaprirà gli occhi, e lo farà, io inizierei a pensare a come far uscire le paroline 'grazie mille' dalla vostra bocca marcia!»
Mio padre mi aveva davvero difeso? Avevo sentito bene?
Non era mai successo prima d'ora, non che ne avessi memoria.
La signora Brave non sapeva cosa dire, era rimasta ammutolita, gli occhi ridotti ad un esile fessura, che quasi il loro colore era poco percepibile. Non disse nulla, limitandosi a farsi più vicina alla figlia, come se volesse assicurarsi che respirasse ancora. La sentii sospirare, quando la sua mano toccò quella di Clarissa, piegandosi poi a lasciarle un casto bacio sulla fronte. Era pur sempre una madre, questo glielo dovevo concedere.
«Non è permesso ai genitori rimanere oltre il consentito. Per favore però, aggiornatemi sulle sue condizioni.»
Che stronza bastarda, non aveva neanche accennato ad un grazie, ma già che avesse aggiunto un 'per favore' alla frase, senza accennare a insulti o denigri, era già un passo avanti. Detto ciò, uscii fuori dall'infermeria in un maestoso silenzio.
Mi sentivo stanco morto, spossato, i nervi tirati allo stremo. Ma non me ne sarei comunque andato. Non ci riuscivo, ogni cellula morta e vivente del mio corpo mi urlava e m'imponeva di rimanere esattamente lì. E così avrei fatto.
Dovevo esserci quando avrebbe riaperto gli occhi, e sempre il lato egoista di me bramava essere la prima cosa su cui il suo sguardo si sarebbe posato.
Mio padre le si avvicinò ancora, controllando per l'ultima volta che i suoi parametri fossero stabili, assicurandosi che tutto procedesse per il verso giusto.
«Per il momento è stabile, ha solo bisogno che le sue ferite interne si rimargino. Suppongo proprio che ti troverò qui.»
Annuii, cercando di soffocare uno sbadiglio. Il mio corpo era decisamente distrutto.
Mio padre si congedò, salutandomi frettolosamente. Io invece, mi feci ancor più vicino a Clarissa, e delicatamente cercai di intrecciare la mia mano alla sua.
Avevo bisogno di quel contatto, avevo necessariamente bisogno di sentirla, per tener salda la mia sanità mentale. Rintanato nel silenzio, sentivo i battiti del suo cuore pulsare ad un ritmo regolare, e come se fosse stata la più bella delle ninne nanne, crollai proprio al suo fianco.
Sarebbe stato bello poter dire che quando riaprii gli occhi il mattino seguente, avessi incontrato di nuovo i suoi ad aspettarmi. Così non fu, come non successe neanche il giorno dopo ancora, e l'altro seguente.
Così volò una settimana, che passai chiuso in quelle quattro mura ammuffite, passando in rassegna le posizioni più scomode e strane possibili. Ero stato sul lettino proprio accanto al suo, per passare poi alla poltrona, posta proprio dall'altro lato del suo esile letto, per decidere, dopo un mal di schiena terribile, che sarebbe stato meglio tornare all'idea del materasso malconcio. Avevo svaligiato i cuscini di tutta l'infermeria, per cercare di farla risvegliare con quanti meno fastidi possibili. Avevo aggiunto un altro cuscino proprio sotto il capo, facendo attenzione al più che minimo movimento sbagliato, un altro sotto la schiena, per evitarle danni alla colonna vertebrale. Un ultimo ancora sulle gambe, in modo che potesse stare quanto più comoda possibile.
Era una settimana che non vivevo più, non mettevo neanche il naso fuori dall'infermeria, se non per correre a fare una doccia di tanto in tanto. Ma neanche una decina di minuti e tornavo di nuovo.
Ogni giorno mi facevo dare gli appunti delle lezioni da Morgana e James, che in orari e situazioni diverse, venivano a trovarla, intrattenendosi il più che potevano. Io le poggiavo tutto sul comodino, ogni appunto, ogni dettaglio in modo che le sembrasse di non essersi persa nulla, in modo che tutto le sembrasse come lo aveva lasciato.
