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26 Dicembre 2014

"Guardai quelle mani da lavoratore,

le dita grosse,

le unghie sempre un po' sporche e

pensai a quanto fossero forti:

quelle mani forse,

ci avrebbero salvati tutti"

Appena entrai in quella sala color biscotto al fianco di Nunzio, scese il silenzio.

«E canziati n'anticchia pri la carusa» * sbottò la nonna, risentita.

Avvampai per il tono deciso con cui l'arzilla signora si era rivolta allo zio perché mi facesse spazio a tavola. Lo vidi chiudere la bocca e traslare rapido di una sedia. Io non parlavo siciliano, ma era stato facile capire. Infilai le mani tra le gambe accavallate e cercai lo sguardo di Nunzio. Il mio ragazzo prese posto al mio fianco, con un piglio cheto quanto un mare prima della tempesta.

La luce naturale filtrata dalla nebbia, si attenuò pian piano, fino a essere sostituita da quella più soffusa e delicata delle candele rosse, sparse tra l'agrifoglio del centrotavola. Ero rimasta per tutto il tempo zitta e buona al mio posto con un rigido sorriso stampato sul viso, seduta stretta tra zii, fidanzati, cugine, fratelli e nonni. Ma non erano né loro, né quello sconosciuto dialetto siculo a rendermi nervosa, almeno non quanto Nunzio.

Nel volgere delle ore, il suo atteggiamento era peggiorato. Continuava a far saltellare spasmodicamente una gamba. Avvertivo il persistente fruscio dei suoi jeans come un rumore di fondo insopportabile. Quando attaccò a sfregarsi le mani e le guance alternativamente, lo saettai con lo sguardo.

Sua madre era preoccupata quanto me. Ci girava attorno sparecchiando e ripulendo la tavola in cerchi sempre più concentrici.

«La smetti?», gli sussurrai sfiorandolo furtivamente sotto la tovaglia.

Lui non rispose e si passò la mano tremante tra i capelli. Poi si alzò in piedi:

«Io scendo un po'» dichiarò, rivolgendomi un'occhiata cupa e severa. Il suo era un ordine velato, ma non avevo intenzione di lasciare quella casa subito dopo il pranzo, non a Santo Stefano.

Così, lo sfidai: «Io rimango per il dolce».

La nonna sorrise soddisfatta: «E che te lo dico a fare?»

Avvertivo il peso dei suoi occhi, ma rimasi risoluta al mio posto costringendolo a imitarmi. Ogni suo respiro troppo profondo mi rivelava la sua rabbia, ma mi consolava sapere che quel round l'avevo vinto io.

Finito il dolce però, appoggiò il tovagliolo accanto al piattino: gesto inequivocabile.

Si alzò con tono gentile e pacato, questa volta, e ringraziò i nonni prima di scendere due piani per andare a casa sua. Anche io li salutai, abbandonando mesta quella sala che profumava di zucchero a velo, pandoro e crema al mascarpone, per infilare l'androne freddo e incolore delle scale.

Lo inseguii nell'appartamento di sotto sino alla sua camera, per giacere, abbandonata e sola, sul letto, mentre lui accendeva lo stereo.

«Vado a farmi un bagno.»

«Adesso?» chiesi.

«Sì! Adesso.»

Con il cuore che pompava in testa e gli occhi sgranati, iniziai a passare in rassegna ogni particolare sospetto di quella camera sommersa da magliette, attrezzi da palestra e porta ceneri improvvisati.

I miei sensi erano in allerta e io non li potevo ignorare. Così scattai al vecchio scrittoio cercando una risposta fra i piccoli cassetti. Un rumore mi fece sussultare: era sua madre, giunta al mio fianco. La guardai di sottecchi, non potendo nascondere le mie mani colte in fallo a rovistare in casa sua.

Invece Domenica non si scompose e si limitò a prendere il portafoglio dai pantaloni di suo figlio, lasciati sulla sedia, per frugarvi all'interno. Aveva lo stesso taglio allungato degli occhi di Nunzio, anche se in quel momento, la loro espressione corrucciata e tesa ricordava più la mia.

Quello che cercavamo ci era noto, ma non ne conoscevamo esattamente la forma. Poteva essere ovunque, ci affidavamo all'istinto per superare la frustrazione della nostra impotenza di fronte a quel nemico comune.

Mentre mi guardavo attorno cercando nuovi posti da violare, sua madre si accostò alla porta del bagno per valutare il tempo a nostra disposizione. Il suo volto divenne pallido:

«Nunzio! Nunzio! Nunziooo!»

La sua voce acuta risuonò per l'intero appartamento senza ricevere risposta. Mi avvicinai a quella donna a piccoli passi, distratta dalle sfumature rossastre dei suoi capelli che non bastavano a coprire la ricrescita bianca. La mia mente divagava, ma le mie orecchie erano piene del rumore dell'acqua della vasca che continuava a fluire.

Per Domenica non esistevo più. Corse verso la porta d'ingresso, si affacciò alle scale e urlò il nome del marito a gran voce. Le sue grida risalirono lungo la tromba vuota, per tutti i piani.

­-È solo un brutto film- provai a dirmi, chiudendo gli occhi e ruotando di nuovo verso la porta chiusa a chiave, sperando di risvegliarmi altrove, ma a riportarmi al presente, fu il rimbombo dei passi spediti di suo padre.

Antonio con i tratti del volto tesi sulla pelle ambrata, appoggiò entrambe le mani, con le dita aperte e biancastre sulla cornice di legno di quella vecchia e brutta porta dal vetro smerigliato al centro, velato all'interno da una ridicola tendina a fiori.

Guardai quelle mani da lavoratore, le dita grosse, le unghie sempre un po' sporche e pensai a quanto fossero forti: quelle mani, forse, ci avrebbero salvati tutti.

Lui prese un po' di rincorsa piegandosi all'indietro, sollevò il piede e sfondò il vetro.

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*E canziati n'anticchia pri la carusa= E spostati un po' per la ragazza.

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