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Capitolo 8

Fissai mio padre per una ventina di secondi, provando a digerire ciò che mi aveva appena detto. Lui, al contrario mio, non rimase fermo al suo posto e finì di raccattare dei fascicoli che aveva lasciato sparsi sul tavolo del secondo salone.

<<No>> riuscii a dire riscuotendomi dallo stato confusionario in cui ero finito. Inizialmente mi ero convinto di aver sentito male a causa del sonno che ancora mi annebbiava la mente.

Mio padre smise finalmente di fare ciò che stava facendo e si fermò a guardarmi. La colazione mi si stava freddando sul piatto, ma improvvisamente l'appetito mi era svanito.

<<Non essere irragionevole, Ethan>> ribatté dileguando la mia negazione con un'alzata degli occhi verso il soffitto. <<Lascia fare a me. Tu pensa ai tuoi A-levels e al calcio>>

Sentii una stretta allo stomaco. Non ero mia madre e non ero nemmeno Andrew, non sarei stato seduto a osservarlo mentre prendeva le decisioni al posto mio.

Charles osservava la nostra conversazione in silenzio, sulla soglia della stanza, mentre aspettava che mio padre lo seguisse alla macchina in modo che lo potesse accompagnare a lavoro.

<<Ho fatto richiesta a Cambridge solo perché lo volevate te e mamma>> insistei, sentendo la mia voce indurirsi. <<Non sono entrato. Non ho intenzione di andarci solo perché qualche tuo amico è riuscito a convincerli ad accettarmi>>

A quanto pareva la sera prima mio padre si era concentrato più sul trovare un metodo per farmi entrare all'università dei suoi sogni che a festeggiare il proprio anniversario di matrimonio. Ero lieto che quell'argomento fosse uscito quella mattina e non alla festa, dove altrimenti avrei fatto la figura del figlio ingrato.

Quando era entrato a salutarmi mentre facevo colazione pensavo mi avrebbe solo dato il buongiorno, invece mi aveva detto che c'era la possibilità che il signor Cartson riuscisse a far rivalutare al rettore dell'università la sua scelta.

<<Non essere sciocco>> rispose mio padre con una piccola risata. <<La commissione ha semplicemente preso una decisione sbagliata riguardo al tuo conto, hai tutte le capacità di studiare a Cambridge>>

Serrai i denti provando a mantenere la calma, sapendo che lui credeva fermamente che le sue azioni fossero giuste. <<Lo so di avere le capacità di studiarci, ma non voglio>>

Solo a quel punto lo sguardo di mio padre divenne serio. Lanciai un'occhiata a Charles, che distolse immediatamente lo sguardo dal mio fingendosi impegnato a pensare ad altro.

<<Devo andare a lavoro, Ethan>> concluse l'uomo davanti a me. <<Non prendere decisioni affrettate di cui ti pentirai. Ne riparliamo stasera a cena>>

<<Non ci sono stasera, ho la cena con la squadra>> lo corressi. Mi alzai, lasciando le uova ormai fredde sul piatto. <<E non è una decisione affrettata. Sono stato preso ad Oxford, andrò lì>>

Lo vidi inspirare di scatto e non riuscii a non distogliere lo sguardo dal suo.

<<Steven non abbiamo tutta la mattina>> esclamò mia madre infastidita entrando nella sala tenendo Camille per un polso. <<Nostra figlia deve arrivare all'asilo e io ho un meeting tra un'ora. Se tra due minuti non sei pronto dovrai fare a meno di Charles>>

Mio padre parlò senza smettere di fissarmi. <<Se riesci a convincere tuo figlio a smettere di dire stronzate sono pronto per andare, Victoria>>

Lo sguardo di mia madre si spostò su di me e vidi l'esasperazione nel suo sguardo: non sopportava vederci litigare.

<<Non mi stai ascoltando>> ribattei sforzandomi di mantenere un tono di voce moderato davanti a Camille. <<Qualsiasi altro genitore sulla faccia della terra sarebbe contento di sapere che il figlio andrà ad Oxford, è una delle università migliori che esistano>>

<<Qualsiasi altro genitore sulla faccia della terra non ha passato gli ultimi diciassette anni e mezzo a lavorare senza tregua per assicurarti la vita migliore che tu possa avere!>> gridò in risposta, non facendo la mia stessa considerazione sul non alzare la voce davanti a sua figlia.

Spostai lo sguardo sulla donna vestita di tutto punto e dai capelli corvini che osservava la scena con aria di disappunto. Presi un respiro profondo e tornai a guardare mio padre, sapendo che le mie prossime parole lo avrebbero fatto andare su tutte le furie. <<Ciò non cambia il fatto che andrò lì. Ho spedito la mail di conferma ieri mattina>>

L'unico suono all'interno della sala per i successivi istanti fu Charles che comunicava l'orario.

<<Ora basta, voi due>> intervenne mia madre prima che il marito potesse ribattere. <<Ne discuteremo più tardi>>

Mio padre non profilò parola, mi lanciò un'ultima occhiata delusa e uscì dalla sala, seguito dall'autista.