Che patetico che ero. Quando eravamo soli, e lo eravamo spesso, mi piaceva pettinarle i capelli, quelli che uscivano dalle fasce, assicurandomi che fossero perfetti, come li portava sempre lei.
Stavo impazzendo, mi sentivo così vuoto ed effimero, e quel freddo 7 Dicembre, pareva essere ancora più gelido e tetro senza di lei.
La guardavo ancora. Aveva lo sguardo così rilassato, pacato, senza alcun velo di preoccupazione in volto. Gli occhi delicatamente chiusi, con quelle ciglia che ne contornavano la forma, le labbra rosee e carnose stese in un'espressione beata. Mi innamoravo ogni giorno, ogni ora e ogni minuto sempre di più.
Sapevo di appartenerle, completamente, senza alcuna riserva. Non volevo essere da nessun'altra parte, tra le braccia di nessun'altra se non le sue.
Le stringevo ancora forte la mano destra, e quasi la implorai.
«Vorrei che potessi vederti adesso. So che ti lamenteresti della fascia che ti appiattisce i capelli, o del materasso che è decisamente troppo scomodo, troveresti qualsiasi punto per poterti lamentare. Mi manca il suono della tua voce, mi manca tutto di te. Mi manca litigare, mi manca baciarti, mi manca ballare con te. Ti prego Clarissa, svegliati. Fallo per me. Anzi fallo e basta. Sai mi accontenterei anche se tu non volessi più vedermi, se dovessi scomparire dalla tua vita, senza poter più avere niente a che fare con te, continuando la tua vita senza che io ne faccia parte. Mi andrebbe bene, perché almeno ti saprei viva, ti saprei al sicuro. Mi accontenterei di vederti ridere ancora, di vederti sorridere, di guardarti mentre osservi compiaciuta l'ennesima pozione che ti è riuscita, o stupita mentre leggi i romanzi che più ti fanno battere il cuore. Perché ti amo Clarissa Brave, sono perdutamente innamorato di te, e non ho più paura di ammetterlo, di combatterlo. Ti amerei anche se tu mi odiassi con tutte le tue forze, anche se decidessi di dimenticarmi, non potrei mai smettere, non potrei mai fare a meno di te. Però ti prego, torna da me occhioni, torna da noi.»
Non reggevo più a vederla in quello stato, non ce la facevo. Avevo raggiunto il culmine, il punto di non ritorno.
Mi alzai di scatto, gettando per aria qualsiasi cosa si trovasse sotto il mio naso. Il vassoio d'argento con ancora i piatti a stento toccati del pranzo. I libri, gli appunti che erano tutti raccolti.
Gettai in aria perfino quella misera poltrona che mi si parava davanti.
Ero arrabbiato, imbestialito, fuori di me e da ogni controllo.
Avrei potuto distruggere ogni cosa che si trovasse in quella stanza, ogni barella, ogni strumento. Tutto.
Ma tre semplici parole m'immobilizzarono, rendendomi incapace di muovere qualsiasi arto del mio corpo. Ero paralizzato, e il mio cuore aveva incalzato un battito così veloce che poteva scoppiarmi dal petto.
«Dove mi trovo?»
Era lei, era la sua voce, era sveglia.
Mi voltai di scatto, praticamente inginocchiandomi di fianco al suo letto.
Ed era lì. I miei occhi preferiti in tutto l'universo erano aperti, persi dentro i miei. La vedevo davvero, mentre sbatteva piano le palpebre, e un ghigno di dolore le aveva fatto portare le mani alla testa. Ma era tornata da me, era tutto ciò che contava:
«Bentornata, occhioni.»
Avevo gli occhi lucidi, ed il mio cuore faceva così tanti balzi che non riuscivo più a controllarlo, non riuscivo ad arrestare la sua corsa.
Però lei mi guardava frastornata, quasi confusa, come se tutto questo le fosse estraneo. Mi si raggelò il sangue nelle vene:
«E tu chi sei?»
Quattro parole, nove lettere e un punto di domanda segnarono la mia fine imminente.
Non si ricordava, non sapeva chi fossi, non ne aveva idea.
