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Vetri rotti

"Avevo aperto gli occhi e

guardato il vuoto della scena

senza di lui e

forse il vuoto

faceva meno paura"

Il rumore del vetro in frantumi riempì le mie orecchie. Sussultai anche se ero preparata. Non fu come il rumore di un bicchiere che cade. Fu un rumore così forte da non poterlo più dimenticare.

In quel preciso istante compresi come tutte le idee che mi ero fatta fossero solo illusioni e presi coscienza dell'esistenza di un problema reale. La paura mi assalì e il cuore mancò un battito.

La tendina a fiori stava ancora al suo posto e aveva trattenuto gran parte del vetro che era ricaduto da questa parte del pavimento.

Antonio infilò la mano e girò la chiave, poi spinse la porta. Il vetro stridette sotto di essa e sotto i suoi piedi, producendo un suono simile a un lamento che mi fece accapponare la pelle.

Furono i minuti più lunghi della mia vita. Mille pensieri mi esplosero dentro, insopportabili come il rumore più forte dell'acqua della vasca che continuava a scendere.

I miei genitori, le mie amiche, non sapevano nulla dei problemi del mio ragazzo.

Ero sola in quel corridoio: immobile in mezzo alla scena.

Mentre Antonio si precipitava nel bagno, io chiusi nuovamente gli occhi.

Dio se ci sei, questo è il momento di farti avanti se vuoi le mie preghiere, supplicavo con rabbia per superare l'angoscia.

Poi mi arrivarono le voci di Antonio e di Domenica.

«Non c'è», stava dicendo lui.

«Ma come non c'è?»

Aprii gli occhi e mi avvicinai alla porta, per guardare io stessa l'interno del bagno.

Era un bagno lungo e lineare. La vasca era vuota e l'acqua si perdeva nello scarico. Antonio si stava sporgendo dalla finestra aperta che affacciava sulla rampa del garage.

«Se ne è andato con l'auto», disse fuori di sé dalla rabbia.

«Comu fici?», chiese lei con la voce tremante, incrociando le mani e portandosele vicino alla bocca.

«È saltato giù!»

Tornai a respirare. Neanche mi ero accorta di essermi trattenuta. Fu il mio costato, alzandosi e abbassandosi con un movimento ampio e fastidioso a comunicarmelo. Avrei dovuto sentirmi meglio e invece avevo voglia di piangere.

Un alito freddo e pungente entrava dalla finestra aperta e io tremavo come una foglia nel vuoto. Intorno a me solo il nulla. Che cosa faccio qui? Come ci sono arrivata? 

Ero in una casa non mia. Che lui fosse solo scappato e che non fosse morto poco importava, avvertivo la stessa sensazione di abbandono e di solitudine. Non è vita questa. Non è la vita che avrei voluto vivere. 

Antonio mi passò davanti sconfitto. Percepivo dal suo passo strascicato, che provava le mie stesse emozioni. Andò in cucina e si buttò su una sedia. Prese un fazzoletto di stoffa dalla tasca dei pantaloni e se lo avvolse sulla mano per tamponare il taglio che si era fatto con il vetro.

Lo seguii, ma non mi avvicinai: mi sentivo un'estranea. Domenica gli stava dinanzi in piedi.

«Cùosa facìemu?» disse lei.

«Nenti. Chi vvoi fari?» aveva risposto adirato.

Il mio cervello si era paralizzato, solo ora mi rendo conto quanto dovessero essere spaventati.

Nunzio riceveva il metadone al SerD, se avesse preso della "roba" avrebbe potuto sentirsi davvero male. Era fuggito ed era fuori in automobile, chissà dove.

L' abbattimento di poco prima divenne rabbia, rabbia profonda.

Ma come cazzo si fa a incasinare tutti così? Ci pensa a noi, a quello che stiamo provando qui, mentre fuori da solo, si fa una dose che potrebbe ucciderlo? Ma ci pensa a me? 

No, non credo che pensasse a me ed ero io che non avevo capito niente. Avrei dovuto immaginare che era dalla vigilia di Natale che non andava al SerD, che non poteva farcela per tre giorni, che non gliene fregava niente di che giorno fosse quello, che a lui fregava solo di una cosa.

All'improvviso provai pena per lui.

«Credo di sapere dove sia» dissi, «una volta ci siamo passati e mi ha detto che era in quel parco che comprava le dosi».

I suoi genitori si guardarono e poi suo padre mi disse: «Dov'è?»

Io non ricordavo bene, non sono di Milano, ma ricordavo il nome del paese, così salimmo in automobile e andammo a cercarlo.