Mia madre si trattenne qualche altro momento, voltandosi a guardarmi con aria di rimprovero. <<Quando imparerai a non provocarlo?>>

I miei polmoni si svuotarono immediatamente dell'aria che contenevano, mentre il mio viso assumeva un'espressione sorpresa. <<Ma...>>

<<Lo so>> mi interruppe. <<Ci parlerò in macchina. Ma ultimamente stai rendendo l'impresa di mantenere la pace in questa casa molto complessa, Ethan>>

Detto questo, uscì trascinandosi dietro la figlia e lasciandomi solo davanti a una colazione fredda che ormai aveva perso il suo fascino.

Sentivo la rabbia ribollirmi delle vene e mi ritrovai a stringere pugni e denti ritmicamente. Il mio sguardo era diventato leggermente offuscato, ma battei velocemente le palpebre e scacciai ogni inizio di lacrime di frustrazione si fosse formato nei miei occhi.

Non era mai stata mia intenzione litigare costantemente con mio padre. Che ci credesse o no, non mi alzavo la mattina con l'obiettivo di innervosirlo. Ma rendeva tutto una battaglia, fin da quando avevo memoria. Nulla era mai abbastanza per lui, c'era sempre qualcosa che sbagliavo.

Mi accorsi si star stringendo lo schienale della sedia solo quando sentii il legno sotto alle unghie corte e mi forzai a lasciare andare l'oggetto. Afferrai lo zaino che avevo poggiato sul pavimento, presi le chiavi della macchina e mi diressi verso il garage.

Dei sei parcheggi, solo cinque erano occupati. Superai la mia vecchia macchina su cui sia io che mio fratello avevamo fatto pratica alla guida e salii sulla BMW blu notte che avevo ricevuto a dicembre per il mio compleanno.

Quando accesi il motore non mi soffermai a ragionare e invece di andare a Est, verso scuola, andai a Sud. Per tutto il tragitto in macchina continuai a serrare i denti e a ripetermi nella testa tutte le frasi che avrei potuto dire a mio padre ma che non avevo detto. Era tanto dura per lui vedere il figlio frequentare una delle migliori università del mondo solo perché non faceva parte del suo piano? Era troppo pretendere che fosse fiero di me una volta tanto?

Quando raggiunsi Green Park non provai nemmeno ad andare nel mio punto preferito dell'intero parco, vicino a Wellington Arch, sapendo che a quell'ora sarebbe stato pieno di turisti. L'unico momento in cui avrei avuto la possibilità di trovarlo vuoto era tra le cinque e le sei del mattino, ma ora erano già le otto passate.

Avevo miracolosamente trovato parcheggio dietro al Ritz e mi ero fatto strada tra la folla di Piccadilly Station fino ad arrivare all'interno del parco che ormai conoscevo come le mie tasche. Camminai per una decina di minuti prima di trovare uno spiazzo d'erba completamente vuoto, nascosto tra gli alberi. La primavera aveva colorato il parco rendendolo ancora più affascinante.

A pochi minuti a piedi c'era Hyde Park, che trovavo stupendo, ma fin da piccolo avevo sempre preferito Green Park. Mio zio mi ci portava spesso quando abitava ancora a Londra e quando ero diventato abbastanza grande da poter prendere la metro da solo avevo iniziato ad andarci ogni volta in cui avevo bisogno di stare da solo. Era il mio posto pacifico.

Lasciai cadere lo zaino sull'erba e mi stesi, poggiandoci la testa sopra. In lontananza si sentivano i rumori frenetici della città, ma erano solo una realtà distante in quel momento. Riaprii gli occhi, sentendo il cinguettare di un uccello e lo guardai zampettare a qualche passo di distanza da me. Rimasi ad osservarlo fino a quando non volò via, andandosi a poggiare sul ramo di un albero.

Presi un respiro profondo, concentrandomi sul profumo che mi circondava e provando a rilassare i muscoli e la mente.

I miei genitori sarebbero andati su tutte le furie se avessero scoperto che non ero andato a scuola, ma la consapevolezza che erano già al limite della sopportazione e che tanto valeva sfruttare quel momento per fare tutto ciò che non avrebbero approvato mi bastò per non preoccuparmene più di tanto.

Quando nel pomeriggio arrivai a casa Jonson scoprii di non essere l'unico ad aver avuto una brutta mattinata. Dopo essersi lamentata dei crampi mestruali e avermi mandato a quel paese, Elizabeth si era addormentata sul divano mentre guardava dalla televisione una playlist di tutte le vecchie canzoni di Avril Lavigne. La scelta musicale mi aveva fatto sorridere, perché Camille adorava Avril Lavigne. Quando iniziava a fare i capricci ormai avevo imparato a prendere l'album intitolato Let Go e mettere Sk8er Boi a volume massimo. Non ero particolarmente fiero di avere quel disco esposto insieme a tutti quelli dei miei artisti preferiti, ma tanto nessuno entrava mai in camera mia.

<<La bella addormentata si è svegliata>> commentai quando vidi Elizabeth muoversi sul divano facendo cadere la borsa dell'acqua calda a terra.