Iniziai ad annaspare, sentendomi il respiro morire in gola.
Pensare che avesse dimenticato noi, quello che eravamo stati, quello che ci eravamo detti, mi stava collassando. Avevo bisogno d'aria.
Non pensavo potesse fare così male, non l'avrei mai ritenuto possibile. Avrei potuto capire se mi avesse odiato, ma non avevo fatto i conti col fatto che avrebbe potuto davvero dimenticarmi.
E poi la vidi ridere piano, come se la cosa la divertisse, anche se il solo sforzo le procurava qualche altra fitta.
«Ti prego non svenire! Pensi davvero che basti una botta in testa per dimenticarmi di te? Ero solo curiosa di sapere la tua reazione.»
Emisi un respiro così profondo, che mi sembrò di essermi liberato di almeno un quintale di tonnellate di dosso. Neanche un secondo dopo aperto gli occhi, già era in vena di scherzi. Peccato che sarebbero bastati altri due secondi e avrebbero dovuto ricoverare me.
Anche questo mi era mancato di lei, e fregandomene come al solito di qualsiasi procedura, mi gettai tra le sue braccia, godendomi la sensazione di poterla ancora abbracciare, di poterla ancora stringere forte a me. E lei si poggiò delicata contro la mia figura, senza la forza necessaria per potermi stringere, ma abbandonandosi a quella sensazione tanto quanto me. Avrei potuto passare la vita intera così.
Lei si scostò piano, spostandosi per potermi fare un po' di spazio affianco a lei.
«Sappi che è colpa di tutta la morfina che mi sento in circolo se dico cose stupide. Puoi rimanere un po' come me? Non voglio stare da sola.»
Clarissa, è tutta la cazzo di settimana che non aspetto altro che sentire la tua voce, dove pensi che abbia intenzione di andare? Possibile che tu non lo capisca?
Le rivolgo un sorriso genuino, mentre delicatamente scosto le due coperte di lana che mi permettevano di tenerla al caldo.
Una volta che le fui affianco, la sua mano calda ed esile si poggiò sul mio petto, mentre piano posava la testa sulla mia spalla, abbattendo ogni difesa possibile. Sentire il suo respiro ancora una volta sul mio collo, i palmi delle mani sopra al mio petto, e la sensazione di calore che emanava, mi mandava in tilt.
«Dai dillo che era una scusa per potermi palpare, non lo dirò a nessuno.»
Sentii i muscoli della sua mascella contrarsi in quello che doveva essere un sorriso, mentre piano chiudeva gli occhi, ancora troppo debole per poterli tenere aperti del tutto.
«Mh Mh. Adesso però non ti montare la testa.»
E furono queste le ultime parole che pronunciò, prima di crollare di nuovo in un sonno profondo. Mi addormentai anch'io poco dopo, sperando di poterci incontrare in un sogno.
Buonasera girl! Eccomi qua con un nuovo capitolo.
Adesso che siete qui ammetto il mio peccato, le mie intenzioni iniziali erano quelle di far finire il capitolo a ''e tu chi sei?''. Ma sapevo che avrei scatenato una sommossa popolare AHAHAHAH.
Neanche io sono così cattiva e quindi dopo tanto dramma, ho deciso di regalarvi una piccola gioia. Che pareri avete sul capitolo, sono tanto curiosa di sentirvi, e di immaginare come proseguirà.
Ammetto che Thomas ha fatto commuovere perfino me, giuro che la sua dichiarazione mi è venuta d'istinto, come se fosse lui a parlare.
Altra precisazione, ci sono poche descrizioni dell'ambiente e la cosa è voluta in quanto in una situazione del genere, in un terrore tale, non mi sembrava coerente che Thomas prestasse attenzione a ciò che lo circondava. Spero che possiate concordare. Ho lasciato più spazio all'introspezione e ai suoi sentimenti, che spero di avermi reso bene.
Detto ciò, come sempre, se vi va, lasciate pure una stellina o un commento.
Vi adoro tutti, dal lettore silenzioso al commentatore immancabile della mia storia. Grazie davvero di cuore!
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