I comandamenti
"Onora il padre
e la madre"
La sveglia sul cellulare mi ricordò come fosse mattina inoltrata, anche se ero ancora così stanca. Mi ruotai nel letto. Mia madre aveva già aperto le imposte, ma io non l'avevo sentita. Nelle orecchie, oltre al fischio degli acufeni che mi stava procurando un leggero mal di testa, riecheggiavano le parole delle ore precedenti passate con Nunzio.
Aveva detto di amarmi. L'avevo sentito bene, anche se ora mi sembrava tutto confuso e non capivo se fosse stato un sogno o un incubo.
-Quelle lacrime dovranno pur significare qualcosa- mi ripetevo.
Ma solo una persona aveva la risposta. Così lo chiamai subito.
Cinque squilli a vuoto e poi la segreteria.
Un dolore al basso ventre stava per minare il resto della mia giornata. Mi massaggiai intorno all'ombelico, protesa in avanti sul letto e infilai la mano calda sotto la blusa del pigiama rosa.
Rifeci il numero. Quattro squilli.
«Ciao Amore!»
«Ciao», risposi sollevata e sorpresa dal suo tono così attivo. Sapeva che non amavo quella parola. La prima volta che l'aveva usata gli avevo chiesto schiettamente se fosse innamorato di me.
"Se non ne sei sicuro perché nomini quella parola? Il giorno che la userai davvero avrà perso il suo significato."
L'avevo colto in contropiede, non se l'aspettava da me un'aggressione così, ma c'erano cose sulle quali non transigevo.
"Non si scherza con i sentimenti " gli avevo detto decisa. L'Amore per me era qualcosa di sacro.
L'aveva capito e non aveva più usato quell'espressione, neanche quando eravamo stati tanto felici insieme.
Proprio ora riapriva quell'argomento: era il semplice prolungamento di quell'amo che gli avevo concesso o davvero ne aveva capito il senso? E io? L'avevo colto il senso quando gli avevo risposto? Quando l'altra notte l'avevo pronunciata per la prima volta?
«Come stai?» gli chiesi per sondare il terreno.
«Così, così. Sono stato meglio.»
Troppo silenzio tra di noi negli ultimi tempi, non mi piacevano più le nostre conversazioni. Ripresi subito mordendomi il labbro inferiore, fino a farlo sanguinare per superare la tensione.
Sopra di me le nuvole bianche del cielo posticcio del soffitto mi ricordavano come disegnandole, avessi già compreso quanto fossero indispensabili per rendere reale uno spazio troppo falsamente azzurro.
«Allora, hai...cambiato idea?»
«No, non ho cambiato idea», la sua voce divenne subito grave per essere più convincente.
«Ti hanno detto qualcosa i tuoi per l'orario a cui sei rientrato?» gli chiesi per capire come fosse stato il ritorno in famiglia.
«Ma figurati! Sono maggiorenne da un pezzo!»
Cercai di immaginarmi la scena. Anche io ero maggiorenne e non avevo i suoi problemi, ma non mi capacitavo che nessuno l'avesse atteso, ripreso per l'orario, per essere sparito e per quello che aveva fatto da sua sorella.
«E con il lavoro? Come sei messo?»
«Mio padre avvisava l'ufficio personale quando entrava.»
Antonio era capo turno in reparto. Aveva chiesto di assumere il figlio quando non aveva voluto continuare a studiare.
Saverio invece era entrato in azienda appena finita la scuola di Perito Meccanico, dopo essersi guadagnato il posto con lo Stage estivo in ufficio progettazione e disegno.
«Da quanto sei sveglio?»
«Ho dormito poco, poi verso le dieci mia madre mi ha portato la colazione. In cucina mi aspettava la nonna. Sai come sono i siciliani: è un affare di famiglia» disse ridendo e continuando con un tono che mi parve troppo superficiale.
«Voleva dirmi la sua. Dice che se mi faccio curare, quest'estate mi paga le vacanze. Ma devo fare il bravo e smetterla di "fari comu u cani sutta a seggia".»