Poggiai un pezzo del puzzle che io e Derek stavamo facendo sul tavolino e la guardai, in attesa che il fratello tornasse dal bagno.

<<Quanto ho dormito?>> chiese con voce roca, assonnata.

<<Due orette>> risposi osservandola mentre si raddrizzava con una smorfia. <<Spero che non siamo stati noi a svegliarti. Abbiamo fatto il più piano possibile>>

Vedendola accoccolarsi nel maglione mi ricordai della felpa che Jason mi aveva dato qualche ora prima agli allenamenti di calcio. Mi alzai e andai all'entrata, recuperando il pezzo di stoffa grigio di Elizabeth.

<<Credo che questa sia tua>> dissi porgendole la felpa e serrando involontariamente i denti.

Quando Jason me l'aveva data, facendo un'osservazione che lasciava intendere che Elizabeth non l'avesse tolta innocentemente e dimenticata sul sedile posteriore della sua macchina, gli avevo dato del coglione senza mezzi termini. Non mi piaceva per niente che si stesse impicciando nella vita della ragazza di cui il suo migliore amico era innamorato perso, né tantomeno che stesse andando così velocemente con lei. Prima o poi Jake avrebbe perso le staffe e per colpa di Jason il nostro gruppetto avrebbe dovuto affrontare una crisi che non avevo la minima voglia di attraversare.

<<Sì>> confermò Elizabeth afferrando la felpa dalla mia mano. <<Perché ce l'hai tu?>>

Guardai a terra e mi sforzai di non far trapelare l'irritazione dalla mia voce: avevo già affrontato il discorso Jason Wilson con lei ed era palese che ciò la irritava. Poiché entrambi quel giorno non eravamo dell'umore migliore, non mi sembrava il caso di rincominciare a parlarne. <<Jason mi ha detto di dartela>>

Lei mi ringraziò e io tornai a sedermi a terra. Mi sforzai di non dire nulla, ma l'immagine di loro due insieme e dell'imminente litigata tra Jake e Jason continuava a tornarmi in mente. Perché diamine Wilson aveva scelto proprio lei? Mi bastavano le litigate a casa, non avevo bisogno di averle anche a scuola.

<<Cosa stai facendo Lizzy?>> chiesi prima di riuscire a trattenermi. Quella giornata andava così.

<<Scusa?>> domandò perplessa. La sua voce non era più impastata dal sonno e mi pentii di aver tirato fuori l'argomento, ma ormai era troppo tardi.

<<Con Jason>> specificai. <<Non è il ragazzo per te. Non mi fido di lui, te l'ho già detto>>

Vidi subito il nervosismo tornare nel suo sguardo e mi preparai all'imminente scontro.

<<Da quando devo avere la tua approvazione per fidanzarmi?>> domandò mentre la sua voce diventava acuta.

Sentii il pavimento cedere al suono delle sue parole. Se le cose stavano davvero come diceva lei, il danno era già fatto e non c'era modo che io potessi cambiare le cose. <<Quindi è così? Vi siete fidanzati?>>

Elizabeth abbassò lo sguardo e la vidi seguire con le dita le incavature della borsa dell'acqua calda. <<No. Stiamo solo uscendo>>

Eccola, la delusione che tutte le ragazze che frequentavano il mio compagno di squadra prima o poi provavano. Il problema era che per conquistarle ci passava il tempo insieme, dandoci il tempo di fare amicizia con la ragazza di turno, che poi veniva da noi – tendenzialmente da me e Jake – a chiederci consiglio. Avevo avuto quella conversazione e visto quello sguardo una quantità di volte tale da perdere il conto.

<<Ma ci sei andata lo stesso a letto>> l'anticipai, conoscendo ormai il copione a memoria.

Lizzy si raddrizzò immediatamente sul divano e mi guardò con così tanta rabbia che quasi sobbalzai all'indietro. <<Come prego?>>

Voleva negare l'evidenza? <<Non sono stupido Lizzy. Ieri sei tornata a casa raggiante con addosso la sua felpa e oggi lui mi ha dato la tua. Lo conosco troppo bene per credere che sia un malinteso. Perché aveva la tua felpa e perché tu indossavi la sua?>>

Mi resi conto troppo tardi di quanto accusatoria fosse suonata la mia frase.

<<Oh mio...>> iniziò spalancando gli occhi e la bocca mentre si passava una mano tra i capelli. <<E' questo che pensi di me? Che vado a letto con una persona che ho iniziato a frequentare da pochi giorni?>>

Vidi un misto di emozioni alternarsi nei suoi occhi e mi resi conto di aver fatto supposizioni sbagliate.

<<No>> mi affrettai a rispondere. <<Certo che no, Lizzy>>

Ero un idiota.

<<Allora cosa?>> chiese senza lasciar cadere l'argomento. <<Perché a me sembra proprio che tu mi abbia accusata di essere una ragazza facile>>

Avevo decisamente sbagliato ad esprimermi. Forse mia madre aveva ragione, forse davvero non ero in grado di controllare le mie parole.

