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Capitolo VIII

Capitolo VIII


ՑՑՑ


                   Quello che sorprende Joshua, ora che è a casa e ripensa alla lunga giornata che si è quasi conclusa, è che fino ad ora non aveva mai conosciuto nessuno con la sua stessa capacità di vedere i morti e, nel giro di nemmeno un mese, è entrato a contatto con due persone come lui. La cosa da una parte lo conforta e, dall'altra, lo spaventa a morte. Dopo la confidenza che Robin gli ha fatto questo pomeriggio, però, nella sua testa è scattato qualcosa e, per quanto la personalità stravagante e leggermente sopra le righe di quel ragazzo lo abbia colpito in piena faccia nel modo più negativo possibile, quasi frastornandolo, Joshua per la prima volta nella sua vita, si è sentito sinceramente uguale a qualcuno.

   È vero che anche con Maria si è sentito così, ma dopo l'incontro con Robin ha capito una cosa: la signora Soria è più uno status da raggiungere; lei è cosciente, padrona delle sue paure, delle potenzialità stesse di quel dono. Lo sa gestire, lo mette a disposizione per aiutare le persone, ha sulle spalle una vita basata sulla ricerca della consapevolezza e dell'accettazione che, con serenità infinite, ha trovato.

   Robin, invece, vaga nella sua stessa confusione, nel suo stesso rifiuto e, per quanto gli abbia chiesto aiuto pensando di riceverne, Joshua sa di non poterglielo dare perché, semplicemente, sono sulla stessa barca.

   Paradossalmente, questo, lo conforta più di ogni altra cosa. Sapere che qualcuno, là fuori, in un mondo che non può vedere ciò che invece lui può, esiste qualcuno con le sue stesse insicurezze. Come se, in qualche modo, quell'aiuto che Robin cerca, sia in realtà qualcosa che possono darsi reciprocamente.

   Non nasconde che preferirebbe affrontare quel primo – e Joshua spera ultimo – compito accanto a Maria, proprio perché è più consapevole, più come lui vorrebbe essere ma, quasi come se per una volta qualcuno avesse ascoltato il suo volere, Robin gli sta chiedendo di affiancarlo e magari la cosa gioverà a entrambi, se decidesse di accettare quella proposta, anche se non ne è così sicuro. Dopotutto non ha idea di chi sia, che reazioni potrebbe avere e, nella peggiore delle ipotesi, Joshua non saprebbe gestire il terrore di entrambi perché, nella vita, ha scelto di non abituarsi a possedere quel dono. Questo non ha fatto altro che farlo sentire inadeguato, ogni giorno di più, da quando ha capito come stanno le cose.

   Sospira, e cerca di non pensare al passato, anche se questo torna sempre a tormentarlo, così prende il cellulare e lo sblocca.

   Robin gli ha dato il suo numero di telefono, sottolineando che, se deciderà di affrontare quella cosa insieme a lui, gli basterà mandargli un messaggio. Joshua è sdraiato sul suo letto, con Artax steso accanto a lui con la testa sulle sue gambe; lo accarezza distrattamente con una mano, mentre l'altra apre la chat del figlio della signora Soria e la fissa, indeciso.

   Non sa che fare. Da un lato pensa che non sia una buona idea portarlo con lui e, dall'altra, non vuole affrontare da solo quel cammino. Passa minuti interi così, a fissare la tastiera, a guardare la foto profilo che Robin ha scelto – è lui, di schiena, che guarda un tramonto. Controlla l'ultimo accesso, ma a quanto pare lo ha disabilitato e non può vederlo. Poi lo schermo si spegne per i troppi minuti di inattività e, nel riflesso nero del vetro, Joshua vede di nuovo la presenza oscura che ormai vive dietro la sua immagine. Strizza gli occhi e lascia cadere l'apparecchio sulla coperta. Artax alza la testa, sussultando per lo spavento.

   «Scusa, Art. Non lo posso controllare», gli sorride, gli gratta il pelo dietro l'orecchio, e lui si calma. Joshua torna a guardare il soffitto e si rende conto di non aver pensato a quel dettaglio: il patto con l'entità nello specchio. Si domanda se immischiare Robin in quella faccenda non possa, in qualche modo, metterlo in pericolo. Non gli ha detto nulla a proposito di un ipotetico coinvolgimento di un'altra persona, ha parlato solo di scoprire il segreto e poi rivelarglielo, dopodiché sarà libero, tutto qui.

