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Capitolo 23 Il fine giustifica i mezzi (parte seconda)

MICHEY

Daniel deduce che non ne voglia parlare, ha rispetto per quelli che sono i miei silenzi e gli sono grato di non mettermi in difficoltà, motivo per il quale non ho mai utilizzato i poteri su di lui.

Una risposta alla domanda, però, mi sento di donarla.

«Per quel che riguarda i vampiri, Ratri è al sicuro» prendo una lunga pausa, il ricordo di ciò che ho fatto per salvarle la vita, mi dilania l'anima, è un peccato che non estirperò mai nemmeno finissi nel peggiore fra gli inferni, ma forse vivere con la consapevolezza di essermi macchiato di un crimine tanto atroce, è il mio inferno personale. Passo una mano tra i capelli, sforzando un'aria disinvolta.

«Il problema sono le streghe. Ratri è un'arma potente da utilizzare, ma finché resterà con noi, sarà difficile da rintracciare. È come se fosse protetta dalle nostre auree. Comunque finché non manifesterà altri poteri se non quelli delle shuvani, è del tutto innocua ed è come se fosse una comune veggente, né più né meno.»

E in cuor mio spero che rimanga così per sempre. Benché io sappia sia una speranza vana e utopica.
La mia sola vicinanza le ha risvegliato i poteri latenti e per quanto tutti mi abbiano additato come pazzo al tempo della mia decisione di prenderla a vivere con me, io so cosa ho fatto.

«Se quella donna parlasse però... »
«Non lo farà. Conosce le conseguenze.»

Non potevo non indagare a fondo. Dovevo capire se bastava tenerla lontana per farle vivere un vita felice e piena, ma non sarebbe stato così a prescindere. La morte dei suoi genitori adottivi è stato un aiuto, per quanto ne sia costernato per il dolore che questo le ha arrecato, ma avrei dovuto prenderla con me comunque.

Per anni ho cercato informazioni, ma Ratri è un caso unico dacché esistono vampiri e streghe, perciò ho dovuto rivelare la sua esistenza a un'antica: una potente seguace di Hecate, la quale mi ha spiegato che Ratri avrebbe sviluppato quel potere nascosto quando la luna nera sarebbe di nuovo comparsa la notte del suo compleanno, cosa che accadde proprio nel suo ultimo genetliaco.

Non potevo lasciare che vivesse da sola, che si ritrovasse da un giorno all'altro con un potere più grande di lei, ingestibile. Dovevo averla qui, sotto la mia tutela e protezione e così ho fatto.

«Devo trovare un modo di entrare in contatto con Ratri, di stringere un legame più forte di quello che ho ora. Deve potersi fidare di me.»

«Sai, hai la fortuna di non essere una vera figura parentale. I figli, i nipoti, spesso ci vedono come "grandi", tu sei giovane. Hai, uhm... ventotto, ventinove anni, forse?»
«Cinquecentosessanta, compiuti.»

Daniel si lascia libero a una risata genuina. Forse per un essere umano è quasi impossibile immaginare qualcuno che cammina da così tanto tempo su questa terra.

«Non fare il pignolo, sai bene cosa intendo. Prova a trovare un interesse in comune, qualcosa che la possa portare a voler stare vicino a te. Non devi porti come un nemico o un... nonno, sei... potresti essere suo fratello maggiore, o un suo amico, insomma Michey, immergiti nei panni di un suo pari. Negli anni ottanta riuscivi benissimo a fingerti uno studente. Certo, avevi le tue stranezze, ma ti calavi nel ruolo egregiamente.»

Un suo pari...

Non saprei da dove cominciare, ma una cosa è certa e non transigo: non andrò mai in quelle disprezzabile balere nella quali i giovani sembrano tanto a loro agio a ballare quelle destebili musiche rumorose che spaccano i timpani, ubriacandosi senza alcun ritegno. È imbarazzante anche solo immaginarmi in quei luoghi.

Si muovo in branco come un ammasso di deplorevoli vagabondi. Hanno rovinato ciò che era la danza, movimenti armonici e musica apprezzabile. Non conoscono il concetto di eleganza e compostezza. Rimpiango spesso i balli e le feste di quei tempi ormai perduti, quando nei palazzi donne e uomini si adornavano a festa, sfoggiando sfarzerie. Tra quelle sale il divertimento non mancava, fu lì che mossi i primi passi nell'arte degli scacchi.

A tal proposito, debbo concentrarmi sulla partita e ormai ho deciso: io non perdo mai.

Muovo il cavallo che mangia l'alfiere di Daniel, sacrifico poi la mia regina e dichiaro scacco matto al suo re.

«Ah, è inutile giocare con te. Di un po', non è che usi i tuoi poteri?»

Mi sfugge una risatina ilare che, per educazione, tendo a nascondere portando il dorso della mano contro le labbra.

«Malfidato, non lo farei mai. Ma mi diverte il fatto che non accetti la sconfitta da quasi trent'anni.»
«Parola mia, Michey, riuscirò a batterti, almeno una volta, prima di lasciare questo mondo.»

