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Capitolo II

Capitolo II

ՑՑՑ


             È la disperazione che lo convince a prendere in considerazione la possibilità di far visita alla sensitiva, quella di cui gli ha parlato sua nonna; o, forse, è  semplicemente il desiderio di trovare una svolta in quella vita piatta come l'elettrocardiogramma di un morto, ma dopo averne parlato con Fred – il primo e unico vero amico che ha mai avuto, alla fine, ha scelto di chiamare la donna e, anche se si trova col cellulare nella mano, il numero già composto e in bilico tra il premere quel tasto verde oppure no, non si sente pronto a fare quel passo. Per questo non vuole farlo da solo.

   Fred è l'unico essere umano, oltre la nonna, a sapere di quella maledizione che è costretto a vivere. La cosa più assurda di Fred, però, è che non fa altro che domandargli i dettagli più macabri delle sue visioni e Joshua evitava di accontentarlo, ogni volta che succede. Gli vuole bene e non ha motivo di mettergli addosso incubi che non gli appartengono, sebbene gli è sempre sembrato che sia quasi attratto dal macabro, il che è quasi paradossale.

   A volte si domanda se Fred vivrebbe più serenamente quel dono. La risposta, però, è sempre la stessa: viverlo è diverso da immaginarlo.

   «Provaci. Non vuole nemmeno i tuoi soldi. Dopo anni di fattucchiere, maghe e chissà quali altre ciarlatane, immagino tu sia in grado di riconoscerle al primo colpo, no?», chiede Fred e Joshua rimane in silenzio di fronte a quella che è una verità sprovvista di contraddizioni. Meglio provare, piuttosto che rimanere in stallo ad aspettare che le cose possano sistemarsi da sole. Oltretutto non c'è un modo per farlo autonomamente, visto che è una vita che ci provava senza alcun risultato e, forse, è arrivato il momento di chiedere aiuto seriamente, senza rimandare la cosa per chissà quale assurdo autolesionismo.

   Alza gli occhi dal suo caffè e, con un labbro stretto tra i denti, ci pensa. «Dopotutto che ho da perdere?»

   Fred si infila una mano tra la massa di capelli ricci e scuri, poi alza le spalle. «Ogni tentativo è una probabilità di cambiare le cose. Josh, ti conosco da una vita e non ti ho mai visto davvero felice. Se non vuoi farlo per te, fallo per me e tua nonna, che ormai le sei rimasto solo tu. O almeno finché tuo padre non tornerà.»

   «Mio padre non tornerà. Di questo sono certo. E non chiamarmi Josh, lo sai che lo odio! E... tornando a noi, se anche questa tipa si rivelasse una fanatica del genere?»

   «Be', te ne andrai e non ci tornerai mai più. Questo è il registro che si ripete ogni volta che provi ad andare da queste santone, no? Solo che, stavolta, mi pare di capire che le cose siano leggermente diverse dal solito. Io ci proverei. Male che vada ti strapperà via un rene e lo venderà al mercato nero. Magari fa così per adescare potenziali donatori d'organi inconsapevoli.»

   Joshua ride – Fred è l'unico che riesce a farglielo fare in modo genuino. «Sei straordinariamente di conforto, sai?»

   «Per questo ti affidi a me, quando hai bisogno di un consiglio, no?»

