Capitolo 1. -M
Quinto anno di liceo, giorno quarantadue.
È il quarantaduesimo giorno che sono in ritardo.
Corro fuori di casa con lo zaino sulle spalle e le cuffie poggiate sulle mie orecchie. Le mie immancabili cuffie. Sono state un capo che ho sempre indossato, rigorosamente nere, e rigorosamente col volume molto alto.
Non mi importa di quel che succede al di fuori di me. Bomba? Attacco terroristico? Meteorite? L'unica cosa che mi dispiacerebbe sarebbe il pensiero di non essere riuscita a fare tutto quello che devo fare. Perché una volta fatto, allora sì, sarei pronta a morire. In fondo è questa la vita, o no?
Naturalmente questi sono pensieri classici da viaggio in metro: tutti i pensieri di morte, chissà per quale ragione, raggiungono la mia mente proprio su questo sedile dondolante. Per non parlare delle strane storie che mi vengono in mente guardando le persone all'interno del vagone - ma quelli sono sandali con i calzini?! -, questo per non pensare al pessimo servizio di trasporto della città. Esagerando, ne passa una ogni duemila anni e non raramente mi succede di perderla.
Ad ogni modo, scendo alla mia fermata e salgo le scale verso l'uscita, dove il solito vento presente nei corridoi sotterranei della metro mi scompiglia i capelli. Una volta tornata al piano terra, svolto a sinistra per poi percorrere per due minuti una strada affollata da altri studenti come me, che si preparano a vivere un'altra giornata nel carcere minorile.
Arrivata nel cortile esterno riconosco due chiome castane e mi avvicino.
"Leo, non lo so, ok?" esclama la ragazza vestita di nero, con un tono molto infastidito. "Lo sai che se non lo chiedi alla mamma non andrai da nessuna parte".
"Ma il cielo stasera potrebbe essere trapunto da luminose stelle!". Lei lo guarda come se fosse pazzo. "E se incontrassi quello giusto, Agatha? Ci pensi, potrei finalmente aver trovato l'uomo della mia vita!".
Mi avvicino ancora di più, ridendo. "Buongiorno anche a voi".
"TU! Tu saprai dirmi se incontrerò l'uomo della mia vita stasera!". Leo mi guarda con gli occhi pieni di speranza.
Faccio finta di pensarci su. "Mmm... secondo me, stasera...".
"Te lo dico io chi incontrerai stasera" esala Agatha, con un sorrisetto furbo che le spunta sul viso. "La zia, visto che ce l'abbiamo a cena". Il suo sguardo verso il fratello è decisamente vittorioso.
Leo diventa improvvisamente tutto rosso. "Agatha! Solo ora me lo dici?! Da quanto tempo è che ti sto chiedendo quello che devo fare stasera?".
Agatha sospira, alzando gli occhi al cielo. "Un tempo illimitato".
Rido ancora mentre la campanella di inizio lezione suona e il sorriso sulle mie labbra scompare magicamente. Alziamo tutti e tre contemporaneamente gli occhi al cielo e ci incamminiamo in classe.
Conosco Leonard e Agatha dall'asilo, sono fratelli gemelli... eterozigoti. In effetti, l'unica cosa che hanno in comune è quella di aver condiviso lo stesso grembo per nove mesi. La parola «condiviso» è un po' un eufemismo, in realtà: la madre mi racconta spesso che la sua gravidanza è stata tutt'altro che tranquilla. Si muovevano in continuazione, facendola impazzire. Purtroppo, aggiunge di solito, quando sono nati la situazione non è migliorata un granché.
A me piace pensare che siano due facce della stessa medaglia. Leo è sempre allegro e pieno di vita, al contrario di Agatha. Ormai penso sia arrivata a qualcosa come quindici piercing e la sua riga di eyeliner non è mai diminuita di spessore. Il suo colore preferito? Nero. Tutto il resto? Nero. Anche io sono come lei, talvolta, ma mi piacciono moltissimo i colori e non sempre li annullo con dei colori scuri. A me e a Leo piace prenderla in giro, dicendole che è una dark affermata, ma nonostante sia sempre nera, le piace la sua vita e vuole godersela.
"Mel?" mi chiama Leonard, usando il mio nomignolo.
Lo guardo, incuriosita da suo tono di voce e decido di usarlo anche io. "Leo?".
"Ma i capelli cos'hanno fatto stamattina?".
Prende una ciocca scura con due dita e dopo aver notato la poca cura che i miei capelli hanno ricevuto, la lascia e quella si riunisce alle altre, vergognandosi della sua esistenza. "Scusa" dico, mentre mi passo una mano in quel garbuglio di nodi. "Non sono riuscita a sistemarmeli stamattina".
Le sue sopracciglia si aggrottano in un'espressione troppo seria per questo discorso. "Non è una scusa accettabile. Se adesso ti scontrassi con l'uomo della tua vita, hai intenzione di presentarti con questi capelli?".
"N-no, signore..." rispondo, incerta e leggermente spaesata. Guardo Agatha in cerca di aiuto ma lei si limita ad alzare gli occhi al cielo.
"Ehi, ciao sono Mel, ma chiamami anche 'Me-li-fai-tu-i-capelli'?". Mi chiedo come abbia fatto ad imitare la mia voce così bene.
"Io non parlo così!". Ma poi le mie labbra si allargano in un sorriso all'espressione di Leo e scoppio a ridere. "D'accordo, non succederà più".
