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Sul baratro:

"...feci l'amore con il suo cuore

e mi parve quasi

di averlo avuto

tra le mani "

Improvvisamente lo percepii con il cuore, prima che con la testa.

Nunzio doveva essere lì, nel nostro posto, dove al buio andavamo a fare pace con le stelle e le luci della città.

Lui spegneva la musica in auto e sentivamo il vento che muoveva le fronde dell'albero in fondo al parcheggio. Ascoltavamo i nostri respiri, i nostri rumori, i nostri gemiti per sentirci di più, per sentire tutto senza pudore e conoscere ogni sensazione vivendola.

Chiusi gli occhi e lo immaginai lì, ad ascoltarsi, per capirsi fino in fondo. Dissi a Saverio che ero certa di sapere dove fosse e che ci sarei andata subito.

Accesi l'auto. Partii che mezzanotte era passata da un pezzo. Scesi lungo la via che costeggiava esternamente le mura antiche, fino al primo semaforo del centro. Le luci della città bassa sfilavano via mentre correvo veloce. Arrivai fino alla strada stretta dietro il convento. C'era un buio inquietante: solo gli abbaglianti della mia auto.

Proseguii per il parcheggio dove nel buio, intravidi il golf nero parcheggiato al limitare del piazzale, in prossimità del cortile dell'ostello sotto il nostro pino. Non c'erano automobili attorno. Era sabato sera, la notte era ancora giovane: il mondo aveva altro da fare.

Tenni i fari accesi fino alla sua auto. Mentre mi avvicinavo, cercavo di scrutarne l'interno, ma non c'erano segni di vita a confortarmi.

Accostai e scesi lentamente con il cellulare nella mano destra. Mi avvicinai al finestrino, vi misi sopra una mano a coppa e vi appoggiai la fronte. Non vedevo nulla: era troppo buio. Cercai la torcia sul telefono e illuminai l'interno.

Una persona sola era sdraiata sul sedile anteriore abbassato, il corpo raggomitolato. Picchiettai sul vetro delicatamente con le dita, ma non si mosse. Allora riposi il cellulare in tasca e feci scorrere la mano sulla maniglia che scattò subito. La lasciai, esitai prima di andare oltre.

Distesi e richiusi le mani per fermarne il tremolio. Avevo bisogno di prolungare l'apparente tranquillità silenziosa della notte, prima di affrontare la vita.

Tirai un respiro e abbassai le palpebre. Non so il perché, ma mi rividi bambina alla sfilata dei carri di carnevale: io che non volevo mai stare innanzi alla fila, sola tra i più piccoli, perché temevo di perdermi e i miei che mi spingevano, perché avanzassi.
Mi dicevano di andare a guardare da vicino, ma avevo paura di lasciare il mio posto sicuro. Mi sarei accontentata per sempre di un piccolo scorcio, pur di poter restare attaccata alla gonna di mia madre.

Non ero pronta, ma c'ero solo io.

Aprii la portiera, appoggiai il ginocchio sul sedile e mi spinsi fino all'altro. Allungai una mano incerta verso la sua spalla e ve l'appoggiai.

Sentii il calore di quel corpo. Restai immobile, aspettando che i miei occhi si adeguassero alla penombra e con la mano e le orecchie tese, cercai di percepire quanto fosse naturale il movimento del costato. D'istinto sincronizzai il mio respiro con il suo per esserne certa.

Poi cercai di ruotarlo in posizione supina e in quell'istante, si mosse.

Aprì gli occhi e mi guardò stralunato. Era sudato, i capelli bagnati sulla fronte, un segno rosso sulla guancia rimasta appoggiata malamente alla mano. Piegai le ginocchia e mi sedetti sui polpacci a guardarlo.

Nunzio si girò sul sedile, incrociando le braccia al petto. Ci fissammo. Non sapevo cosa dire.

Poi aprì un braccio e lo lasciò cadere verso di me. Allora mi sdraiai sul suo petto e vi appoggiai la guancia e la mano. Lasciai che mi avvolgesse a fatica in un debole abbraccio. Aveva un odore sgradevole, pungente, come l'intera automobile.

«Cosa fai qui?» disse, dopo essersi schiarito la voce con un colpo di tosse.

«Mi ha chiamata tuo fratello» risposi.

Strinse e riaprì gli occhi, rivolti in alto, per svegliarsi meglio.

«Perché sei stato male?» chiesi pur temendo la risposta.

