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1978.

23 maggio 1978.

Cinque anni dopo.

Il sottile tocco delle foglie rigogliose si posa sui polpacci scoperti di Annina come tante carezze leggere.
Sorride con gli occhi strizzati mentre sfida il sole primaverile in una gara di sguardi.

Una ciocca di capelli le scivola davanti al viso e il palmo che solleva per scostarla le lascia una piccola macchia scura sulle gote rosate.
E' la scia dei carboncini che stringe fra le dita ormai affusolate.

Ha quattordici anni Annina adesso e della delicatezza dell'infanzia è rimasto ben poco nel suo fisico che pian piano si modula sempre più in un corpo adulto, femminile, simile a quello dell'amata sorella Chicca.

Di lei la ragazza si è ritrovata ad assorbire tante caratteristiche fra cui lo spirito ribelle e indomito che l'ha condotta a seguirne le orme anche in certe scelte più complesse.
Non si sente una persona appagata Annina, avrà tutto il tempo del mondo per diventarlo, però oggi, seduta su un ramo robusto che la sorregge senza incertezze, può dirsi perlomeno contenta.

E' da ieri in realtà che prova questa soddisfazione più forte che mai.

Nello specifico da quando, tornando a casa dal Liceo artistico che frequenta, ha letto nel chioschetto di un'edicola che la Legge sull'aborto è stata finalmente approvata.

"Oggi verrà pubblicata nella Gazzetta Ufficiale" le ha spiegato pazientemente Monica che segue il collettivo in cui lei opera con Chicca "e tra qualche giorno sarà effettivamente in vigore."

Le donne potranno essere più protette e libere nelle loro scelte, finalmente.

Annina, per quel che ha potuto, ha partecipato a tutte le manifestazioni avvenute in questi anni e non si è fatta intimorire dalla prima esperienza che fu invece traumatica.

Strofinando con più forza del necessario sulla tela ormai chiazzata delle sue stesse impronte distratte, pensa intensamente alla giovane madre di cui non ha quasi più ricordi, se non il suono lontano della risata delicata e il profumo dolce che la contraddistingueva.

Il pensiero che potrebbero non esserci più altre bambine costrette alla sua stessa sofferenza le permette di lenire in parte quel dolore che da piccola sembrava forse più confuso, ma allo stesso tempo perpetuo e insanabile.

L'ultimo dettaglio dell'ala sinistra di una gazza ladra studiata con cura nelle scorse due ore viene apposto nell'esatto momento in cui una voce familiare e lievemente spazientita la richiama alla realtà.

"Annina! Guarda se non scendi da quell'albero eh!"
"Scendo subitooo" è la replica scocciata "e comunque mi chiamo Marianna!"

Ci vogliono meno di trenta secondi alla ragazza per sgattaiolare giù dal tronco massiccio, rievocando, tra i gesti rapidi e scattanti e la coda di cavallo scomposta e agitata sul capo, le movenze di uno scoiattolino che sfida la forza di gravità con le sue discese fulminee.

Il passo finale prima di toccare terra arriva però troppo affrettato portandola ad un piccolo capitombolo sull'erba morbida.

"Annina!" lo sguardo dolce che le viene riservato stona con il tono che vorrebbe essere severo, quasi paterno "te l'ho detto che mi fai preoccupare quando ti arrampichi in quel modo!"

"E io ti ho detto che mi chiamo Marianna!" ribatte lei prendendo la mano che le viene offerta per tirarsi su "tra poco avrò quindici anni... non puoi chiamarmi ancora così, capito Simo?"

E Simo dell'informazione appena ottenuta sembra non farsene proprio nulla perché, recuperata la tela inavvertitamente persa nella veloce colluttazione, la osserva e "stai diventando sempre più brava piccolé!" esclama entusiasta sfiorando piano il disegno.

Annina - questa volta - anziché rispondere, pensa bene di sciogliersi in un sorriso di tregua e, lasciata la mano ancora stretta nella sua, cominciare a correre a grandi falcate senza una direzione precisa all'interno del parco nel quale si trovano.

E' domenica e il luogo è pieno di bambini che giocano fra loro e di genitori attenti che li monitorano.
Ogni singolo suono che si propaga nell'aria, assieme al cicaleccio dei primi insetti estivi, appare per Simone come un inno di libertà.

Si sente leggero come se non avesse un involucro corporeo da spostare quando prende anche lui a scappare, inseguendo la giovane Annina fra gli alberi e le persone che non si curano di loro.