   Dunque Joshua si ritrova su un autobus che lo porterà verso una zona residenziale che non ha mai visitato, ma che conosce per fama: Richmond Upon Thames. L'aria fredda e grigia di Londra non la rende meno ospitale di quanto sembri e tutte quelle villette a schiera sembrano una pantomima irreale di un film anni '60. Dopo aver attraversato un grosso cancello in ferro battuto, si ritrova a camminare lungo un vialetto deserto, fatta eccezione per alcuni ragazzini che giocano a palla in un giardino e qualche automobile parcheggiata di fronte ai garage. Si guarda intorno, domandandosi come debba essere vivere al di fuori del caos cittadino che lui è costretto a sentire ogni giorno dal suo appartamento a Deptford Bridge. Abbassa poi lo sguardo sul bigliettino da visita che tiene tra le mani, memorizzando il numero civico, non troppo lontano dalla sua posizione. Lo raggiunge e subito lo accoglie una tipica villetta londinese, bianca, abbellita con una vite di glicine che si arrampicava lungo le pareti esterne, decorate da ordinatissime finestre con sopra frontoni classici. La porta di ingresso – nera d'ebano, è posta sulla parte sinistra dell'abitazione e, per raggiungerla, deve salire tre gradini. Una casa normale, che non gli dà l'idea che vi abiti una specie di sensitiva – o qualcuno che ci somigliava. Anche se, dopotutto, nemmeno lui dà l'idea di vedere gente morta, a guardarlo di primo impatto.

   Esitando qualche istante, sentendosi davvero stupido per aver di nuovo dato una chance a quel mondo poco credibile, con un sospiro nervoso usa il picchiotto per bussare alla porta. Il suono rimbomba nelle mura domestiche, arrivando anche alle sue orecchie e, quando ad accoglierlo è una donna dalla carnagione scura, capelli lisci fino alle spalle, occhi verdi penetranti e vestita con abiti sportivi, ma allo stesso tempo estremamente eleganti, tenta un sorriso.

   «Il signor Foster, immagino», prova lei e, quando Joshua annuisce, si scosta dalla porta invitandolo ad entrare. Quando lui è dentro si ritrova in un immenso salotto ben arredato. Ogni mobile dà l'idea di non aver mai avuto il privilegio di essere stato vissuto, per quanto è ben tenuto e splendente. Al centro della sala si trova un pianoforte a coda nero; le sue quattro zampe sono adagiate su un tappeto persiano e, nell'ala sinistra, una cucina a giorno gigantesca e moderna prende tutta la parete, risultando accogliente sotto la luce pomeridiana del sole. Nell'ala destra, invece, c'è una stanza simile ad uno studio, con un tavolo rotondo di legno e un camino in muratura. Sopra alla cappa è appesa una balestra, con alcuni quadrucci rotondi che la incorniciano. Non riesce a distinguere bene le figure rappresentate al loro interno, ma sembrano vecchie foto di famiglia, siccome sono ingiallite. Di fronte a sé – e non troppo lontano dal pianoforte, una rampa di scale campeggia solenne e, proprio da lì, una donna sta iniziando a scendere, rivolgendogli un sorriso. Ha i capelli castani raccolti in uno chignon e un tailleur bianco dall'aria fresca. Un paio di occhi celesti come il ghiaccio, ma accoglienti come la sua casa.

   «Signora Soria, il suo appuntamento è arrivato», comunica quella che ormai Joshua ha identificato come la domestica. L'altra scende le scale e li raggiunse. Quando gli è di fronte, Joshua reprime l'istinto di alzare un sopracciglio. È... ordinaria, una donna come un'altra, solo più elegante e posata. Bellissima, senza alcun dubbio, ha due occhi anche lui. Nulla a che vedere con le sensitive con cui ha avuto a che fare in passato; stravaganti e sopra le righe. Tutta scena, e niente di concreto tra le mani.

   «Puoi andare, Dolores. Io e Joshua abbiamo molto di cui parlare.»

La domestica se ne va lasciandogli un saluto riverente, poi sparisce al piano di sopra e, quando non è più visibile, la signora Soria torna a guardarlo. Gli prende le mani con un inaspettato calore.

   «Joshua. Posso chiamarti così, vero?»

   «Certo, sì. Sì, nessun problema», boccheggia.