La pronuncia siciliana di Nunzio risvegliò in me un po' di ilarità: «Cosa hai detto?» gli chiesi.
«Che devo smettere di fare come i cani che stanno sotto la sedia. Devo fare la mia parte, non nascondermi.»
«Quindi lo farai?» ripresi più seria.
«Non ho scelta, pure Carmen viene qui oggi in pausa pranzo. Li ho addosso tutti!»
Mi infastidiva quel suo tono, anche se la conversazione così era meno pesante e più piacevole. Ero a pezzi e dovevo ancora iniziare un turno di otto ore filate in piedi con un'unica breve pausa, che non sempre veniva concessa.
Finalmente comprese e tornò serio.
«Mamma ha già chiamato il centro, mi cercano loro il posto, in queste cose fanno in fretta, credo che sarà l'ospedale di Melzo.»
«E poi?»
«Poi non lo so, dopo i primi giorni dicono che starò meglio. Ricomincerò andando da loro. Se ce la faccio.»
«Ce la farai.»
«Lo spero. Ho messo tutti in imbarazzo, pure la nonna e il nonno. Il paese è piccolo, la gente ascolta dietro i muri e poi mormora», disse riferendosi alla scenata che aveva fatto nell'appartamento in centro della sorella.
Il tono era scoraggiato, ma volevo credere che ce l'avrebbe fatta.
-È solo stanco, ma questa volta starò attenta. Farà tutto come si deve, ci penserò io! - mi ripetevo nella testa indolenzita.
«L'importante è uscirne fuori, questo è il momento più brutto, ma poi passerà» gli dissi per incoraggiarlo, «saranno fieri di te dopo e poi vorrei proprio andare in Sicilia questa estate a vedere i templi degli dèi» gli dissi, immaginando quel viaggio di cui avevamo già parlato tante volte.
Sorrise, sentii quel soffio leggero nel microfono del cellulare.
«Ce la farai», gli ripetei di nuovo, come fossi stata il suo mentalist coach: «ci sentiamo stasera».
Non mi chiese niente riguardo la mia famiglia, come mi fossi giustificata al rientro, sapeva che quello che aveva fatto era una cosa da raccontare solo se costretti.
«Ciao Amore» mi rispose. Pronunciò di nuovo quella parola. Percepivo chiaramente che si aspettava una risposta, ma non era così che avrei voluto farlo. Interruppi subito la linea.
-Penserà che abbia riattaccato troppo in fretta per udirla- mi illusi.
Era più facile così che spiegare come i miei sogni sul principe azzurro e la sua dichiarazione d'amore, fossero circondati di rose senza spine.
Quando uscii dalla mia camera era molto tardi, dovevo correre al lavoro. Entrai in bagno, feci una doccia semifredda per risvegliare ogni mia fibra e mi truccai con abbondante correttore per coprire le occhiaie. Legai i capelli scuri, ancora umidi, in una coda bassa e mi vestii svogliatamente con abiti comodi e larghi dai colori scuri, per evitare di richiamare l'attenzione su eventuali macchie dovute alla mia sbadataggine nel servizio al bar.
Mia madre mi aspettava in cucina alle prese con il pranzo. Mio fratello viveva fuori, ma veniva quasi ogni giorno. La salutai in fretta, lei si lamentò del fatto che me ne andassi solo con una mela, ma la rincuorai che mi sarei comprata qualcosa al bar.
Restò a guardarmi, con il grembiule sopra i jeans elasticizzati a contenere il suo abbondante girovita e valorizzare quelle gambe magre e sproporzionate, con l'aria di chi aveva ancora tanto da dirmi. Mentre uscivo evitandola di proposito, sentii i suoi brontolii accompagnati da tutti quei discorsi sommessi che odiavo.
-Mai che prenda una posizione decisa, solo a brontolare è capace! –
Mi irritava con poche frasi ormai, a volte bastava uno sguardo.
Salii sull'autobus. Mentre seguivo il profilo delle case alternarsi nel panorama cittadino e confondersi come un arcobaleno di colori dopo il temporale, lasciai vagare la mente che ritornò alla conversazione avuta con Nunzio.