   Tutto qui. Detto in certi termini sembra facile, ma non lo è affatto.

   Prende di nuovo il telefono, lo sblocca e torna sulla chat di Robin. Non gli costa niente provare; se falliranno, potrà sempre riprovarci da solo, ma almeno un tentativo in compagnia di qualcuno vuole farlo, sebbene abbia paura che possano non vedere le stesse cose, che Robin possa risultare più coraggioso di lui – in controllo della situazione, sebbene da come gli si è presentato non sembri il tipo - che la bibliotecaria non collabori, che la faccenda diventi ingestibile.

   Come al solito ti stai auto sabotando, pensa e, con qualche dubbio ancora incastrato nelle sue insicurezza, alla fine pigia le dita sulla tastiera col cuore che gli batte sotto ai polpastrelli.

    «Robin, sono Joshua. Joshua Foster. Ho pensato alla tua proposta e credo che si possa fare. Intendo l'incontro con la bibliotecaria. Noi due, insieme.»

   Sotto al nome del suo interlocutore virtuale, compare immediatamente lo stato online. La risposta, infatti, arriva immediatamente dopo, come se l'altro fosse stato in attesa, col telefono tra le mani, che Joshua gli scrivesse.

   «D'accordo, facciamo domani mattina?»

   «Va bene, ci vediamo all'entrata di King's Cross alle nove e mezza, se per te non ci sono problemi.»

   «Vediamoci dentro, al bar vicino la scalinata che porta alle banchine. Facciamo colazione con calma e poi ci avviamo, no?»

   Joshua alza gli occhi al cielo. Con un moto di nervoso comincia a scrivere velocemente sulla tastiera. «Io eviterei i posti affollati. È un consiglio che sento di dare anche a te, dopo quello che mi hai detto.» Joshua non sa quante visioni abbia avuto Robin, fino ad ora, ma sa che non ha ancora idea del fatto che,i luoghi affollati, nascondono mostri – di ogni tipo, questo è vero, ma tra assassini e stupratori, malviventi e ladri, ci sono anche i fantasmi, invisibili anche loro quasi a chiunque. Non sa perché si manifestino di più quando le folle sono gremite, ma è per questo che Joshua evita le stazioni centrali, i concerti o le strade del centro come se fossero la peste. Si rende conto che per lui questa è quasi un'abitudine - si chiama fuggire, ma è pur sempre un'abitudine, nella vita che conduce – e che forse, Robin, questo ancora non lo ha interiorizzato.

   Non può vedere la sua espressione facciale ma, dal messaggio che riceve, sa che ha capito cosa intende dire. «Ho capito. O almeno credo di aver capito cosa intendi. Ah, per quanto riguarda mia madre, preferirei non le dicessi che vengo con te.»

   «Non le hai ancora parlato?»

   «No. Per ora non me la sento. E non credo che lo farò in tempi brevi.»

   Joshua non riesce proprio a capirlo, a dirla tutta. È vero che non conosce a fondo il rapporto tra Robin e Maria ma, per quanto lo riguarda, se avesse avuto dal principio qualcuno che poteva almeno capirlo, avrebbe preso le cose sicuramente in modo diverso e di questo è certo, ma è difficile immedesimarsi in qualcun altro. In verità è sempre stato difficile farlo. Così evita di approfondire il discorso. Non sapendo proprio cosa dire, cerca un modo per girarci intorno, senza sembrare troppo deluso – arrabbiato? Geloso? – da quel fatto.

   Si batte l'indice sul mento, poi inizia a pigiare di nuovo le dita sulla tastiera. «Capisco. Quando te la sentirai lo farai, magari ora non è il tuo momento», congratulazioni, Joshua. Bella frase fatta, complimenti. «Ci vediamo domani, allora.»

   Robin non tarda a rispondere con un banalissimo «A domani», che chiude lì quella conversazione, e Joshua ne è quasi contento.

   Continua a non capire che tipo di persona sia, e gli rimane difficile farlo se lui continua a dimostrarsi prima una cosa – insicuro e goffo – e poi un'altra – silenzioso e distante. Si chiede se anche lui sia così, per colpa del dono. Si chiede se anche lui risulti, agli occhi degli altri, così dannatamente spezzato.