   «Mi chiamo Maria, ma penso tu lo sappia già. Sono felice che tu abbia deciso di venire. Tua nonna mi ha raccontato un po' la tua situazione e», si interrompe, girandosi intorno, invitandolo a fare indirettamente lo stesso, e il suo tono si fa più confidenziale, «Mi ha anche detto che hai avuto altri incontri con alcune sensitive con cui le cose non sono andate esattamente come ti aspettavi. Cercherò di metterti a tuo agio; sappi che non faccio cose come andare in trance o leggere il futuro nelle carte. Tendo a non credere nemmeno io a queste sceneggiate.»

   «La ringrazio per avermelo detto. Questo mi conforta enormemente. Insomma, lei non ha idea con chi ho avuto a che fare, anche se può sembrare assurdo.»

   «Non è assurdo.» La signora Soria gli strizza l'occhio e, dopo un sospiro leggero come la brezza estiva – piacevole – gli fa cenno di raggiungere l'ala destra insieme a lei. Joshua si guarda di nuovo intorno, studiando quell'ambiente così diverso rispetto al resto della casa. Il camino è grazioso, anche se spento, e la finestra è nascosta dal sottile strato di una tenda celeste. Persino il colore della carta da parati gli sembra più chiara, rispetto a quelle dell'intera abitazione. Una sorta di piccola bolla rassicurante.

   Continua a pensare a quanto quella normalità sia quasi sospetta, ma si limita a lasciarsi alle spalle quelle congetture, quando lei gli sposta la sedia per farlo sedere. Lui obbedisce e la donna, poco dopo, lo imita prendendo posto accanto a lui.

   «So che nutri ancora un certo scetticismo nei miei riguardi e sappi che, al tempo, ne nutrivo anch'io per le persone come me. Mia madre mi portava da santoni, fattucchiere, gente che non ha mai avuto una sola risposta alle mie domande. Alla fine ci si abitua, con la crescita e si scende a patti con la propria sensibilità, ma se avessi avuto una guida, da giovane, avrei capito molto prima che cosa sono

   Joshua tenta un sorriso, ma è impacciato e si sente a disagio. È tutto così familiare, che gli vengono i brividi. «È già frustrante di per sé, questa situazione. Sapere che qualcuno ci specula sopra solo per guadagnare dei soldi è abbastanza destabilizzante. Mi chiedo perché lei, invece, operi gratis.»

   «Perché il mio non è un lavoro, Joshua. È solo un aiuto che voglio dare alle persone come me e te, perse in qualcosa di troppo grande – troppo al di fuori della razionalità, per poterla accettare e soprattutto capire. Quello che le altre persone che hai incontrato non hanno mai capito è che questo non è un gioco. Qui si parla di possedere una dote innata che ci rende tramiti di questo mondo verso un altro. Un mondo che non ci appartiene; non ancora, almeno, e che ci fa paura. I morti e i vivi non dovrebbero coesistere. Ci sono delle fasi, nell'esistenza, che non vanno mescolate. La vita è l'inizio, la morte è la fine. Se le due cose si incontrano cosa ottieni?»

   «Non saprei. Me ne tengo ben distante, per questo quando succede cerco di non guardare», ammette, e lei non sembra stupita da quella risposta.

   «Ma, se non guardi, loro continuano ad essere lì, con te. È un pensiero terribile, ma è così e tu lo sai benissimo. Quello che devi imparare a fare è non fuggire, ma abbracciare questa opportunità.»

   Joshua si esibisce in una risata senza entusiasmo. «Opportunità? Questo è un incubo, signora Soria. Avere un'opportunità è molto lontano da tutto questo. Non esiste niente di positivo in qualcosa che muore. La domanda è: perché, questa condanna, è capitata proprio a me?»

   «Usi termini sbagliati, per questo non riesci ad accettarlo.»

   Alza le spalle, nervoso, e smette di guardarla. «E io non sono qui per imparare ad accettarlo, ma per riuscire a sbarazzarmene e vivere una vita normale. Come fa lei.»