Sua sorella sarebbe tornata a parlare della notte trascorsa, chissà se avrebbe raccontato proprio tutto a tutti. Mi immaginavo Saverio mangiare in silenzio in un angolo. Riuscivo a vederlo, a percepire ogni suo sentimento: il disagio, la rabbia, l'impotenza. Se fossi stata lì, a vivere dentro un'altra vita, sarei stata lui e non certo Nunzio: il ragazzo che non aveva regole perché maggiorenne.
-Chissà se le aveva mai avute o se le aveva infrante tutte-
A casa mia ogni figlio aveva rispettato le regole sino all'ultimo giorno di convivenza, pure mio fratello: l'erede maschio.
Ogni giovedì di Pasqua, tornava indelebile il ricordo di come mio padre fosse riuscito a scolpirne alcune nelle nostre menti esattamente come un Dio, le aveva incise sulla pietra.
Quel giorno lontano della mia infanzia, dopo aver speso nuovamente il suo tempo prima e dopo cena per cercare ovunque quei soldi che sosteneva essergli mancati dal portafogli, era sceso in cantina e lì nascosto, vi aveva trovato un microfono stereo.
Era risalito in casa come una furia con quell'oggetto e la sua scatola in mano, diretto verso mio fratello: io ero troppo piccola, avevo solo otto anni e mia sorella che ne aveva diciotto, pensava solo al suo fidanzato con il quale sarebbe rientrata più tardi dal centro commerciale, dove lavorava come commessa.
«Cos'è questo?» gli aveva detto diretto e sicuro con la voce pesante.
Giovanni, colui che era stato chiamato "il dono di Dio" , era impallidito.
«Un microfono...»
Mio padre, l'aveva guardato senza aggiungere parole. Lui aveva iniziato a giustificarsi, a dire che era di un amico, che glielo avrebbe ridato. Ma parlava a scatti: la colpa scolpita sul volto.
«Hai preso i soldi dal mio portafoglio?» aveva tuonato quella voce.
«No, papà», aveva provato a rispondere «no, lo giuro!»
Io mi ero appesa alla gonna di mia madre, che stava asciugando in uno strofinaccio le mani, dopo aver lavato le stoviglie della cena. Lei aveva cercato di mitigare la situazione, esortandolo a confessare il suo peccato.
«Dì al papà la verità. Chiedi scusa. Queste cose non si fanno», aveva ripetuto più volte come un brusio continuo di sottofondo.
Mio fratello invece, aveva provato a sfidarlo, alzando la testa:
«E' di Carlo. Se me lo dai glielo riporto» aveva risposto all'improvviso con presunzione ribelle.
Forse sperava di restituirlo, riottenere il denaro con cui l'aveva scambiato e in qualche modo farlo riapparire nelle tasche di papà. Ma la vera questione in quel momento, non l'aveva messa a fuoco.
Vidi mio padre slacciare la cintura dei pantaloni, sfilarla e procedere in un silenzio grave e carico, reggendola piegata a metà in una sola mano.
Mia madre si girò rapidamente, abbandonò il grembiule e lo strofinaccio sulla sedia più vicina, mi prese per un braccio e mi portò verso l'ingresso. In fretta mi infilò il cappotto della domenica e disse, quasi tra sé e sé, mentre varcavamo insieme la porta, che saremmo andate in chiesa a pregare per la funzione del Giovedì Santo.
Ricordo che pregai davvero quella sera.
Mentre il parroco si prostrava umilmente a lavare i piedi dei maschietti scelti tra quelli della prossima cresima, io guardavo il canovaccio sulle sue ginocchia piegate a terra e pensavo a mio fratello che avrebbe dovuto essere lì.
Invece era a casa a imparare i comandamenti meglio che al catechismo di quell'intero ultimo anno. Fu così che alcuni di essi si incisero anche nella mia testa.
Onora il padre e la madre, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la roba d'altri.
Onorare per me allora significava non rispondere, per mio padre invece significava obbedire.
Ora stavo iniziando a capire come l'onore fosse molto più di tutto questo.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro