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1 - Casa dolce casa




Roma, 13 luglio 2016

L'autostrada corre veloce da ore, come il tempo e come il vento.

Alberti, un funzionario della polizia di Stato, colonnello dei servizi segreti, continua a fissare la strada e il navigatore, suda e si lamenta da mezz'ora dei trenta gradi centigradi e dell'afa e del solleone e dell'estate in generale.

«Io detesto l'estate» si giustifica, mostrando il fazzoletto intriso di sudore, in un gesto d'imbarazzo. «Mi sono comprato una piccola baita in montagna, ... in Trentino... ci vado appena ho un attimo, bé... perché preferisco le alture... sai... non sopporto il caldo...»

«Dopo l'incidente mi hanno estratto ottantasei schegge di vetro» spiega Anna, ignorando la sua dichiarazione, «settantadue micro tagli, ma nessuno era profondo.»

Alberti sbuffa accaldato: «Non ho capito, li hai contati?» poi ci ripensa e aggiunge allegro, «Bé, lo so che ti piace contare. Ho letto sul tuo fascicolo che a maggio sei entrata nell'albo nazionale delle eccellenze del Ministero dell'istruzione,» tampona la fronte con un fazzoletto di stoffa, «ti hanno dato una medaglia, complimenti».

Anna sorride in silenzio.

«Perché la matematica?» domanda poi, con curiosità.

«Perché è una certezza.»

«Una certezza?»

«Io credo nei numeri» Anna lo guarda di lato, sprezzante. «Il resto è caos.»

«Vuoi dire che l'unica vera certezza sono i numeri? Che un'equazione può risolvere tutto?»

«Non tutto. Anche la morte è una certezza» lo incalza, «ed è un'equazione irrisolvibile».

«Come del resto... l'amore», replica Alberti.

Tra cento metri sarete arrivati a destinazione, dichiara il navigatore.

La volante rallenta davanti a un cartello con la scritta masticata e mezza cancellata "BENVENUTI AL QUADRILATERO, Roma Est", e appena sotto al saluto ufficiale, con lo spray bianco c'è disegnato un cazzo e accanto c'è scritto: succhiamelo.

Il funzionario lo sta leggendo con l'espressione rassegnata.

Ingrana la prima e riparte col motore che singhiozza.

«Senti, Anna, se non ti trovi bene qui, chiami l'avvocato e troviamo una soluzione, puoi tornare a Lugano, se vuoi, hai capito? Non sei costretta. Hai capito?»

È la terza volta che le dice così. Cosa mai può aspettarla di tanto terribile da spingere persino lo sconosciuto e paffuto dottor Alberti, funzionario dei servizi, a provare ansia per la sua sorte? Sta solo andando a vivere dallo zio. Tra l'altro uno zio che l'ha accettata in famiglia senza neanche conoscerla.

La volante si ferma al lato del marciapiede che costeggia un muraglione imponente, ingoiato dai graffiti. Alcuni sono delle vere opere d'arte: mani che s'intrecciano, occhi che osservano, un Charlie Chaplin che raccoglie un fiore e nella sequenza successiva lo infila nel cilindro, un Jim Morrison che spalanca le braccia come volesse avvolgere il mondo, persino una Raffaella Carrà in una posa danzante che sorride al suo pubblico e sulla vignetta afferma A far l'amore comincia tu; versi di poesie di Trilussa o canti di Dante tratti dall'Inferno, diabolici e crudeli, perversi e privi di speranza. La colpisce un verso che non sa da dove venga, li ha riconosciuti tutti tranne questo: "Quando dei vizi la bufera offuscava ogni sentiero, tu m'apparisti, Dea.". Anna si attarda a fissare il verso, si sforza di collegarlo a un poeta ma poi conclude che potrebbe trattarsi di una traduzione e risalire alla fonte richiederebbe una ricerca.

L'autopattuglia riprende il suo cammino e sulla facciata, poco prima di infilarsi nel Quadrilatero, proprio sull'ultima porzione di muro, sfilano orrende bestemmie e corpi intrecciati che fanno il verso al Kamasutra.