   «Non ho dato una svolta alla mia vita perché ho smesso di vedere quello che non volevo vedere. L'ho data perché ci sono scesa a patti, con questo dono. Io li vedo, Joshua. Sono con me, mi parlano, ma se impari a conoscerli, loro faranno lo stesso con te e ti lasceranno in pace, se sarai tu a non volerli.»

   «E io non li voglio», è la sua laconica e lamentosa risposta.

   Maria Soria gli riserva un'occhiata indecifrabile. Gli dà la sensazione che lo stia studiando, poi sospira. «Lo vedremo. Sei venuto qui senza la costrizione di nessuno; allo stesso modo puoi andartene e chiudere qui questo nostro colloquio. Ma so per certo che non è quello che vuoi. So – lo sento – che dentro di te vuoi andare a fondo perché vuoi muoverti da questa staticità che ti spaventa. La vita, per te, è ancora lunga. Non puoi fermarti proprio ora. Non puoi vivere ignorando consapevolmente quello che ti è stato concesso di poter fare.»

   «È l'unico modo che ho per non impazzire.»

   La signora Soria sbuffa via una risata che sa di amaro e di dolce. «Ma questo non è vivere.»

   Segue un silenzio assordante; gli ferisce le orecchie. Quella casa e la sua quiete gli cadono sulla testa come un macigno oltremodo insostenibile. Eppure, Joshua, per la prima volta in vita sua si sente sotto il giudizio di qualcuno che forse può capirlo sul serio, qualcuno che sa come si sente. Vorrebbe infilare la porta e andare via, fingere che quell'incontro non sia mai avvenuto ma, da una parte, vuole restare e scoprire quanto in comune hanno. Lei aspetta una risposta; una qualunque. Lui si sente di aprire per un attimo la mente e permettere al cervello di ricordare quantomeno uno di quegli episodi inquietanti e raccontarglielo. Solo per capire quanto davvero fossero simili.

   Prende un lungo respiro e inizia a tartassarsi le pellicine delle mani. «Ho visto un uomo, giorni fa. Ha attraversato la strada all'improvviso. Ho frenato bruscamente e lui mi ha guardato per un attimo», racconta, omettendo di proposito la parte in cui si riconosceva in quella visione.

   «Che cosa ti ha detto?»

   Fa spallucce, deluso. «Niente. Mi ha fissato con occhi vuoti, privi di quella luce che chiunque attribuirebbe alla vita. Portava sulle spalle una bara chiusa. Forse la sua. Forse era qualcuno a cui stavano per fare un funerale.»

   «O qualcuno che stava per morire e voleva che lo evitassi.»

   Joshua ha un brivido che gli percorre la schiena. Non ha mai pensato ad una prospettiva del genere, quando ha quelle visioni. Ha sempre pensato a delle persone che avevano già fatto i conti con la propria dipartita e che si sono semplicemente infilate lungo il suo cammino, mentre se ne vanno nell'aldilà, o qualsiasi cosa ci sia dopo. Un concetto di certo inquietante, ma meno di quella possibilità che la Signora Soria gli ha appena rifilato.

   «Non ho bisogno anche di sentirmi in colpa per non aver avuto la prontezza di salvare qualcuno.»

   «La mia è solo una deduzione. Ognuno di noi viene al mondo con una missione, un obiettivo. Magari il tuo è quello di aiutare le persone a non morire.»

   «E il suo?», chiede, lapidario. «Qual è il suo obiettivo, secondo lei? Perché lei ha questa capacità?»

   «Io risolvo i problemi dei vivi, Joshua. Sono i morti, a chiedermelo. Vengono da me e mi dicono cosa vogliono che faccia per assicurare loro un trapasso sereno, privo di rimpianti nei riguardi di chi rimane. Chi se ne va senza aver risolto qualcosa non abbandona mai questo mondo per davvero», spiega lei, e gli prende una mano. È gelida, a differenza di poco fa. Joshua ci mette tutto se stesso per non incrociare i suoi occhi.