Nessuno li guarda con più attenzione di quella che si darebbe ad un qualcosa di fugace, innocuo, anonimo.
Simone non è nessuno in questo parchetto assolato ed è la cosa più bella che gli sia mai capitata.

Corre a perdifiato senza un perché, forse solo per il gusto di poterlo fare, e nelle sue orecchie ci sono solo il fiatone che all'alba dei quasi trent'anni gli comunica che il tempo passa anche per lui e la voce impertinente di Annina che "stai diventando vecchio non riesci a starmi dietro!" ride divertita.

Nel prato calpestato con furia e un pizzico di incoscienza le scarpe di camoscio non fanno alcun rumore.
Non c'è asfalto sul quale far battere i tacchetti pesanti e imbottiti, solo terreno soffice che al massimo inumidisce le punte e ne accoglie le orme.

Simone è qui, è vivo mentre si accascia esausto a terra, e la testimonianza del suo passaggio è tutta nel cuore palpitante che sente scoppiare nel petto.

"Ti- ti riaccompagno?" chiede affannato alla ragazza stesa anche lei a pochi passi da lui "o vuoi tornare di nuovo sull'albero?"

Annina sembra rifletterci un attimo tirandosi su a sedere.
Sfila dalle mani annerite dell'altro la tela che ha realizzato e la studia con sguardo assorto.

"Il disegno per il compito di domani l'ho finito" esordisce dopo un po' "salire sull'albero mi serviva solo per quello."
"Quindi ti porto a casa?"
Lei sorride serena e "si, non vedo l'ora di tornare!" conferma.

Anche il ragazzo, dal canto suo, non vede l'ora di rientrare.
Ha tantissime cose delle quali occuparsi, il che non sarebbe poi tutta questa grande novità se non fosse che una di esse nello specifico avrà un impatto molto importante.

Talmente importante da toccare sia Simone Balestra che Simone e basta.

Con Annina stretta alla sua schiena che gli chiede di percorrere la strada più lunga così vediamo ancora un po' il cielo, dà una prima pedalata alla bicicletta beige e, pensando anche lui alla meravigliosa volta celeste che li sovrasta, si avvia verso il tramonto.




                                **

«E' un onore per noi, cari amici di Portobello, avere qui ospite Bud Spencer! Un applaus-»
"Manuel!"

Gli occhi socchiusi e appiccicati dal sonno si spalancano di colpo.
Il «tumpf» del telecomando adagiato sul petto e travolto nell'impeto di sollevarsi subito dal divano contribuisce ad acuire il breve spavento che ha colpito il ragazzo.
Impiega qualche secondo per mettere a fuoco la donna che lo fissa dall'ingresso del salotto.
"A mà!" la mano sul cuore viene premuta con fare estremamente teatrale "m'è preso un coccolone! Che te strilli?"

"E' Simone..."
"Simone che?" ed è già scattato in piedi mentre pone la domanda "che ha fatto Simo?"
Anita ridacchia avvicinandosi e questo basta a tranquillizzarlo in minima parte.
"E' Simone che ti ha mandato questa" spiega sventolando poi una busta bianca che attira subito l'attenzione del figlio "l'ho trovata nella buca rientrando stasera... mica lo facevo così romantico..."

E in verità nemmeno Manuel che - nell'ordine - avvampa, passa i palmi sul viso per ridestarsi e tira via il foglio dalle mani della madre, non lo faceva così.

"Nun sta troppo tempo sveglio a legge che tanto domani ve vedete a lavoro eh... devi riposà!"
Manuel in risposta sbuffa silenziosamente con le spalle ormai voltate e tutta l'intenzione di andarsene dalla stanza per avere un po' di privacy.
"E non sbuffare!"
Ah, questa poi.

"Ma che ne sai che ho sbuffato? Che c'hai gli occhi dietro?"
Neanche la ascolta la replica secca che segue.
Ha la testa già proiettata altrove lui.

E' troppo stupito infatti e avverte il cuore scalpitare come una mandria di cavalli imbizzarriti mentre abbandona la tv chiassosa e colorata alle sole attenzioni di Anita e si precipita nella sua camera per chiudersi a chiave dentro.

Si sente un ragazzino alla prima cotta aprendo l'involucro in fretta, ma cercando al contempo di non rovinarlo.
Che è la prima volta che riceve una cosa del genere e vuole conservarne integro il ricordo.

Nessuno gli ha mai mandato niente, tantomeno lettere romantiche, e il pensiero invece che Simone - il suo Simone - si sia preso la briga di scrivergli una-

«Comunicazione di licenziamento»
«Alla cortese attenzione di Manuel Ferro.»

Altro che missiva d'amore.