Daniel parla della morte in modo così tranquillo, tuttavia, per quanto io l'abbia sconfitta e manipolata, essa è ancora mia nemica. Mi ha portato via molto e mi porterà via altro. Arriccio le labbra, è un argomento che pesa sulla mia anima.

«Mi auguro il più tardi possibile, amico mio.» Il tono amareggiato che utilizzo, provoca in lui un sorriso amaro.

Questa sera il nostro congedo è più malinconico. Nessuno di noi desidera pensare a quella che sarà un'inevitabile perdita.

Lo accompagno, come di consueto, alla porta, ma prima che possa abbandonare la casa lo richiamo:

«Forse ho trovato qualcosa da usare con Ratri» accenna un sorriso e china lieve il capo in segno di assenso.

«Sono certo che riuscirete a creare un legame. Fammi sapere.»

Chiudo la porta sulla figura di Daniel che si allontana. Sorrido, entusiasta di aver forse trovato un'idea.

In pochi attimi sono in camera mia. Supero lo specchio da pavimento coperto da un pesante tendone scuro, arrivo alla scrivania in mongano e da uno dei cassetti prendo una piccola chiave che uso per aprire la porta dorata intagliata a mano. Elizabeta adorava lo stile etnico, perciò trovavo giusto creare un altare commemorativo dietro tale porta.

Una stuola rossa ricopre un tavolino sul centro del quale è posizionata la fotografia che la ritrae bella e in salute come voglio ricordarla. Ai lati della cornice ho posizionato due candelabri che di tanto in tanto accendo come se quella flebile luce ricordasse l'amore e la passione che ci ha unito. Dentro questa piccola stanza custodisco tutto ciò che le apparteneva. Un baule ai piedi del tavolo è colmo di ogni cimelio che fu di sua appartenenza. Lo apro e cerco il mazzo di carte che le apparteneva. Nonostante fosse una shuvani, utilizzava anche metodi umani per vedere il futuro. Asseriva infatti che dopo una visione, specie se non era chiara, le carte avevano la risposta.

Questo mazzo è stato tramandato di generazione in generazione, e ora è giusto che raggiunga la sua ultima proprietaria. Impregnato dell'energia di Elizabeta, potrebbe connettere Ratri alle sue origini e magari creare un legame profondo anche con me.

Purtroppo dovrò attendere l'indomani, Ratri è nelle braccia di Morfeo. La notte è lunga per chi, come me, non gode del privilegio di un sonno che aiuta a impiegare il tempo che trascorre tra un dì e l'altro.

Quel che posso fare è cercare di trovare qualcosa che mi tenga impegnata la mente.

Perciò, accendo i lumi sui candelabri e prego per l'anima del mio amore perduto.

Non sono più certo esista un Dio, io che l'ho ingannato, pur tuttavia, nacqui in un'epoca e in un popolo molto credente. La religione era importante e, credere, era una speranza di una vita eterna dopo la morte.

Esilarante quanto per me questo sia avvenuto a prescindere, ma non per la promessa di un Dio, ma per il dono - o condanna - di un demone che mi ha reso identico a lui.

Se quel Dio esistesse davvero, allora la mia anima sarebbe due volte dannata.

E non mi dispiace per niente.

Tre piccoli tocchi contro la porta, un bussare intimidito. Il timore non è certo il sentimento che vorrei suscitare a colei che attende un mio invito a entrare.

«Vieni pure, Ratri.»

Le ho chiesto se aveva piacere a prendere una tazza di tè caldo insieme a me. Ha esitato, forse l'ultima volta non sono stato troppo amichevole, ma le illazioni e le accuse poste a me e ai miei fratelli, non le avevo tollerate, specie perché derivavano da bieche conversazioni con chi, di questa storia, sa ben poco.

Io stesso non ne conosco i dettagli. Veicht è rimasto in uno stato catatonico per mesi e quando è riuscito a uscirne, nessuno ha voluto indagare per timore che la sua mente, già indebolita dell'accaduto, né risentisse ulteriormente.

La sola cosa di cui sono certo è che quel rapporto fosse... malato.

Mi desto dai pensieri appena la figura della ragazza fa capolino nello lo studio.

Le faccio cenno di accomodarsi dove desidera e prende posto in una delle due poltrone di fronte al caminetto. Sul tavolino che le separa ho posto il mazzo di carte in bella vista e, non appena me ne darà occasione, accennerò a esso.

Le spalle dritte e rigide, gli occhi puntati sul fuoco che scoppietta al di là del vetro. Si tortura le mani e la sua gamba sinistra non la smette di muoversi in quel fastidioso tremolio traballante. È nervosa e tesa, ciò mi rende più arduo il raggiungimento dell'obbiettivo.

Le verso il tè, anche se sarebbe più opportuna una camomilla, e le porgo la tazza riservandole un sorriso s'incoraggianento.

«Allora, Ratri, non ho più avuto modo di conferire con te. Come sta andando con il gruppo di musicisti?»

Credo sia l'argomento che più le sta a cuore, indi per cui potrebbe aiutarmi a sciogliere il ghiaccio.
Tuttavia, ottengo l'effetto contrario: il sangue le fa una rapida ascesa fino alle guance e alla testa. Si agita sul posto irrigidendosi ancora di più.