«Ho esagerato.»

«Perché?»

«Perché lo volevo.»

«Volevi drogarti così tanto da stare male?»

Non rispose. Rifeci la domanda:

«Volevi drogarti così tanto da...»

Mi interruppe senza farmi finire: «Volevo superare i limiti e sparire una volta per tutte.»

«Da me?»

«Da te, da tutti.»

Avrebbe potuto farlo davvero, da solo, in un luogo sperduto; invece, non aveva osato arrivare a tanto. Aveva paura, la stessa che avevo io, che avevamo tutti.

«Nunzio...»

«Sono un cretino lo so, ma non ce la faccio. Fa male, credimi! Fa male smettere. Ho male dappertutto! Ci provo, ma non ci riesco!» disse d'un fiato con la voce rotta.

Non avevo idea di cosa parlasse, potevo solo immaginarlo, ma in realtà non volevo capirlo. Non avevo bisogno di comprendere come stesse, mi bastava guardarlo per giudicare ciò che gli faceva bene e ciò che gli faceva male.

«Allora fatti aiutare» lo supplicai.

«Sto diventando una merda. L'altra sera con te...non volevo. Sto perdendo il controllo di me stesso.»

«Perdiamo tutti il controllo qualche volta» cercai di confortarlo e incoraggiarlo.

Nunzio si portò l'altra mano alla fronte.

«Hai una storia con quel ragazzo?» sussurrò.

«Quello dell'altra sera? No.»

«E io e te?»

Esitai. Sapevo dove voleva arrivare.
La mia mente cercava una risposta e mi riportò tra quegli enormi carri di carnevale con i personaggi di cartapesta in movimento, le persone nascoste negli anfratti che comparivano all'improvviso, lanciando invitanti caramelle, mentre io con il volto coperto dalle mani, sbirciando tra le dita, mi lasciavo spintonare nella ressa immobile, senza partecipare, al centro della scena nell'attesa della fine.

«Stiamo ancora insieme?»

Non risposi.

Nunzio chiuse gli occhi e tra le sue ciglia vidi formarsi una lacrima. Scese giù di traverso sfiorando la tempia sino alla rasatura dei capelli. La vidi correre via lasciando una scia umida e lucida.

«Ti amo» sussurrò, la voce sottile, esile come le sue forze, ma senza incertezze.

Non furono quelle parole, seppur arrivassero per la prima volta dalle sue labbra alle mie orecchie, ma fu il loro suono così innocente e diretto a trafiggermi al centro.

Non era come se fossero state dette nell'apice esplosivo di un intenso momento di felicità; era stato diverso, erano state dilanianti come un'ardua confessione sul baratro della fine.

Il mio cuore sanguinava e tremava allo stesso tempo.

«Andrò in ospedale e farò quello che mi hai chiesto, se resterai» continuò a occhi chiusi.

Ruotai e mi sollevai per guardarlo meglio.

Ero conscia in quel momento della lotta con me stessa e che non sarei più potuta fuggire né rimanere immobile a guardare. Saremmo arrivati in fondo insieme? Dovevo essere sicura che non mi stesse mentendo.

Batté le palpebre appesantite da piccole pieghe di stanchezza e mi fissò.

Guardai dentro quegli occhi verdi bagnati e spaventati, quel viso con la barba corta e ruvida, i capelli unti e le labbra secche screpolate e capii che era sincero.

La risposta uscì fuori da sé:
«Ti amo anch'io».

Una lacrima fuggì dai miei occhi e scivolò lungo la linea del naso fin sopra le sue labbra aperte.

Allungò una mano a sfiorare la mia guancia e con il pollice cercò di ripulire il nero della matita che già in precedenza era colata, facendo un unico impiastro sul mio viso.

Mi avvicinai e lo baciai. Nunzio era restio, ma io ne avevo bisogno.

Non mi importava che non profumasse di seducente sandalo e neppure di amaro fumo di sigaretta. Aldilà di quell'odore acro e pungente di cui era impregnata anche l'aria, sentivo il calore di quel corpo vivo ed era ciò di cui avevo bisogno.

Allungai le mani dentro il suo giubbino e mi strinsi forte a lui, baciandolo ovunque: sulle labbra, sulle guance, sul collo. Sulla mia bocca avevo il sale amaro delle sue lacrime che continuavano a scorrere.