<<Non lo penserei mai, lo sai>> affermai tenendo il mio sguardo nel suo sperando percepisse ciò che stavo provando a dirle. <<E' solo che so quanto Jason sia affascinante agli occhi di tutte le ragazze e so che sa essere convincente. Sono solo preoccupato per te>>

Pensavo che le mie parole l'avrebbero potuta calmare, ma ebbero l'effetto opposto.

<<Non ho bisogno che tu ti preoccupi per me!>> esclamò. Fece una piccola smorfia e si portò una mano alla pancia.

Mi arresi all'inevitabile lite. Ormai il danno era fatto, tanto valeva ricavarne il maggior numero di informazioni possibili. Lo facevo per Jake. <<Ho bisogno di saperlo, Lizzy. Cos'è successo?>>

Non pensavo fosse possibile, ma il suo sguardo divenne ancora più infuriato mentre si alzava e mi gridava contro. <<Mi ha prestato la sua felpa perché aveva il cappuccio e pioveva e mi sono dimenticata la mia in macchina!>>

Mi sentii un coglione. La frase che Jason mi aveva detto dandomi la felpa però continuava a tornarmi in mente: Avevamo di meglio a cui pensare, se capisci cosa intendo. La felpa ci è passata di mente e se l'è dimenticata nella mia macchina. Perché mi aveva voluto far intendere ciò che non era successo? Non aveva senso. Se voleva tutelare i sentimenti del suo migliore amico avrebbe provato a sminuire la situazione, non ad amplificarla.

<<Non ci credo...>> mormorò Elizabeth guardando il divano.

Seguii il suo sguardo e vidi una chiazza rossa sulla stoffa bianca. Tornai a voltarmi verso di lei e vidi l'umiliazione sul suo viso. Era palese che quella giornata non era stata delle migliori nemmeno per lei.

<<Non fare commenti o ti uccido>> mi ammonì prima di scomparire in cucina.

Mi alzai da terra e andai verso il divano, immaginando che fosse il caso di spostare i cuscini. Non ero di certo esperto sulle macchie di ciclo, ma varie volte mi ero ritrovato a dover smacchiare della stoffa dal sangue per via di botte e cadute varie avvenute durante gli allenamenti.

Quando Elizabeth tornò con uno strofinaccio bagnato e iniziò a sfregare con forza il divano bianco un piccolo sorrisino mi nacque sulle labbra. Quella ragazza era una tempesta di emozioni.

<<Che succede?>> chiese Derek tornando in salone e osservandoci perplesso.

Non seppi perché gli dissi che non succedeva nulla e di andare ad aspettarmi in camera, ma lo feci.

Quando Elizabeth sbuffò, fermandosi per qualche secondo dallo sfregare la macchia, mi accovacciai al suo fianco e le presi lo strofinaccio di mano, dandole il cambio. Si voltò di scatto verso di me, pronta a lanciarmi una frecciatina. Più la imparavo a conoscere, più capivo che non le piaceva essere aiutata. Era un aspetto frustrante del suo carattere.

<<Che stai facendo?>> chiese accusatoria, vedendomi strofinare via la macchia con movimenti decisi.

<<Ti aiuto>> spiegai, attendendo la sua risposta acida. Era bello saper essere indipendenti, ma c'era una linea davvero sottile tra la maleducazione e il non voler chiedere aiuto, ed Elizabeth aveva il talento di superarla a piè pari.

<<Grazie ma non ho bisogno che tu pulisca il mio sangue>> ribatté con rabbia.

Poggiai la pezza sul divano e mi voltai a guardarla, sperando che per una volta mi rendesse le cose facili. <<Senti, capisco che tu abbia il ciclo e sia nervosa, ma se la smettessi di essere così intrattabile renderesti tutto più semplice>>

Spalancò la bocca, guardandomi furente e sulla difensiva. <<Io intrattabile? Senti chi parla!>>
Decisi di ignorarla, sperando di riuscire ad arrivare alla fine di quella giornata senza ulteriori liti. La testa mi stava scoppiando nel tentativo di mantenere un tono educato.

Il mio silenzio per lei non fu una risposta soddisfacente, perciò continuò. <<Tu arrivi, ti pianti in casa nostra e non fai altro che punzecchiarmi!>>

Strinsi i denti con tutta la forza che avevo, perché anche lei di certo non aveva un carattere facile e socievole.

<<Non ti va bene niente di quello che faccio e mi fai la lamentela appena inizio a frequentare qualcuno al di fuori di questa casa!>> proseguì.

Non riuscii più a rimanere in silenzio, furioso dal fatto che vedesse sempre il peggio nelle persone che cercavano di darle una mano. <<Per l'ennesima volta Lizzy, io non ti faccio la lamentela! Mi preoccupo per te! Jason non è un ragazzo con la testa sulle spalle e tu sei fin troppo ingenua per capirlo, hai il prosciutto sugli occhi!>>

Non avevo ancora chiuso la bocca quando la sua mano raggiunse il mio viso con forza, procurandomi un pizzicore alla guancia e lasciandomi senza parole. Vidi che il suo gesto aveva sconvolto anche lei, che però torno subito con espressione neutra e si alzò, facendo per andarsene.