Simone lo sta mandando via dalla fabbrica.

Lo rigira sei volte il foglio singolo che stringe fra le mani, alla ricerca di altri chiarimenti oltre l'asettica e concisa motivazione per giusta causa che legittima l'interruzione del rapporto di lavoro.

Quasi quindici anni di vita, racchiusi in quindici insulse righe, ragiona il ragazzo.

La busta tenuta con tanta premura gli scivola distrattamente per atterrare leggera sul pavimento.
Manuel ne osserva la breve caduta e così si accorge del piccolo rettangolo di carta verdognola che fuoriesce da essa.
«Banca popolare del Lazio» legge sul bordo, notando anche l'elegante stemma che la adorna.

Deve praticamente poggiarci il naso sopra e aiutarsi a contare con le dita tremanti per quantificare la sfilza di zeri che vi sono raffigurati sopra.
E' una fortuna che sia già steso sul letto altrimenti, considerando le gambe flosce che ha, sarebbe sicuramente precipitato con il culo per terra.


Ci mette cinque minuti per accendere la bella macchina rossa che ormai può dire di aver usucapito e quasi dieci per ricordarsi il percorso da fare per arrivare allo stabilimento.
Alla seconda rotonda sbagliata, si chiede se davvero metà dei suoi trent'anni suonati li abbia spesi là dentro o se sia stata solo un'allucinazione particolarmente duratura.

Eppure è proprio in fabbrica che ha appreso e svolto l'unico mestiere onesto che abbia mai esercitato.

E' sempre lì che ha conosciuto Chicca e Matteo che poi sono diventati per lui una seconda famiglia.

Ed è ancora in quel postaccio che ha scoperto la passione per la politica e per la cultura e il conseguente desiderio di non essere solo un operaio, ma qualcosa di più.
Tanto per cominciare un diplomato, come attestano i documenti scolastici da un paio di settimane a questa parte, e - se da settembre tutto va come deve - in futuro anche un dottore in filosofia, perché no.

Ma soprattutto, è in fabbrica che ha incontrato Simone Balestra e da quel momento la sua vita non è stata più come prima.
Per questo non può concludersi così, pensa mentre abbandona malamente la vettura all'ingresso dei cancelli e si affretta sulle scale che portano al primo piano.

E' uno stupido lunedì di maggio e lui lo sa perché oggi sarebbe pure il suo unico giorno libero.
Quello in cui può evitare di presentarsi qua, specialmente a quest'ora.
Sono le 21:33, o almeno così dice l'enorme orologio posto all'ingresso dello stabile, e se l'unica luce accesa è nell'ufficio del Direttore generale - quello che ancora porta il nome di Dante sebbene sia in pensione da sei mesi - vuol dire che il consiglio di amministrazione sta svolgendo qualche incontro di massima importanza.

Oh beh, riflette spalancando la porta senza bussare, un po' di pubblico non mi ha mai creato problemi.

Dieci teste scattano fulminee nella sua direzione ben prima che riesca a entrare nella stanza e ci manca poco che chieda se stessero tutti aspettando lui o cosa.
Ma in realtà non ha tempo Manuel di dare retta a tutti, no.

Lui è qui con un obiettivo preciso e quell'obiettivo lo osserva dal fondo della camera con la cravatta allentata, la bocca aperta in un cerchio di stupore e una luce negli occhi che il ragazzo può giurare fino a due secondi fa non c'era.

Giulio, seduto appena più a destra abbozza un'espressione che sembra comunicare tutto il divertimento che la scena gli provoca.
Se non fosse impegnato ad agguantare la giacca di Simone con entrambe le mani, Manuel ci penserebbe pure a dargli un bel buffetto sulla guancia per cancellarne il sorriso scemo dalla faccia.

Però proprio non può farlo, non quando ha quest'altra faccia qui a tre centimetri dal viso e due palmi ampi e caldi premuti contro la stoffa della felpa sdrucita.
Della sua felpa sdrucita.

"Direttò"
Ed è l'esordio classico, quello che si ostina a non abbandonare anche se ormai i ruoli sociali sono dimenticati e ci sono altre parole, ben diverse, che potrebbe adoperare.
Che lui non è mica più-

"Si può sapere chi ha fatto entrare questo invasato qua? Che cos'è lei un povero dipendente?"

Ah.

Da quanto attendeva questo momento Manuel.
Talmente tanto che non se lo ricorda manco più.

E' fulminea la ripresa, un tempo di reazione invidiabile il suo, che precede addirittura quella del ragazzo accanto che gia scalpita sul posto.