Mi sorride fiero, poggiando il suo braccio intorno alle mie spalle. "Questa è la mia ragazza".
"Smettila di tormentarla, Leo. Sono solo capelli, un uomo non si farà di certo indietro perché sembra una cavernicola" sbotta Agatha, ridendo appena.
La guardo con orrore. "Sembro una cavernicola?".
I gemelli si scambiano uno sguardo, dubbiosi su come rispondermi. "No" per Leo e "Sì" per Agatha. E Agatha non mente mai.
"Oh, perfetto". Borbottando, entro in classe sedendomi nello stesso posto di sempre, rigorosamente vicino alla finestra.
"Non prendertela. Amiamo la versione selvaggia di te". Sento la voce di Agatha alle spalle e mi volto, guardandola sedersi accanto a me.
"Non sei molto simpatica".
Lei sorride e si mette a tirare fuori dallo zaino astuccio e libri per cominciare questa noiosa giornata di scuola. Fortunatamente le cinque ore non pesano troppo. Con Leo e Agatha non ci si annoia mai.
Usciti dall'edificio, ci salutiamo con un abbraccio caloroso di gruppo e li lascio avviarsi verso casa mentre bisticciano, come al loro solito.
Io invece mi dirigo dalla parte opposta, arrivando fino alla stazione metro. Scendo tutte le scale per poi scoprire che è chiusa. Perfetto.
Che bella giornata, penso, mentre salgo di nuovo le scale e mi fermo alla fermata dell'autobus. Mi scelgo la playlist, mentre aspetto. Quando il mezzo arriva, salgo facendomi strada tra le persone. I viaggi in autobus, se non fosse per l'assenza di aria condizionata, mi sono sempre piaciuti di più di quelli in metro. Guardare fuori dal finestrino, mentre la musica mi risuona nelle orecchie non mi ha mai stancato, nonostante la strada sia sempre la stessa e ormai io la conosca a memoria.
Una volta a casa, noto la macchina dei miei nel viale e sorrido, felice che siano di nuovo a casa. Infatti ad aprirmi la porta è mio padre che guarda con aria sospetta l'ambiente fuori e mi spinge verso casa, senza troppi complimenti.
Non so se devo preoccuparmi. "Che succede?".
"Oh, vedrai, è un segreto". È elettrizzato, ancora con odore di salsedine sulla pelle. Mi guida velocemente in cucina dove mi fa sedere su una sedia, di fronte ad un piatto di pasta al sugo, posato proprio in quel momento da mia madre.
Li guardo e loro guardano me. "Forza, tesoruccio, assaggia!" Anche l'enfasi di mia madre non è da meno.
Mi faccio coraggio e arrotolo gli spaghetti intorno alla forchetta per poi portarli alla bocca. Li mastico e butto giù, facendo attenzione a notare cosa c'è di diverso. Nulla, a mio avviso. Ma per loro c'è eccome. Così, decido di improvvisare.
"La pasta?"
"Oh, puoi giurarci!" esclama mio padre, come se avesse appena vinto il mondiale di pasta al sugo.
"Ti presentiamo con orgoglio i nuovi spaghetti biologici della Healtheart, sono ancora più salutari della versione prima! Non sei fiera di noi? Sono arrivati questa mattina!"
Mamma e papà dirigono una piccola, seppur modesta, catena di prodotti biologici e, da veri hippie, ne vanno fieri.
"Già, non abbiamo neanche avuto il tempo di disfare la valigie, abbiamo subito deciso di cucinarli, vero, caro?"
"Oh, amore mio" dice papà, prendendo la mamma per la vita, attirandola a sé. "Dobbiamo festeggiare. Ristorante, vista sul fiume, champagne e... pasta biologica Healtheart. Ti va?"
"Oh, tesoro, sarebbe così romantico!"
Io, indecisa se vomitare quell'unica forchettata di spaghetti ingerita o lasciargli fare il suo corso verso il mio intestino, grattugio del parmigiano sopra per dare più sapore a quella nuova specialità.
"Quindi...". Mia madre si mette a sedere alla mia sinistra e papà alla mia destra. "Cos'hai fatto oggi a scuola?"
"Niente di niente. Ma la stazione metro oggi era chiusa e mi è toccato prendere l'autobus"
"Pasticcino, non dovresti prendere l'autobus. Anche senza la metro"
"Sì, tua madre ha ragione. L'autobus inquina tremendamente l'ambiente, sai quante piante potrebbero vivere in salute se tu non le accasciassi ogni volta che prendi l'autobus?"
"Papà, tu invece sai quanto tempo ci vuole per arrivare a scuola a piedi, da qui?"
"No, in realtà."
"Quaranta minuti", rispondo seccamente.
"Oh, quando eravamo giovani io e tua madre ci facevamo ottanta minuti di corsa ogni mattina, vero, tesoro? Dovremmo ricominciare, sto mettendo su qualche chilo di troppo"
"Nick, tesoro, stai benissimo così!"
"Oh, Amelia cara, ti amo così tanto quando mi dici così"
"Anche io, amore". Si prendono per mano, scambiandosi profondi sguardi d'amore. Io poso forchetta e tovagliolo sul tavolo provando un senso di nausea troppo forte per continuare a mangiare e, inventandomi una scusa, salgo in camera mia buttandomi sul letto.
Ah, i miei genitori. A volte mi sembrano più ingenui di me. Chiudo gli occhi, rilassandomi, intenzionata a dormire solo pochi minuti.
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