«Stammi a sentire, Anna» Alberti ci riprova, «la prossima settimana prendi contatto con avvocato e notaio per l'eredità, se ti trovi bene tuo zio fa da tutore legale e gestisce il patrimonio fino a che non compi ventuno anni, se ti trovi male si cerca una soluzione. Ma non devi, ascoltami bene, non devi per nessun motivo affidargli la tua tutela se lui non ti piace. Hai capito? Se qualcosa non va, tu devi... cosa stai fissando?»

Anna fa un lungo respiro e smette di contare le posizioni del Kamasutra in fila sul muro.

Non appena aggirate le mura, lei e il funzionario entrano ufficialmente nel Quadrilatero, circondato di palazzi altissimi e pieni di finestre e di panni stesi, con un cortile diviso a metà da una fontana senz'acqua fatta di pietra sbriciolata. Insomma, qui gli abitanti parrebbero imprigionati in un grande cubo di cemento senza coperchio.

L'auto avanza piano all'interno dell'area, schiaccia ghiaia, procede in seconda, col lampeggiante che brilla silenzioso, e appena sopraggiunge, intorno alle portiere un gruppo di ragazzini sferra colpi sulla carrozzeria, lanciano sassi contro i fanali che finiscono per rimbalzare sul cofano, ridono e fischiano tra loro.

«Zingari maledetti» dice il funzionario.

È costretto a sterzare per evitare di investirne due, i più accaniti, quelli che tendono mazzafionde che però non sparano.

«Perché fanno così?» chiede Anna, «non gli piacciono gli estranei?».

«Non gli piace la polizia» dice.

Alberti parcheggia, spegne radio, navigatore e luci di posizione, slaccia la cinta e smonta rapido dall'abitacolo. Fa il giro e ha la mano alla fondina, pronto a impugnare un'arma e a comportarsi come un pistolero.

Anna lo osserva interdetta nello specchietto laterale. Le apre lo sportello e le fa cenno di scendere. Si guarda intorno con fare circospetto. Una guardia del corpo in piena regola.

Alberti cala una mano sulla sua spalla e la scorta sotto a un porticato lungo, fino a un portone di metallo dorato col citofono annerito e pieno zeppo di cognomi.

«Sei mai stata qui? Lo conosci già tuo zio?» chiede piano, osservando la strada.

Anna ha già spiegato al chirurgo, allo specialista, alla psicologa e all'assistente sociale che lei è cresciuta a Lugano, che non ha mai conosciuto la famiglia da parte di sua madre e che, di Roma, ha visto solo il Colosseo una domenica dell'anno prima.

«No» si limita a rispondere.

Il funzionario le parla con fare cospiratorio, mentre le sue pupille guizzano intorno come biglie in allerta: «Qui è il Bronx, mi capisci? Qualsiasi cosa, dico qualsiasi, che ti sembra strana, tu mi chiami e io vengo, o mando qualcuno, hai capito?».

Anna scuote la testa divertita: «Il Bronx è un distretto di New York. Questo è solo un quartiere popolare nella periferia est di Roma».

Alberti resta appeso in una smorfia d'incredulità, poi sbuffa: «È un modo di dire, significa che qui le cose non sono come in Svizzera, capito? Cioè con la Svizzera non c'entrano proprio niente, neanche per sbaglio o di striscio, mi hai capito?»

Per la prima volta Anna ride.

«Dico sul serio, Anna. Questi qua, altro che Olimpiadi di matematica,» preme il tasto con su scritto a penna CARAZZOLI, «questi non sanno nemmeno contarsi le dita delle mani» continua a sbuffare col fazzoletto sulla fronte, e resta in attesa.

Un suono lungo e vibrante produce lo scatto automatico del portone che si apre. Il funzionario si spazientisce e suona un'altra volta, più a lungo, con insistenza.

Eh, che c'è?, una voce maschile, roca e cavernosa echeggia da lontano.

Il funzionario fa qualche passo indietro e alza la testa verso uno dei balconi.