Se le lecca le labbra che apre per replicare, lo pregusta a pieno il momento in cui finalmente potrà dire quello che da cinque anni a questa parte è il suo più grande vanto.

"Non sono un povero dipendente" sibila infatti solenne guardando negli occhi lo squallido fautore del commento "io sono il compagno di Simone Balestra."

E qualora il chiarimento verbale non fosse stato sufficiente, Manuel è piuttosto sicuro che, lo strattone violento alla camicia di Simone per poi far congiungere le loro labbra, sarà in grado di fugare ogni dubbio.

L'altro non ci prova nemmeno a rifiutarlo.
Anzi, mormora un "tu sei folle" fra i denti e poi ricambia il contatto con una serenità e certezza che a Manuel fa tremare la pancia e le viscere tutte.
Gli porta le mani grandi sul viso e le tiene lì, ferme, come se il bacio l'avesse iniziato lui, come se lo stesse dando e non ricevendo.

E' lo stridere di una sedia sgraziato e brutale ad interromperli.

La stessa persona che aveva manifestato perplessità sulla sua presenza sta abbandonando platealmente l'ufficio, assieme a quello che Manuel presume sia il suo avvocato.
O leccaculo a giudicare dal modo in cui lo segue rapido e servizievole.
Gli epiteti volgari e gli inviti calorosi a vergognarsi si sprecano e ripetono nella loro vacuità mentre i due prendono la porta.

Giulio salta in piedi raggiungendoli nel corridoio e minacciando una querela per diffamazione, gli altri rimasti in disparte provano a placare gli animi e Simone...
Simone lo fissa con una faccia indecifrabile.

Probabilmente adesso lo allontanerà per poi cacciarlo via, oppure-
"Va tutto bene Manu"

oppure lo stringerà ancora di più a sé.

E' salda infatti la mano che porta dietro il collo del compagno per, guidando il volto nella sua direzione, stampargli un casto bacio sulla bocca.

"Tanto lo stavo già per mandare a quel paese..." svela contro le labbra schiuse "ci voleva rifilare una truffa terribile e farci perdere una barca di soldi."

Manuel annuisce come un automa.
Era venuto qui per muovere delle rimostranze, chiedere delucidazioni eventualmente con il solito modo riottoso che lo caratterizza, e ora si ritrova con lo stomaco in subbuglio e il cuore impazzito.
Che lo sa di aver ha fatto una piazzata davvero degna di un folle nell'ufficio del suo direttore - ex a quanto pare - e quello anziché cacciarlo via gli ha solo dato manforte.
Si sente improvvisamente rilassato e in pace mentre si stacca dalla sua bocca solo per posargli la testa sulla spalla.

"Magari a qualcun altro qui potrà risultare sconveniente questa circostanza..." ricomincia d'un tratto a parlare Simone sollevando appena le loro mani che ha unito.

Lui lo ascolta attento, già pronto a stupirsi per qualunque cosa dirà, in quel modo tutto suo - sempre posseduto, ma rodato col tempo - di tenere a bada intere stanze di persone, potenti e non, attraverso un uso micidiale dell'ars oratoria.

"Se così fosse..." prosegue "lo capisco."

Manuel per poco si spezza il collo tanta è la velocità nell'alzarlo.

Non era così che l'aveva immaginata.

Trattiene il respiro e quasi cerca di liberarsi dalla stretta che però Simone non permette di sciogliere quando riprende il discorso.

"Lo capisco, dicevo" e il tono è sempre più duro "perché io subisco questa indignazione, queste aggressioni gratuite, che spesso non si limitano solo alle parole, e queste annesse occhiate schifate, da anni. Sono anni che mi nascondo, fingendo di essere - per un motivo o per un altro - ciò che non sono o ciò che non voglio e mi sono sinceramente rotto il cazzo. Non ho altro modo per dirlo. Io sono omosessuale, Manuel Ferro è l'uomo che amo e se c'è qualcuno che deve vergognarsi, quelli non siamo noi. Perciò, come accennavo poc'anzi" prende fiato e il sospiro rimbomba nella stanza "magari ad altri qui potrà risultare sconveniente la circostanza, no?" lo sguardo scorre su ogni singolo soggetto presente "bene... se così fosse, la porta è quella. E' rimasta ancora aperta, dunque potete raggiungerla comodamente da soli come il vostro spettabile collega di prima oppure a calci nel sedere. Nel secondo caso, sarà mia personalissima premura accompagnarvi."

Il silenzio che insistente segue al soliloquio appena concluso ha dell'irreale.