Quella notte non riuscii a fare l'amore con il suo corpo distrutto fino all'anima, ma feci l'amore con il suo cuore e mi parve quasi di averlo avuto tra le mani.

***

Ci addormentammo in auto sfiniti. Quando mi svegliai, il sole stava salendo nel cielo. Scattai sul sedile, a casa mi aspettavano! Chiamai Nunzio a gran voce.

«Devo fuggire» gli dissi agitata, «ce la fai a guidare fino a casa? Come ti senti?»

Era una domanda sciocca perché si era appena svegliato, non poteva rispondermi, ma avevo fretta.

Mi fece un sorriso sereno: «ce la faccio».

Lo guardai incerta, poi contraccambiai.
Dovevo assolutamente andare. Tornai alla mia auto, cercando di infilarmi il giubbino e contemporaneamente togliere le chiavi dalle tasche, quindi partii. Giunsi a casa e parcheggiai in strada perché non mi sentissero. Arrivata sul pianerottolo aperto del primo piano che affacciava sul cortile, mi tolsi le scarpe, appoggiai i piedi intirizziti sulla pietra serena gelida, pensando di riuscire a entrare senza far rumore. Infilai la chiave e la girai molto lentamente per due giri. Abbassai la maniglia come solito, ma la porta non si aprì.

Riprovai più volte fino ad accorgermi che la serratura della blindata era bloccata dalla chiave interna. Purtroppo, dovevo suonare. Mi rassegnai all'evidenza. Rimisi le scarpe e appoggiai il dito sul campanello. Uno squillo breve a cui nessuno rispose.
Due squilli e poi tre ripetuti, senza risposta. Rimasi a osservare la porta.

-Perché nessuno apre? -

Non capivo. Poi sentii la chiave interna girare. Sulla soglia apparve mio padre con il viso stanco, le occhiaie segnate, le folte sopracciglia brizzolate corrugate, i radi capelli anch'essi brizzolati ricci e arruffati. Gli occhi piccoli, scuri e severi mi scrutarono incutendomi terrore.

«Ti sembra l'ora di tornare questa?» tuonò con la sua voce imperiosa.

«No, papà» risposi subito abbassando la testa.

Non potevo raccontargli nulla di quanto era accaduto quella notte, del fatto che non fosse stata colpa mia, che non ero stata in giro a divertirmi e neanche ribattere che la scorsa estate quando rientravo appena poche ore prima, la cosa andava bene purché fosse per lavoro.

«La prossima volta che osi tornare a quest'ora, troverai staccata la corrente del citofono e dormirai in cantina, ti è chiaro?»

Sì, era chiaro, sapevo che l'avrebbe fatto. Parlava poco e mai a vuoto mio padre, ma speravo profondamente che un'altra notte come quella non si ripetesse.

Convinto del mio pentimento, mi lasciò andare a dormire, di lì a poche ore avrei montato il turno dalle dodici alle venti: otto ore filate di un lunedì noioso. Dovevo rubare al mattino nascente qualche ora di sonno profondo, per non addormentarmi in piedi al bancone del bar.

L'ultimo pensiero prima che le palpebre cadessero e si incollassero l'una all'altra, fu per Saverio.

Gli scrissi un messaggio veloce sul telefonino:

-Sta tornando a casa, scusa se non ti ho più scritto. È andato tutto bene, dice che andrà in ospedale. -

-Avevo capito quando non ti ho più sentita. - rispose immediatamente.

Saverio era già sveglio. Non aveva commentato la seconda parte del messaggio. Sentivo che ne dubitava, d'altronde come poteva crederci?

-Lui non ha visto quelle lacrime! - mi ripetei per convincermi e addormentarmi.

NOTE AUTRICE:

Ciao, spero che questa storia vi stia piacendo, piano piano esploreremo i legami famigliari di Sara e di Nunzio e come questo li condizioni.

Ho scelto il titolo: Sul baratro come richiamo anche al capitolo precedente nel quale invece è Sara a raccontare come si sia trovata lei stessa sul baratro dell'anoressia e sia riuscita a non cadere sul fondo, ci riuscirà anche Nunzio? Sara ce la fece con le sue forze, Nunzio vuole un aiuto, come finirà?

Se avete suggerimenti o altro vi esorto a segnalare così da farmi crescere, lasciate una stellina se vi è piaciuto!

Cercherò di aggiornare ogni sabato perché possiate godere del continuo della storia in modo regolare. Grazie a quanti si soffermano a leggerla! Buona vita a tutti!

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