   Blocca il telefono e lo poggia sul comodino, evitando ancora di vedere la propria immagine riflessa nel vetro e, sconsolato, si mette su un fianco, nel tentativo di prendere sonno.

    Chiude gli occhi, rilassa le spalle, rilascia il diaframma.

   «E così, domani è il grande giorno!» La voce è falsata, lontana, carica di respiri affannati. Affamati. Joshua sente il languore nella distorta nota stridente di quell'incubo e, col cuore che batte forte e sembra in procinto di scendere giù, nell'oblio delle sue paure, spalanca gli occhi.

   Non c'è nessuno, di fronte a lui, e forse è questo che lo terrorizza di più.

   Preferirebbe vedere qualcosa, qualunque cosa, pur di non razionalizzare che, quella voce, è dentro di lui e ha cominciato a somigliare alla sua.

ՑՑՑ

   Il mattino seguente Joshua si sveglia con il mal di testa e, il primo pensiero che gli balena quando spalanca gli occhi, è che non ne può più. Sono giorni che si sveglia così, e la stanchezza è ormai una costante delle sue giornate, ma non riesce a convincerci come ci riusciva prima, accettandola semplicemente.

   Sa che è una cosa positiva, quella di desiderare ardentemente di cambiare le cose, ma allo stesso tempo è stanco, esausto, completamente soggiogato dai mille stati d'animo che si ritrova a provare per colpa della sua complessa personalità, forgiata su una vita di solitudine e di visioni che non gli appartengono. Almeno per ora.

   Sospira, portandosi una mano sulla fronte, mentre guarda il soffitto. Oggi le cose potrebbero cambiare, questo è vero, ma il passato lo perseguita, le sue paure lo perseguitano, la sua insicurezza lo perseguita, e non può fare molto altro che alzarsi e sperare che, almeno oggi, la vita possa regalargli qualcosa.

   Qualunque cosa, purché sia un cambiamento.

   L'incontro con Robin è fissato per le nove e mezza e, visti i recenti sviluppi della sua vita, decide che forse è meglio iniziare a prepararsi immediatamente, perché se c'è una cosa che non vuole fare, è guardarsi troppo allo specchio. E questo, di certo, non semplificherà le cose.

   Così si alza dal letto, si dirige subito in bagno e si infila sotto la doccia. Porta con sé lo spazzolino e il dentifricio: laverà i denti sotto l'acqua, così eviterà di farlo di fronte al lavandino. È una buona idea, quella di evitare tutte le superfici riflettenti, almeno per ora. Non gli costa niente farlo per un po', se il premio sarà davvero la libertà, una volta conclusa quella specie di missione che l'entità gli ha dato. Può conviverci; sta affrontando paure più grosse, da più tempo, e sono decisamente imprevedibile. Questa, invece, richiede solo di non guardare lo specchio.

   Non devo guardare lo specchio, si ripete, mentre si insapona la testa, con gli occhi chiusi, perché in realtà ha paura.

   Ha paura di vedere quella cosa nell'acqua, nel riflesso del rubinetto, nel vetro del box doccia e dietro ai suoi occhi chiusi.

   Dietro le sue spalle, quando non può vederla.

   Può resistere, può farlo, ma dentro l'ansia lo divora e trema. Si appoggia con la schiena alla parete piastrellata della doccia e scivola giù. Stringe le ginocchia al petto, mentre si guarda intorno e la solitudine è l'unica cosa che lo fissa dal vuoto di quella stanza.

   Si sente solo e osservato. Non ha mai avuto così paura del niente come in questo momento.

ՑՑՑ

   Scende dall'autobus e un raggio di sole gli entra negli occhi, accecandolo. Si copre con una mano, mentre l'altra è stretta alla spallina del suo zainetto. La fermata lo ha portato a Pancras Square e, a quell'ora del mattino, è meno gremita di quanto dovrebbe, siccome la maggior parte delle persone sono a lavoro o a scuola. La cosa lo risolleva un po', e palesa quel sollievo con un sospiro.