Impiegai qualche istante a riscuotermi e capire ciò che era appena successo, poi mi alzai e l'afferrai per il polso costringendola a girarsi e guardarmi negli occhi, che speravo le trasmettessero tutta la delusione che provavo in quel momento. Non avevo mai incontrato qualcuno di così infantile, e vivevo in casa con una bambina di tre anni. <<Mi hai appena dato uno schiaffo?>>

Elizabeth annuì e mi puntò il dito contro, gesto che mi fece andare su tutte le furie. <<Non ti permettere mai più di parlarmi in quel modo>>

Presi un respiro. <<Quando capirai che ho ragione?>>

Probabilmente quando sarebbe stato troppo tardi.

<<Non sai niente di me e di Jason!>> esclamò, senza distogliere lo sguardo dal mio. <<Non voglio più sentirti parlare di lui in quella maniera in mia presenza>>

Mi resi conto di star ficcando le unghie nei palmi delle mie mani, perciò sciolsi i polsi nel tentativo di allentare la tensione nelle mie braccia. Feci per ribattere ma ci rinunciai, sapendo che tanto non mi avrebbe dato retta.

<<'Fanculo>> borbottai passandomi una mano tra i capelli mossi e voltandomi, andando verso la camera del fratello. <<Fa come ti pare>>

Quando entrai nella stanzetta azzurra, trovai Derek seduto per terra che mi teneva il broncio per averlo mandato in camera poco prima.

Sospirai e gli lanciai uno sguardo di avvertimento. <<Non è giornata>>

Le due ore successive sembrarono non finire più. La signora Jonson passò cinque minuti da casa per portare qualcosa alla figlia e poi tornò a lavoro. Un'ora dopo suonò il citofono ed Elizabeth si affacciò nella stanza del fratello per dirgli che stava uscendo. Non ci scambiammo neanche uno sguardo, entrambi ancora con la rabbia che ci ribolliva sottopelle per l'accaduto. Aveva sostituito la divisa scolastica con un paio di jeans neri, una camicetta bianca con le maniche larghe e delle converse nere. Si era perfino truccata un po'.

Quando arrivò la signora Katy ero finalmente riuscito a calmarmi e a dimenticare tutto ciò che quella giornata mi aveva lanciato addosso. Giocare con Derek e ascoltare i suoi racconti fantascientifici mi aveva fatto distrarre. Mi ricordava molto me stesso quando avevo la sua età e avevo cercato di fare mente locale sui giochi d'infanzia che avevo a casa, provando a ricordare se ce ne fosse qualcuno che gli avrei potuto regalare.

Arrivai alla cena della squadra quando tutti avevano già iniziato a mangiare, ma prima di mettermi in macchina avevo scritto un messaggio a Edward chiedendogli di ordinarmi delle patatine e qualche bocconcino di pollo in modo da non morire di fame.

Un coro di esclamazioni si alzò dal tavolo e io feci un saluto generale. Il sorriso mi morì sul volto a vedere Elizabeth seduta alla sinistra di Jason, che le teneva un braccio sulle spalle. Quindi alla fine aveva accettato di partecipare alla cena. Grande.

Notai un posto vuoto non troppo lontano da lei, ma mi sedetti a sinistra della capotavola, vicino a Thomas e Luke Reaston. Lanciai un'occhiata a Jake, seduto davanti ad Elizabeth, che mi sorrise per poi riportare l'attenzione ai due di fronte a lui e dirgli qualcosa. Mi innervosii per lui alla vista di Jason che giocherellava con i capelli della ragazza, senza un minimo di tatto nei confronti del migliore amico.

<<Ethan>> mi chiamò Ed da qualche posto di distanza, passandomi il piatto con il cibo che mi ero fatto ordinare.

<<Grazie mille>> dissi afferrandolo e addentando un paio di patatine, ormai tiepide. <<Stavo morendo di fame>>

Luke, vicino a me, mi passò una birra e io non gli chiesi come avessero fatto a ordinarla senza dover mostrare i documenti.

Bryan, il giocatore numero due, alzò un bicchiere e ci fece tintinnare contro una forchetta, attirando l'attenzione di tutti. <<Giro di verità!>>

I miei compagni iniziarono ad applaudire e ad acclamare, io sorrisi divertito e feci altrettanto. Quella squadra era una delle cose migliori che mi fossero mai capitate nella vita. Anche Thomas, al mio fianco, stava applaudendo. Era il suo terzo Giro di Verità da quando si era unito alla squadra, ormai si era abituato.

<<Non la bevi?>> mi chiese facendo un cenno verso la birra che era rimasta poggiata sul tavolo.

Scossi la testa. <<Devo guidare. Prendi pure>>

Non se lo fece ripetere due volte e afferrò la bottiglia, portandosela alle labbra. Il mio sguardo cadde su un tavolo a qualche metro di distanza dal nostro e una risata mi uscì dalle labbra.