«Se mi dice il piano, per favore!» urla.

Il citofono non si sente, è il quinto!, replica la voce.

Una volta nell'androne, Alberti osserva l'ascensore venire giù, nuovo di zecca e funzionante gli si legge sulle labbra.

«Non ci posso credere» ora parla a lei, «già m'immaginavo cinque piani a piedi e scale piene di tossici, e invece questi c'hanno l'ascensore che pare Star Trek».

L'ascensore emana profumo di lavanda per i pavimenti e di deodorante per ambiente alle rose, una fragranza talmente potente da nauseare, come avessero svuotato insieme e in fretta un intero flacone in un minuto.

Durante la salita Alberti armeggia con un blocchetto e una penna, scrive qualcosa, strappa il foglietto e lo passa a lei.

«Anna, qui c'è il mio numero di cellulare. Non memorizzarlo sul tuo, sai qui i cellulari si possono perdere e le rubriche si possono cancellare, non so se mi spiego, conserva questo pezzo di carta e usalo se ti senti in pericolo, cioè... a disagio. Mi hai... mi hai capito?»

Anna legge di sfuggita. «Va bene» e poi restituisce il pezzo di carta al funzionario.

«Che fai, me lo ridai?»

«L'ho memorizzato.»

Gli vede l'ugola fare su e giù, poi c'è uno sbalzo, l'ascensore si blocca con un tonfo sordo, sono arrivati al quinto.

Fanno un passo sincronico sul pianerottolo e insieme si fermano a fissare l'unica porta blindata socchiusa. Subito sono travolti dalle note di una ballata latina che suona Dale a tu cuerpo alegría Macarena, Que tu cuerpo es pa' darle, alegría cosa buena, Dale a tu cuerpo alegría, Macarena, Hey Macarena, mentre nell'aria c'è odore di ragù di carne. Lo zerbino è nuovissimo, sopra c'è disegnato un gatto accovacciato accanto a una piccola casetta col tetto rosso e spiovente con su scritto: Casa Dolce Casa.

Il funzionario suda e borbotta: «Si sono dati da fare, i banditi, per sembrare normali» e si piazza davanti a lei per farle da scudo.

Anna lo osserva corrucciata: «Banditi?».

In quel momento compare sulla soglia un uomo sulla cinquantina, enorme, o almeno lo è la sua sagoma controluce, fa un passo avanti e spalanca la porta. Indossa una camicia abbottonata fino all'ugola ma la stoffa deformata dalla pancia prominente tira, e i bottoni sembrano sul punto di saltare, come se avesse sbagliato la taglia; la barba è lunga e folta e brizzolata, e porta un orecchino vistoso al lobo sinistro, una croce d'oro.

«Non vi vedevo entrare, era aperto. Accomodatevi» volta lo sguardo intorno. «Ma la bambina dov'è?»

Anna sbuca oltre la spalla del funzionario e fa un sorriso.

Lo zio enorme trasale, la osserva da sotto a sopra con occhi spalancati e bocca semiaperta, chissà, forse se l'aspettava lattante.

Gli occhi di Anna si attardano sul sopracciglio.

«Abbiamo la cicatrice nello stesso punto, zio.»

Insieme e d'istinto si sfiorano la ferita.

Il funzionario sembra infastidito dall'intesa tra loro, e si mette di nuovo davanti a lei, porge la mano all'uomo e parla risoluto: «Signor Carazzoli, buongiorno. Questa è sua nipote Anna Frey, come sa è cresciuta in Svizzera, ha abitudini diverse dalle vostre, e se ha un minuto le vorrei parlare in privato.»

Abitudini diverse dalle vostre lo ha pronunciato come un monito, scandendo le parole, e Anna inizia a credere che il funzionario, più che ansioso, sia paranoico.

Lo zio enorme piega la testa di lato per far entrare lei nell'inquadratura, nonostante la stazza del funzionario la impalli.

«Tanto piacere di conoscerti, bambina... no, bé... ragazza. Io sono tuo, sono tuo zio Romano. Non nel senso che sono di Roma, nel senso che mi chiamo Romano. E sono pure di Roma.»