   Si incammina verso la stazione di King's Cross dove Robin lo aspetta già: lo individua immediatamente. Ha addosso una camicia bianca con i primi due bottoni slacciati, dentro un paio di pantaloni blu notte, gessati, con le tasche - in cui ha infilato le mani. Si guarda intorno, con un'aria distratta che lo fa quasi sembrare il personaggio che gli piace tanto interpretare, ovvero il tipo inavvicinabile, sicuro di sé e pieno di ragazze al seguito, che si finge disinteressato al mondo intero.

   A Joshua scappa un sorriso al pensiero che, da come si è presentato, sembri tutto l'opposto.

   Quando i loro sguardi si incrociano, alzano entrambi una mano per salutarsi e Joshua gli va incontro.

   «Buongiorno, sei puntuale», osserva Robin, dopo aver controllato l'orologio che ha al polso.

   Joshua alza le spalle. «E tu sei in anticipo.»

   «Non c'era molto traffico.»

   «No, nemmeno dalla mia parte. Vengo dal lato opposto al tuo.» Indica con un pollice dietro di sé.

   «Ah, sei a Bank

   «Sono più verso Lime House. Deptford Bridge, quelle parti lì, insomma.»

   «Non sono molto pratico delle altre zone di Londra, a essere sincero. Vogliamo andare?», gli chiede Robin, facendogli cenno con una mano di avviarsi e Joshua risponde con un segno di assenso con la testa.

   «Pensavo che voi ricchi giraste molto.» La tua sincerità è il motivo per cui sei solo, Joshua, pensa, poi alza gli occhi al cielo, ah, no, quello è perché sei un asociale di merda.

   Al contrario di ciò che pensava, Robin ridacchia. «Mio padre ci ha portati ovunque, a me e mia madre. Ho vissuto due anni a Washington, quando avevo dieci anni, ho passato un mese e mezzo a Adelaide, in Australia. Ho visitato mezza Spagna, ho visto l'aurora boreale a Abisko, in Svezia. Ho mangiato pizza napoletana in Italia e abbiamo fatto un safari in Kenya. Insomma, ho girato un sacco, eppure Londra è ancora sconosciuta, per me.» C'è una certa mestizia, in quell'ultimo sorriso che Robin rivolge al niente, e sembra fare di tutto per non mostrarglielo.

   Joshua arriccia le labbra; torna a guardare avanti, sulla strada, ricordandosi improvvisamente che hanno una meta e che ha preparato sulla mappa del cellulare il tragitto da seguire. Così lo tira fuori e indica a Robin di girare a destra, in un vicolo, poco prima della British Library.

   «Tuo padre deve viaggiare spesso per lavoro.»

   «Mio padre vuole viaggiare spesso per lavoro. Diciamo che, fino a qualche anno fa, ci portava con lui. Poi ha deciso che siamo di troppo. Mia madre pensa che ci sia un'altra donna, e che usi la scusa del lavoro per portarsela ovunque.»

   «E tu cosa pensi?», azzarda Joshua.

   «Che non mi importa. Sono certo che prima o poi sparirà dalla nostra vita e non mi interessano i motivi. Non mi va di odiarlo solo perché a un certo punto ha deciso di abbandonarci per stare con qualcun altro. Non so cosa farei io nella sua stessa situazione e non me la sento di giudicarlo.»

   Joshua vorrebbe chiedergli se è questo a dividerlo da sua madre, a non dargli l'opportunità di comunicare con lei in modo normale, fisiologico. Forse il signor Soria, chiunque egli sia, è stato il motivo che ha rotto qualcosa tra Robin e Maria. Joshua cerca di immedesimarsi, di pensare a una donna che improvvisamente viene messa da parte per un'altra e in quelli di un figlio, che non vuole rovinare l'ideale che si è creato di suo padre, cercando di ignorare quello che sta succedendo e, probabilmente, fingendo che il dolore di sua madre non sia un suo problema.

   Hanno viaggiato, passato del tempo assieme. Joshua immagina le foto negli album, ricche di momenti felici, immortalati lì, che saranno per sempre motivo di allegria ma anche di grande sofferenza. Qualcosa a cui aggrapparsi: il passato.

   Lui, che non ha mai viaggiato in vita sua, che non sa cosa vuol dire avere una vera famiglia, prova dentro un senso di dolore e, allo stesso tempo, di profonda invidia.