<<Comunque hai fatto colpo>> dissi portandomi una manciata di patatine alle labbra.

<<Mmm?>> chiese perplesso il mio amico.

Senza voltarmi, feci un cenno con la testa in direzione delle tre ragazze che stavano squadrando Thomas con occhi sognanti e lui si voltò a guardarle. Sentii delle risatine femminili e alzai gli occhi al cielo, scuotendo la testa divertito.

<<Niente male Jenkins!>> commentò Ed, sporgendosi a sua volta e facendo un cenno di saluto alle ragazze.

Bryan, che aveva proclamato l'inizio del Giro di Verità, fece la prima domanda a Grant, il ragazzo alla sua destra, e noi smettemmo di concentrarci sulle conquiste di Thomas.

Quando, dopo una decina di minuti, arrivammo a Luke, lanciai un'occhiata ad Elizabeth e la vidi spostare sovrappensiero il cibo con la forchetta. Aveva la testa appoggiata sulla mano sinistra e Jason non aveva più il braccio attorno a lei. Mi resi conto che era l'unica al tavolo che non stava ascoltando le domande e le risposte che venivano fatte.

<<Matthews!>> mi chiamò Tod attirando la mia attenzione. <<Sta a te>>

Feci una smorfia e sorrisi leggermente. <<Oh no>>

<<A quando la prossima festa?>> chiese Grant senza rendersi conto del volume della sua voce. Mi accorsi di essere uno dei pochi completamente sobri a quel tavolo. <<E' stata epica l'altra sera!>>

Mi portai una mano alla fronte e scossi la testa. <<Mai più. Ho passato tre ore provando a convincere i miei che la macchia sulla poltrona non fosse vino rosso ma una delle merendine alla ciliegia di mia sorella. Mi sono pure beccato una sgridata per aver fatto mangiare schifezze a mia sorella dopo cena.>>

La reazione dei miei compagni fu un misto di lamentele e risate e io mi chiesi quanto stessimo dando fastidio agli altri clienti del ristorante da zero a dieci.

<<E la biondina con cui hai passato l'intera serata?>> chiese Luke dandomi una gomitata d'intesa.

<<Grace?>> chiese Tod illuminandosi in viso. <<Mica ti ho visto che ci hai passato l'intera serata insieme. Ben fatto Matthews! E' una gran figa, te l'approvo>>

Una risata mi uscì dalle labbra e sentii le guance accaldarsi leggermente. Grace. Tod aveva ragione: era, per dirla a parole sue, una gran figa. Ero un coglione per non essermi fatto avanti prima con lei?

<<Chiedilo a Lewis, laggiù>> ribattei facendo un cenno della testa verso Jake.

Tutti si voltarono verso il mio amico e notai che Elizabeth aveva smesso di giocherellare con il cibo sul proprio piatto e aveva iniziato a prestare attenzione alla conversazione che la circondava.

<<Non è colpa mia se hai aspettato tre ore prima di provare a baciarla!>> si difese Jake ridendo. <<Non ho controllato cosa steste facendo in veranda prima di venire a chiamarti, altrimenti ti avrei concesso qualche altro minuto!>>

I commenti osceni che seguirono alla sua affermazione mi fecero alzare gli occhi al cielo.

<<Siete degli stronzi!>> esclamai ridacchiando e finendo di mangiare ciò che c'era sul mio piatto.

<<Dai, poiché sono buono ti faccio una domanda semplice>> intervenne Bryan, ancora con il sorriso sulle labbra. <<Qual è il fatidico lavoro per cui sei arrivato in ritardo di un'ora?>>

Il mio sguardo si posò sulla ragazza castana che ora aveva riportato la sua attenzione al piatto davanti a sé. <<Faccio da babysitter a un bambino di sei anni e a sua sorella>>

Elizabeth sbuffò e roteò gli occhi, scuotendo un po' la testa. <<A me sembra più che consista nel mettere a dormire il bambino di sei anni e farsi gli affaracci della sorella>>

Le mie sopracciglia scattarono verso l'alto, mentre lei incrociava il mio sguardo con aria di sfida. Feci uno sbuffo divertito mentre i miei compagni di squadra l'acclamavano.

<<Pensavo che non volessi più parlarmi>> commentai guardandola.

<<Pensavo che avessi capito quando tenere la bocca chiusa>> ribatté mentre le sue guance si coloravano di un rosa leggermente più intenso, forse per la rabbia nei miei confronti, forse per l'attenzione dei miei amici. <<A quanto pare mi sbagliavo>>

Mi passai la lingua tra i denti, mordendola leggermente e pensando a una risposta. Quando aprii la bocca per parlare, però, fui interrotto.

<<Amico, taglia la corda>> intervenne Jason. Spostai lo sguardo su di lui e ogni traccia di divertimento abbandonò il mio corpo. Notai che la sua mano era poggiata sulla coscia di Elizabeth, sotto al tavolo.

<<Tod, tocca a te!>> esclamò Edward rompendo il silenzio che si era formato, nonostante Tod stesse dall'altra parte del tavolo e non toccasse decisamente a lui.