Anna sorride, è davvero buffo quest'uomo.

Poi lo zio fa strada a tempo di musica, improvvisa qualche passo di danza ancheggiando sui chili di troppo e mimando con le braccia uno sbatter d'ali ora a destra ora a sinistra sulla Macarena, fino a raggiungere un salone pieno di vasi che traboccano margherite, un mare di margherite bianche, rosa e gialle.

Il funzionario storce subito la bocca. «Cos'è, un vivaio?»

Lo zio enorme fa un colpo di tosse: «Profumano l'ambiente».

«O nascondono la puzza.»

«Mettiamoci in balcone» replica lo zio. Poi si rivolge a lei: «Siediti pure, bam... ragazza, noi torniamo subito».

Lo zio parla come uno che non conosce l'italiano e lo parla lentamente, scandendo le parole. Oppure pensa che sia lei a non conoscere la lingua, forse dovrebbe spiegargli che Lugano è la Svizzera italiana.

Anna li osserva dirigersi verso la portafinestra, si infilano per metà e restano di fuori, impossibile ascoltare cosa dicono, bisogna leggere il labiale.

Il funzionario è in una buona posizione, il viso si vede bene. Sta dicendo: prima di firmare i documenti, facciamo una settimana di prova, per vedere se andate d'accordo.

Lo zio enorme invece ha la mano poggiata sulla ringhiera e il suo profilo non le permette una corretta interpretazione della risposta, dovrebbe essere: senta, commissario, la bambina si troverà bene, noi siamo brave persone.

Il funzionario però affila lo sguardo e si avvicina alla faccia dello zio e stavolta è impossibile leggere cosa risponde. Dopo va indietro e torna visibile per aggiungere l'unica parte del discorso che Anna riesce a cogliere: anche perché ci sono norme di comportamento da seguire quando si prende in affido qualcuno. Il caos, il disordine, la polvere, la musica troppo alta e il vivaio sono già un ambiente ostile. E c'è un'altra cosa che deve sapere su Anna, prende e si volta impedendole la visuale. Il funzionario lo sa che lei legge il labiale, lo ha senz'altro fatto apposta.

La Macarena s'interrompe di colpo, e una voce giovane e maschile rimbomba dal corridoio: «Ma 'sta canzone demmerda chi l'ha messa, oh?».

Anna fa istintivamente un passo indietro e vede comparire in salone un ragazzo secco e lungo, jeans strappati e capelli alti sulla fronte come uno che ha preso la scossa.

«Ma 'sta puzza de prato fiorito?» Osserva le margherite come non le avesse mai viste in casa propria, e poi si accorge di lei, che sta ferma in mezzo al salone.

Si studiano muti per qualche istante, e Anna è pronta a giurare che il ragazzo abbia perso colore, poi come un disco riparte e si avvicina.

«Ah, scusami» scandisce anche lui le parole come se parlasse a una straniera, «non lo sapevo che eri già arrivata. Io sono tuo cugino Luca, tanto piacere.» Le porge una mano disegnata, piena di inchiostro e di anelli d'argento.

Anna fissa la mano e non la stringe, la sua mente si è distratta, sta elaborando le squame di drago che riempiono il dorso e corrono tra il polso e l'avambraccio a disegnare una coda lunga che però svanisce nella manica della maglietta con la scritta Che Guevara.

«Io sono tuo cugino» scandisce ancora.

Anna scatta sulla faccia di Luca: pallida e scavata, ha occhi cerchiati e violacei come uno molto stanco che forse soffre d'insonnia.

«Io mi chiamo Anna, Frey, Anna Frey. Ciao.»

Luca la squadra come dovesse prenderle le misure, viaggiando con le pupille avanti e indietro sul suo corpo.

«Ti giuro che non riesco a capire quanti anni c'hai.»

«Diciassette anni, dieci mesi e tre giorni.»

Luca alza il sopracciglio destro e tira le somme.