***

Ancora mi torna alla mente l'auto di Antonio quel giorno, come fosse pulita, ordinata, profumata sino alla nausea dall'arbre-magique alla vaniglia attaccato allo specchietto retrovisore, tra la catena del rosario fosforescente e un cornino rosso: perché non si sa mai, la prudenza non è mai troppa. 

Non parlò neppure e partimmo subito. Guardavo la mezzaria della strada senza riuscire a nascondere un'espressione divertita e ironica per la guida troppo a sinistra di suo padre. Non ero mai salita in auto con lui, ma sapevo bene come Nunzio lo prendesse in giro perché a forza di guidare nella nebbia, aveva preso l'abitudine di stare a cavallo della confortante riga bianca centrale.

Quante cose di Nunzio avevo già dentro di me e neanche me ne rendevo conto.

Girammo a vuoto per parchi e parchetti senza riconoscere il posto giusto e senza incontrarlo; infine, dovemmo arrenderci e rientrare. Ma quando arrivammo a casa, Antonio si fermò davanti al cancello aperto perché lui era lì.

Sua madre lo stava chiamando dalla finestra del bagno. Scendemmo dall'auto, che suo padre lasciò opportunamente sul cancello per impedirgli di fuggire di nuovo, e ci avvicinammo.

Sembrava stare bene. Camminava nervosamente avanti e indietro senza fermarsi. Antonio non disse nulla, ci lasciò soli e salì in casa. Domenica fece altrettanto ritraendosi dalla finestra del bagno.

C'ero io.

Nunzio teneva le braccia conserte. Mi avvicinai per guardarlo meglio. Si vergognava. Era la prima volta che lo vedevo appena dopo essersi fatto una dose. Aveva un bell'aspetto, un bel colorito, solo le vene sotto gli occhi erano gonfie. Prima non le avevo mai notate. Si passò la mano sotto il naso e si sfregò il viso.

«Amore, va tutto bene» disse.

Il mio sguardo parlava per me.

«Non ce la facevo più, ma adesso sto bene, poi domani vado al SerD, ci parlo, sistemo tutto. È solo per questa volta»

Abbassai gli occhi, non sapevo cosa rispondere. Nunzio si avvicinò accennando un sorriso, uno dei suoi irresistibili sorrisi, ma lo tradivano quegli occhi lucidi.

«Dai, scusa...» sussurrò, «eddai su...mi dispiace» continuò cercando di baciarmi.

Ma io non credevo gli dispiacesse davvero, perché lui non lo sapeva come eravamo ridotti tutti noi, solo un'ora fa.

Lasciai perdere, mi divincolai e salii in casa sua. Lui mi seguì.

I suoi stavano parlando in cucina su cosa dovevano fare con me. Antonio si offrì di accompagnarmi a casa: abitavo a quasi quaranta chilometri. Nunzio voleva farlo lui, sembrava tranquillo ora: si era versato un po' d'acqua e le mani non gli tremavano.

Il mio sguardo corse sul corridoio. Il vetro a terra non c'era più. Sua madre aveva ripulito ogni cosa. Chissà dov'era Saverio? Chissà se gli altri sapevano tutto quello che era successo? 

«Tu sei matto» gli disse Antonio, «non esci da casa mia in automobile. Se ti succede qualcosa cosa gli dico ai suoi genitori? Che ti ho lasciato andare in questo stato?»

I miei genitori...certo! Cosa avrebbero detto i miei genitori se a casa fossi tornata con il padre del mio ragazzo? Avrei dovuto farlo salire, offrirgli qualcosa per ringraziarlo, presentarglielo e poi? Poi gli avremmo spiegato il perché ero rientrata con lui? 

Antonio non sapeva che a casa mia non avevo raccontato nulla; non sapeva che i miei non avrebbero capito suo figlio e poi, a dirla tutta, neanche io lo capivo. Come avrei potuto difenderlo?

Nunzio invece era consapevole dell'eventuale disastro. I miei non erano tanto accomodanti: mi avrebbero addirittura cacciata di casa per indurmi a non frequentarlo.

Il ragazzo "giusto" per loro, era quello con tre caratteristiche: voglia di lavorare, obbedire a testa bassa e rigare dritto. Tutto il resto sarebbe venuto poi.

Fu Domenica a stupirmi.

«Lasciali andare» disse al marito.

«Ma come?»

«Come per le altre volte, non cambia niente.»

Non so perché decise così, ma non aveva torto.

Quella volta però, ero io a non fidarmi. Forse perché l'avevo visto subito dopo, forse perché mi ero spaventata o forse perché allo stridere del vetro sotto la porta, avevo aperto gli occhi e guardato il vuoto della scena senza di lui e, forse, il vuoto faceva meno paura.

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