Rimasi in silenzio mentre i ragazzi facevano domande al mio amico, serrando i denti e ripetendomi di non farmi rovinare la serata.

<<E' sempre così...?>> mi chiese Thomas facendo attenzione a non farsi sentire dagli altri.

<<Coglione?>> conclusi la frase al posto suo. <<Sì.>>

C'era stato un periodo in cui io e Wilson andavamo d'accordo, all'inizio. Mi sembravano tempi lontanissimi.

<<Jenkins sta a te>> disse Tod quando finirono di fargli domande, ristabilendo l'ordine regolare del gioco.

Con il passare del tempo tornai a rilassarmi sulla sedia e a ridere con i miei compagni, ma quando fu il turno di Elizabeth vidi che lei non aveva fatto altrettanto. Non si rese conto del fatto che i miei amici l'avessero chiamata in causa e fissava la tovaglia, giocherellando nervosamente con le briciole di pane. Jason si sporse verso di lei e la chiamò di nuovo.

<<Cosa?>> chiese alzando la testa e guardandosi intorno.

<<Tocca a te>> spiegò Daniel, il ragazzo seduto alla sinistra di Jake.

<<A me?>> domandò lei perplessa voltandosi verso Jason. Vidi i suoi occhi leggermente spalancati. Scosse la testa. <<Io non gioco>>

Istantaneamente vari dei miei compagni si lamentarono, facendo girare le teste di alcune delle persone dei tavoli vicini, comprese le tre ragazze che poco prima avevano squadrato Thomas.

<<Tutti quelli al tavolo giocano>> concluse Luke.

Spostai lo sguardo su Jake quando vidi Jason accarezzare la guancia della ragazza con la punta del naso e sussurrarle qualcosa. Il mio amico stava serrando i denti e distolse lo sguardo dai due, portandolo sulle sue mani.

<<Quanto fa schifo Wilson da mille a un milione a letto?>> chiese Ryan ridendo, mangiandosi leggermente le parole a causa dell'alcool, quando lei acconsentì finalmente a giocare.

<<Sei un coglione Ryan>> ribatté duramente Jake, lo sguardo di una serietà agghiacciante.

La domanda di riserva, posta da Grant, mi fece sporgere leggermente in avanti, curioso della risposta. Le aveva chiesto se lei e Jason stessero in una relazione.

Elizabeth tentennò, guardando il ragazzo al suo fianco indecisa su ciò che avrebbe dovuto dire.

<<Non ancora>> intervenne lui in suo aiuto. <<Sto programmando tutta una serie di uscite prima. Si merita qualcuno che la faccia sentire speciale prima di chiederle di fidanzarsi>>

Ed, a due posti di distanza da me, finse un conato di vomito e io dovetti trattenere una risata. Il mio amico si sporse leggermente e mi batté il pugno sotto il tavolo.

Quanto riportai la mia attenzione sull'interrogata, vidi che era impegnata a baciare il suo non-ragazzo-perché-sta-organizzando-altre-uscite-prima.

<<Perché ti dà tanto fastidio che ti chiami Lizzy?>> chiesi interrompendo i cori che si erano alzati dal tavolo, vedendo quanto Jake stesse faticando a mantenere il controllo di se stesso e volendo aiutarlo a cambiare argomento.

Il sorriso svanì immediatamente dal visto di Elizabeth e il suo sguardo si perse in un posto lontano. Ricordi.

Aggrottai le sopracciglia, perplesso, e mandai un'occhiata interrogativa a Jake. Il mio amico distolse a fatica l'attenzione dalla ragazza e mi guardò scuotendo leggermente la testa, facendomi capire di aver toccato un argomento delicato.

Elizabeth rimase in silenzio e abbassò lo sguardo sulle proprie dita, che si stava aggrovigliando.

<<Sta bene?>> sussurrò Luke sporgendosi leggermente verso di me per farsi sentire.

Lei spinse indietro la sedia e la vidi quasi inciampare. Si voltò velocemente, lo sguardo vago, e si affrettò in direzione dei bagni senza aggiungere una parola. Jake le fu subito dietro.

Il tavolo fu invaso dal silenzio per la prima volta in tutta la serata, tanto che avrei potuto giurare di vedere persone voltarsi a guardarci preoccupate.

<<Adolescenti melodrammatiche>> commentò Jason portandosi una bottiglia di birra alle labbra con una risatina, senza accennare alcun intento di seguire la ragazza a cui solo pochi minuti prima aveva ficcato la lingua in bocca. <<A chi tocca?>>

Serrai i denti e mi alzai, lasciando cadere con forza il tovagliolo sul tavolo.

<<Sei un imbecille epocale>> dissi tenendo lo sguardo puntato in quello di Jason, poi mi voltai e seguii Jake ed Elizabeth.

Trovai il mio amico nel bagno delle donne. Si teneva al muro con un braccio e aveva la fronte quasi appoggiata alla porta della cabina.