«Io ventuno. Quindi sei venuta a vivere qui con noi, Anna?»

La sua voce viene fuori perentoria: «Sì, perché mia madre, tua zia, è morta. E pure mio padre, tuo zio.» Ha scandito anche lei le parole, tanto per recitare la parte della straniera.

L'informazione non sortisce nessun effetto drammatico su Luca suo cugino di ventuno anni, non le ha fatto nemmeno le condoglianze.

«Non li conoscevo, ma tu sei veramente molto, come dire, molto, ecco, molto allucinante.»

Allucinante?

«Vieni in cucina, ti faccio conoscere Rosario e Laura» aggiunge.

Luca, Rosaio e Laura sono i figli del fratello di sua mamma, tutti più o meno ventenni, lo sa.

L'odore di ragù diventa più potente non appena raggiungono la soglia di una cucina lunga e stretta col tavolo e le sedie addossate alla parete e un lavandino in ceramica bianca. Dalla pentola d'acciaio sul gas acceso proviene fumo, e si percepisce un sottile odore di bruciato.

«Devi abbassare la fiamma del sugo» dice a Luca.

Lui la ignora e va verso la portafinestra che accede a un balcone e chiama i suoi fratelli che spuntano dalla portafinestra in una nuvola di fumo denso e nauseante.

La salutano da lì, infilati tra le ante di vetro col braccio proteso di fuori per non far entrare il fumo che aspirano. Sono vestiti come il fratello, magliette di cotone e jeans strappati, solo che Rosario è scalzo e Laura ha le infradito. La fissano storditi, sconvolti come avessero visto un mutaforma materializzato tra il lavandino e i pensili; eppure sapevano che sarebbe arrivata. Forse è un'altra la ragione per cui non la smettono di squadrarla stupiti?

«Vostra madre non c'è? Cioè, mia zia Iolanda» chiede Anna.

I tre si guardano come se la domanda fosse assurda.

Poi scattano dritti come soldati, e con occhi sbarrati e mani nascoste dietro la schiena fissano un punto alle spalle di Anna.

Il funzionario le è comparso dietro, accompagnato dallo zio. «Vieni, Anna, andiamo a recuperare il tuo bagaglio giù in auto.» Alza lo sguardo e lo punta sui suoi cugini. «Uso personale, spero. Non serve che controlli, giusto?»

Luca alza le mani: «Che scherza, capo? Giusto un tocchetto de maria pe' 'na rollata».

Lo zio enorme tuona dalla porta: «Luca e Rosario, andate con loro e aiutateli».

«Non serve» replica il funzionario. «Ha solo un trolley.»

Lo zio aggrotta la fronte. «Come? Uno solo?»

Alberti mostra un ghigno di sfida: «Gliel'ho detto, Carazzoli, intanto è una settimana, poi vediamo.»

⸸⸸⸸

Di sotto, il funzionario spalanca il portabagagli e tira fuori il suo trolley rosso e rigido, lo mette a terra e con l'occhio destro osserva in alto, in direzione del balcone dello zio, poi si nasconde dietro al portellone spalancato.

«Una settimana. Poi mi chiami e mi racconti che succede. Chiaro?»

«Fate sempre così con le famiglie affidatarie?» s'informa Anna.

Il funzionario la guarda pietoso. «No, mai. Sei un'eccezione». Si carica il trolley e marcia verso il portone.

«Perché io sarei un'eccezione?» nel vano ascensore Anna lo fissa di lato.

Il funzionario fa un sospiro potente e pare che adesso voglia vuotare il sacco. «Sai, io non ero d'accordo col giudice, per me dovevi essere affidata al fratello di tuo padre, quello che vive a Ginevra, non a questi qui.»

Anna elabora rapidamente e ripete a memoria quello che ha saputo.

«Uberto Fray ha solo trent'anni ed è single, è un broker molto impegnato e non poteva occuparsi di me. E poi lo conosco appena.»

«Non conosci neanche loro, se è per questo.»

Anna abbassa il mento. «Loro almeno sono una famiglia.»