Che ho detto?

«Se ti stai chiedendo se hanno ancora parlato di voi, la risposta è no.»

Ah... ecco qual è il problema...

Prima che io possa chiarirle che non era mia intenzione riaprire l'argomento, prende di nuovo la parola.

«Colgo l'occasione per rinnovarti le scuse, ma ero ubriaca e mi spiace aver detto quelle cose, ma ci tengo a chiarire che non credo alle chiacchiere e poi mi sono abbondantemente scusata con Veicht e...»
«Ratri, quietati, per cortesia.»

La fermo e le faccio cenno di prendere un respiro.

«Non è per questo che ti ho chiesto del tuo lavoro, voglio davvero sapere come ti trovi...»

Resta interdetta e abbassa gli occhi. È imbarazzo quello che le leggo sul volto. Sono mortificato, non era certo questo quello che volevo ottenere.

«Io... mi trovo bene... » affermazione monotona come di chi si chiede "cosa ci faccio qui?". Devo trovare la maniera di metterla a sul agio, altrimenti resterà una conversazione priva di senso.

«Uhm, e come stanno Pedro e Francesca?»

Sorrido al ricordo di come lui mi abbia definito "un demerino". Non gliene faccio una colpa, nonostante la stizza provata quel giorno. Ma ancora di più sorrido al ricordo della ragazza con gli occhi intristiti.

Evito di soffermarmi troppo su di lei, per riportare l'attenzione su Ratri. Tuttavia, un lampo le attraversa lo sguardo, un luccichio strano che non comprendo e mi lascia perplesso. L'angolo della sua bocca si alza e le conferisce un'espressione furbesca.

«Tutto bene?» le domando incuriosito. Lei accenna un sì chinando lieve il capo, ma si morde il labbro. So che vorrebbe dire qualcosa, ma per qualche motivo tace. In momenti come questo vorrei utilizzare i poteri senza farmi troppi scrupoli, ma desisto.

Poi, finalmente, qualcosa dice:
«Pedro credo stia bene. Francesca, invece... non sta passando un bel momento.»

Lo sguardo le muta in preoccupato e costernato e io, spinto dalla curiosità, le domando di più su quella ragazza.

Lei sembra rilassarsi e racconta tutto quello che sa senza risparmiare i dettagli dolorosi.

L'argomento prole per me è un punto debole, mi viene difficile esprimere un'opinione, poiché non sono stato il migliore dei genitori. Ma per quella ragazza provo un profondo dispiacere.

«Me ne dispiaccio, ma forse, e ti prego di prendere le mie parole come una pura opinione, è meglio così. Una coppia come la loro è evidente non fosse solida o improntata agli stessi obbiettivi di vita. Un figlio è impegnativo, ed è per sempre» per l'eternità «non è bene metterlo al mondo, se poi non si è pronti a prendersene cura. Vivrebbe un'esistenza infelice, non sentendosi amato.» Quanto ti ho amato Nae...

Ratri annuisce, prende un sorso di tè e di nuovo le spunta quel sorriso mellifuo che comincia a infastidirmi.

«Mh, hai ragione, credo che lei e Mark non fossero fatti per stare insieme. Francesca ha bisogno di qualcuno che la capisca, qualcuno di profondo e che sappia prendersi le sue responsabilità. Insomma, di un uomo fatto e finito.»

Il discorso ha senso logico, se non fosse che ha un non so che di lezioso. Negli anni ho imparato che le sensazioni sono certezze e, da vampiro, sentire un brivido sulla pelle non è mai un buon segno.

Cosa mi nascondi? Cosa vuoi dirmi?

«Certo, sì, hai pienamen...»
«Sono tue?»

M'interrompe lasciandomi interdetto. Indica con lo sguardo le carte sul tavolino.

Eccellente!

«Sì, ogni tanto mi piace utilizzarle più per mero diletto che vera e propria vocazione.» mento, ma è necessario. Quelle carte lì non hanno senso e io davvero non so leggerci il futuro, anche se ammetto di averci provato svariate volte, ma non ho quel dono né l'ho mai acquisito.

«Posso vederlo?» Chiede entusiasta.

Annuisco, cercando di contenere il mio di entusiasmo.

Credo proprio ne sia attratta: le tocca, le guarda con attenzione e poi inizia a mischiale. Indica poi la mia scrivania.

«Posso provare a farti le carte?»

A me?

Ciao a tutti, come state?

Ragazzuoli ci fermiamo qui xD sto capitolo sta diventando lunghissimo, ma nonno Mic ha parecchio da dire e rischiavo il linciaggio per la lunghezza.

Allora, abbiamo capito che Michey è ancora un po' ossessionato da Elizabeta, tanto da averle fatto una sorta di altare commemorativo. Se vi state chiedendo (chiedetevelo) come si collocherà Francesca in tutto sto bordello di emozioni la risposta è solo una: mi odierete tantissimo xD

Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto con un commento e una stellina, e noi ci vediamo prestissimo con la terza e, giuro, ultima parte.

Besitosss

Hell♡

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