<<Posso parlarci un attimo da solo?>> chiesi in un sussurro quando lo raggiunsi. <<E' colpa mia>>

Jake si voltò a guardarmi e, dopo qualche attimo di esitazione, annuì e tornò al tavolo. Presi un respiro e mi voltai a guardare la porta dietro alla quale si trovava Elizabeth.

<<Lizzy?>> la chiamai, incerto su come gestire la situazione. Quella ragazza che inizialmente avevo frainteso come fredda e irraggiungibile in realtà era una bomba pronta a esplodere, ma io non sapevo quali erano le scintille che l'avrebbero attivata e lei non sembrava intenzionata a dirmelo. <<Puoi uscire un attimo?>>

La sentii tirare su con il naso, prima di parlare con rabbia. <<Vattene, Ethan. Non è il momento di venire a punzecchiarmi>>

Mi appoggiai con la schiena al muro e mi chiesi come stesse lei, se appoggiata dall'altra parte o seduta per terra.

<<Non sono venuto a punzecchiarti>> dissi. <<Puoi uscire, così parliamo a quattrocchi?>>

Passò qualche secondo prima che mi rispondesse, con voce rotta. <<Cosa c'è?>>

Cosa c'era? Non lo sapevo. C'era che a quanto pare avevo il terribile vizio di farla star male senza rendermene neanche conto. Sospirai e poggiai la testa all'indietro. <<E' per la domanda che ti ho fatto?>>

La sentii fare una risata ironica. <<No, è perché mi è morto il cane>>

Gli angoli della mia bocca si alzarono verso l'alto. Una delle poche certezze nelle mie giornate era il fatto che Elizabeth Jonson mi avrebbe risposto con il sarcasmo se si fosse sentita a disagio.

<<Mi dispiace>> dissi sinceramente, tornando serio. <<Non pensavo fosse una domanda delicata>>

La sua voce era più tremante di prima quando affermò: <<Tu non pensi mai a niente>>

Io penso a troppo. La corressi nella mia mente. E a niente.

<<Mi dispiace>> ripetei. Voltai la testa verso destra, come se la potessi vedere uscire da quella cabina. <<Puoi aprire la porta?>>

Elizabeth non rispose e la porta rimase chiusa per talmente tanto tempo che iniziai a perdere la speranza, ma poi la maniglia si abbassò e lei uscì.

Mi allontanai dal muro e la guardai: gli occhi arrossati erano circondati da un sottile alone nero di trucco che il pianto aveva sbavato. Mi trattenni dall'allungare la mano e toglierglielo. <<Stai bene?>>

Annuì e abbassò lo sguardo, mentre un singhiozzo lasciava le sue labbra. <<Mio padre mi chiamava Lizzy>>

Si affrettò ad asciugare una lacrima non appena scivolò sulla sua guancia, ma ne seguirono altre. Con un sospiro, Elizabeth fece una piccola risata triste alzando lo sguardo al soffitto a lasciando ricadere le braccia lungo ai fianchi. <<Non so che mi prende nell'ultimo periodo>>

Risentii la stretta al petto che avevo provato solo il giorno prima, quando il vedere la foto del padre l'aveva fatta piangere. Se prima avevo dei dubbi, ora erano svaniti. Elizabeth aveva usato il passato nel parlare di lui. Non c'era più.

Mi sentii uno sciocco per averla chiamata con quel nomignolo per tutto quel tempo. Mi aveva chiesto di non farlo e io l'avevo ignorata, dando per scontato che non ci fosse una motivazione particolarmente importante dietro al suo rigetto per quel nome.

Per la seconda volta, mi ritrovai ad abbracciarla. La strinsi a me senza pensarci, fu un gesto istintivo. <<Mi dispiace, Liz>>

Mi resi conto della difficoltà che avevo avuto a chiamarla in quel modo. Ormai mi ero abituato a chiamarla Lizzy, ma non lo avrei più fatto se le ricordava il padre.

La sentii stringersi di più a me e io poggiai le mie labbra sui suoi capelli. Mi resi conto di ciò che stavo facendo e scossi la testa, fingendo che il mio gesto non fosse stato un bacio ma un tentativo di sistemarmi in modo da non avere i suoi capelli sul viso. Sentii il nervosismo attanagliarmi lo stomaco, non sapendo come mai fosse stata un'azione così spontanea.

<<Puoi continuare a chiamarmi Lizzy>> mormorò sciogliendo l'abbraccio e asciugandosi le ultime tracce di lacrime mentre tirava su con il naso.

Un sorriso nacque sul mio viso e vidi che anche sul suo ne comparve uno. <<Speravo che lo avresti detto>>


Spazio autrice

Scusate l'orario dell'aggiornamento, ma domani ho tutta la giornata impegnata e se non avessi aggiornato oggi si sarebbe slittati a martedì.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto!

Sappiate che non tutti i capitoli saranno lunghi come questo e quello scorso (questo credo sia ancora più lungo), ci saranno purtroppo anche capitoli più corti. Il fatto è che non ho una lunghezza predefinita del capitolo, dipende tutto dalle scene che sto scrivendo e dalla loro importanza.

E niente, buonanotte! (O buongiorno se lo state leggendo domani)

-C

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