   Forse reagirebbe come Robin; forse nasconderebbe la delusione tramutandola in indifferenza, ma non ha idea di cosa voglia dire tutto questo, in effetti. Non lo saprà mai, perché sua madre è morta troppo presto e suo padre è sparito nel nulla.

   La conversazione cade lì; Robin non sembra propenso a dire altro e Joshua, sinceramente, non vuole approfondire quell'argomento. Ha un altro obiettivo, oggi e non può perdere la concentrazione.

   Il GPS del telefono gli comunica che sono arrivati a destinazione. Quando alza la testa e si ritrova di fronte a una porta tipicamente inglese, dipinta completamente di giallo, sull'insegna: Biblioteca Cat & Mouse.

   Sono arrivati.

   Joshua stringe la mano intorno alla maniglia e, con un gesto esitante, la gira. Quando apre la porta, ci sono due scalini che scendono verso una pavimentazione a scacchi bianchi e neri, che quasi non vede e rischia di inciampare. La sala che si presenta loro davanti è piccola, contiene a malapena quattro scaffali, ma così pieni di libri, e posti in modo così disordinato, che sembrano in procinto di cadere giù da un momento all'altro.

  Entrano lì, passando in mezzo al disordine e alla polvere. Alcuni libri sono a terra, con le copertine strappate o bruciate. Oltrepassano la prima sala, trovandosi poi di fronte a un arco, che divide la libreria in due aree.

   Quella che si presenta loro davanti è completamente diversa da quella in cui sono appena passati: è ordinata e un fascio di luce penetra da una vetrata rotonda, che ricorda quelle decorative dentro le cattedrali antiche.

   «C'è nessuno?», chiede Robin, e Joshua sussulta sulle spalle per lo spavento. Gli tira un'occhiataccia, che il figlio della signora Soria non percepisce, siccome sta continuando a guardarsi intorno, mentre entrano nella nuova sala cautamente, cercando di non calpestare nulla.

   «C'è nessuno?», ripete Robin, ma si zittisce immediatamente, fissando dritto di fronte a sé.

   Joshua segue la traiettoria del suo sguardo, ritrovandosi a guardare il fondo della stanza. C'è una scrivania di legno; pare antica – no, non è antica, è solo vecchia. Le gambe sono completamente mangiate dai tarli e sembra in procinto di spezzarsi in due da un momento all'altro. Sopra alla superficie c'è un portapenne e una lampada ministeriale accesa, ma dalla luce fioca. Vicino a quel cumulo di cianfrusaglie vecchie, in piedi e di schiena, c'è una figura immobile. Ha i capelli rossi, corti. Una camicetta beige infilata dentro una lunga gonna a vita alta. Un paio di scarpe Mary Jane, come quelle che sua nonna portava e che ha visto nelle sue vecchie foto di quando era giovane.

   Joshua resta immobile; sente lo sguardo di Robin addosso ma non riesce a girarsi. È così che succede, quando vede un morto. Si pietrifica, non riesce più a pensare e tutto ciò che fa è tremare. Solo che non può fallire, non può lasciarsi prendere dal panico proprio ora. Non adesso che è a tanto così dalla soluzione.

   Non ora che è a un passo dalla libertà.

   Chiude gli occhi, prende un respiro profondo. Si aggrappa con una mano a uno scaffale, e fa un passo avanti. Robin lo imita, continuando a spostare lo sguardo da lui, al fantasma.

   «Janine?», la chiama, infine.

   La figura di spalle sussulta. Si gira di scatto. Ha gli occhi spalancati e gli occhiali da vista rotondi le cadono sulla punta del naso; stringe al petto un libro, che le cade dalle mani quando, spaventata, caccia un urlo che li prende alla sprovvista.

   Robin urla a sua volta, e finisce a terra, sbattendo il sedere contro il pavimento. Indietreggia di qualche passo, facendosi leva con le mani, fino a incontrare una parete che gli impedisce di proseguire quel tragitto.

   Joshua li osserva entrambi e, per la prima volta in vita sua, non prova paura, ma solo un'inspiegabile confusione.

   Ha immaginato quell'incontro in milioni di modi ma, una scena patetica come quella, non è mai rientrata nel suo immaginario.

Fine Capitolo VIII


(Scritta con il prompt PASSATO (M1) del COWT 12 indetto da Lande di Fandom.)

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