   «Loro non mi hanno mai parlato. Se non lo fanno, come possono pretendere che io li aiuti? E io non voglio aiutarli, questa cosa mi... mi terrorizza. Parlare con loro mi terrorizza.»

   «Cosa ti spaventa di loro? Cosa ti fa alzare un muro così alto tra te e qualcuno che cerca solo aiuto? Vivi o morti, che differenza fa?»

   È una domanda che si è posto molte volte. Non c'è ragione di aver paura, perché dopotutto nessuna di quelle persone gli ha mai fatto del male. Solo che la morte è un concetto che Joshua non riesce ancora a capire totalmente. Ha un pessimo rapporto con l'idea di non esistere più, figurarsi di vedersi davanti un corpo consumato dall'assenza di sangue e battiti cardiaci; lo specchio perfetto di un'esistenza che, alla fine, porta solo a putrefazione e vermi; nessuna ascesa al creatore. Nessuna anima che viene portata via. Perché se ha capito una cosa, è che il corpo umano è una macchina che ad un certo punto smette di funzionare e si ferma. Poi si consuma. Poi diventa polvere, e infine il nulla.

   Eppure quelle persone lui le vede, e non riesce ancora a capacitarsi del perché. E, se potesse , sorvolerebbe sulla motivazione; gli basta che quel supplizio trovi una fine.

   Tutto qui.

   «Tu credi in Dio, Joshua?», gli chiede lei, ad un tratto ed è una domanda che che lo spiazza, ma è abbastanza certo della risposta. Lo è sempre stato.

   «No, non ci credo.»

   «Ma mi stai raccontando di vedere i morti. Tu li vedi come se fossero il male e Il male si manifesta in molti modi.»

   «Il fatto che possa essere il diavolo, come dice lei, non significa che debba per forza esistere un dio. È molto più probabile che sia il male a muovere il mondo e che la forza più potente della nostra esistenza non sia altro che questo, piuttosto che un essere celato e misericordioso. La storia del mondo ha avuto bisogno di crearsela, una figura così, magari proprio per convincersi che non c'è solo oscurità alla guida della vita.»

   «È un concetto molto pessimistico.»

   «È un concetto puramente ideologico. Un mio pensiero, per lo più ma... se lei vedesse quello che vedo io – o meglio, se lei sentisse quello che sento io, quando vede ciò che vede, forse il suo pensiero non sarebbe tanto lontano dal mio.»

   Maria Soria sorrise debolmente. «Parli come se ti avessi detto che io in Dio ci credo.»

   «Non ci crede?»

   «Non proprio. Credo in ben altro che ad un essere superiore che attende di accogliere tutti. Credo nell'anima che appartiene ad un individuo e che mantiene in sé ciò che siamo stati, quando ce ne andiamo. Credo nella ricerca individuale della pace, quando si è tormentati e si resta qui. Credo in quello che vedo, esattamente come ci credi tu. Il giorno in cui Dio verrà da me e mi dirà che esiste e che le anime che salvo le prende sotto la sua ala protettiva, allora non avrò dubbi. Fino a quel momento per me non c'è nessuno.» Lo colpisce. Lo colpisce perché tutto quel discorso lo aveva un po' travisato. Quella domanda sulla sua fede gli ha fatto credere che fosse solo una retorica intenzione di metterlo all'angolo e lasciargli ammettere che forse, in minima parte, un po' ci credeva. In verità la signora Soria ha con lui molto più in comune di quanto possa credere.

   «Penso lo stesso.» Si morde un labbro, confuso. «Ma in egual modo non so cosa devo fare.»

   «Ascoltali. Quando si presentano non fuggire. Prova a parlarci. Prova a dar loro modo di comunicare con te. Non possono farti niente. Non è dei morti che devi aver paura, Joshua.»

Fine Capitolo II

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