Gli vede fare un mezzo ghigno rassegnato e rinuncia a capire perché i Carazzoli non gli vadano a genio.

⸸⸸⸸

Dopo i saluti e i convenevoli, e le raccomandazioni e le occhiate losche tra il funzionario e suo zio, quando la volante lascia il Quadrilatero sotto lo sguardo attento dell'intera famiglia affacciata al balcone, Anna viene invitata a sedere a tavola, la pasta col ragù è pronta. La cosa che la lascia interdetta è notare come i tre fratelli tra il lavello e il tavolo si osservino stralunati come tre ospiti.

Luca indica il posto al muro a suo fratello.

«Rosario, vai, mettiti al tuo solito posto.»

Rosario appare confuso e si mette a sedere e impugna la forchetta e conferma: «E certo, questo è il posto mio».

Laura sposta una sedia, a capotavola, e fa per sedersi, ma Luca la guarda male. «Che fai, Laura, ti siedi al posto di papà?»

«Ah, no, certo», e va a posizionarsi di fianco a Rosario.

Anna e Luca si siedono di fronte, e lo zio mette in tavola i bucatini e li serve una forchettata alla volta chiedendo scusa di continuo per paura di schizzare loro il sugo sui vestiti; per Anna è evidente che suo zio non abbia mai servito in tavola, sta usando una semplice posata per prendere la pasta e afferra tre fili per volta.

«La zia Iolanda non pranza con noi?» chiede loro a bruciapelo.

Dopotutto manca un tassello alla famiglia e Anna non ha capito dove si trovi. La domanda ha creato tensione, si avverte.

«Lavora», risponde Luca.

E il discorso cade.

⸸⸸⸸

Più tardi Laura la scorta fino a uno stanzino senza finestra con una branda e un comodino, sarà tre metri per due.

«Tu dormi qua» le dice.

Anna avverte immediatamente un conato, il posto è troppo stretto e senz'aria e c'è molta polvere, ma resiste e tace. Appoggia il trolley accanto alla porta e chiede delle lenzuola. 

Laura si fa attendere sette minuti, poi sbuca dal corridoio con lenzuola e coperte ripiegate che sanno di inamidato, appena scartate e mai lavate. Si appoggia allo stipite e si mette a braccia conserte a fissarla. «Glielo hai detto alle tue amiche che venivi a vivere a Roma? Tu sei svizzera, no?».

Anna fissa una porzione di muro, calcestruzzo, chiazze di umidità negli anfratti.

«Canton Ticino. Non ho amiche. Tu lo sai che i miei sono morti? Erano i tuoi zii.»

Laura si acciglia.

«Certo che lo so, proprio una sfiga assurda. Ma che vuol dire che non hai amiche? Saranno tutte invidiose di te, poco ma sicuro. E il ragazzo ce l'hai?» le fissa le gambe e il seno, «Cioè, quanti ce n'hai di ragazzi?».

Proprio una sfiga assurda?

Anna avverte una rabbia salirle dalle viscere fino in gola, si mette in piedi e le arriva davanti alla faccia, costringendo Laura a spostarsi all'indietro e a finire fuori dallo stanzino.

«Tu lo sai quante margherite ci sono in salone?» chiede in mezzo al corridoio.

Laura scuote la testa spaesata. «No, che significa?»

«Sono cinquantaquattro. Sette sono gialle, ventuno sono bianche e ventisei sono rosa.»

Fa dietrofront e si infila nello stanzino, chiudendo la porta. Si siede sul bordo del letto, le mani sulle ginocchia, a fissare il muro. Il silenzio si impadronisce di lei. Il tempo si ferma e diventa cemento. Nella testa si scandisce il brano di Joe Cocker che le cantava sempre suo papà quando lei era triste come adesso, o forse triste come adesso non lo è mai stata. In falsetto, con la voce appena sussurrata intona a occhi chiusi: «You are so beautiful, to me. You are so beautiful, to me. Can't you see, you're everything, I hoped for you are everything I need ... You re so beautiful... to me

https://youtu.be/9rmGcE6m3KI

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