E se Simone non appare affatto turbato e mantiene un'espressione proiettata e fiera verso la lunga tavola ovale che lo osserva sbigottita, Manuel invece teme di dover crollare a terra.
E' stordito dagli eventi e a tentoni trova con la mano libera la parete dietro di sé per adagiarsi.

Nessuno lo aveva mai degnato di un gesto tanto eclatante.
Questa sicurezza nell'associarsi a lui, nel dirsi orgoglioso di esserlo, è una sensazione talmente inedita che non sa neanche come affrontarla e come crederci.
Se crederci.

Simone dopotutto l'ha appena licenziato dalla fabbrica tagliandolo di fatto fuori dall'unico mondo che, per quanto detestato, l'ha sempre accolto e mai respinto.
Tanti anni a dire di volersene andare e ora che la possibilità gli viene data, o meglio imposta, ha paura di coglierla.

E' comunque troppo assorto nei suoi pensieri Manuel e non nota ciò che gli accade attorno.

Da Giulio che rientra trafelato nella stanza e stempera la palese tensione con una battuta, ai membri del consiglio di amministrazione rimasti che, adesso in piedi e protesi verso lui e Simone, stringono le loro mani con calore e stima prima di uscire dall'ufficio.

L'unica cosa di cui finalmente si accorge dopo diversi minuti è la carezza che arriva lenitiva a sfiorarlo e risvegliarlo da qualunque assopimento lo avesse avvolto.

La domanda che esce dalla bocca di Simone la sente prima ancora che venga formulata.

"Ferro" il tono è aspro, opposto alle dolci fossette che lottano per apparire sul viso "ma che diavolo ti dice quella testa vuota che ti ritrovi?"

E Manuel per un momento aveva quasi dimenticato il perché della sua corsa qui.

E' la mano frettolosamente poggiata sulla tasca del pantalone a ricordarglielo.
Cava rapidamente il foglietto spiegazzato da essa e lo sbatte sul viso stupito di Simone.

"A te che diavolo te dice!" sbotta soffocando un urlo.
Che si sta comunque rivolgendo all'uomo che ha appena sfanculato mezza azienda per lui, un minimo di garbo glielo deve.

Forse.

"Allora che significa sta cosa Balé?" incalza sempre più rabbioso davanti al suo silenzio "non te servo più?"

Simone per altri interminabili secondi lo osserva e basta.

Lo fa con uno di quegli sguardi suoi tutti particolari, quelli che si insinuano sotto pelle e che fanno sentire Manuel o la persona più amata o la più cretina dell'intero universo.
Si domanda incerto quale delle due sia in questo caso.

"Sei un cretino!"

Ecco, mistero risolto.

"Uno stupido ecco che sei!" ribadisce come se la prima volta non fosse stato abbastanza esaustivo.
"Ma se io so tanto stupido perché non me illumini?" lo spintone che gli rifila porta Simone a ricadere su una sedia alle sue spalle.

Rasentano la precisione di un acrobata le movenze con le quali Manuel gli si arrampica addosso.

"Perché non me lo spieghi tu allora? Dimmelo con i tuoi bei paroloni articolati perché l'hai fatto!"
"Io-"
"Trenta milioni! Sai quanto ci ho messo a contare tutti quegli zeri?? Non li avevo manco mai visti in vita mia!"
"Manu-"
"Che razza de buonuscita è mai questa?! Rischi la bancarotta per togliermi di torno?! Per liberarti de me? O perché l'hai fatto direttò, mh?"

Simone lo afferra con entrambe le mani e avvicina le loro teste.
"Che cazzo fai Balé? Mi vuoi fracassare di nuovo il cranio?"

E già lo percepisce il dolore fra naso e fronte, se lo immagina così bene che in un primo momento non si accorge che l'altro invece di tirare ancora, lo spinge.

La caduta improvvisa dalla sedia lo lascia sconvolto, ma non quanto la frase strozzata che segue subito dopo.

"L'ho fatto per liberare te! Va bene?"

C'è il fuoco negli occhi che lo guardano dall'alto.

"Sono cinque anni che vuoi mollare sto lavoro d'inferno" spiega Simone prendendo a camminare in tondo per la stanza "cinque anni che nel frattempo hai studiato e conseguito un diploma, stancandoti come un mulo da soma solo perché c'era ancora il mutuo da pagare e non volevi gravare su nessuno."

"Embè? Nun me pare che ci sia nulla de male in questo" replica l'altro portandosi su dritto e andandogli contro "forse tu non sei abituato perché nun c'hai mai dovuto pensà a sti problemi. C'hai sempre avuto chi s'è preso cura di te, direttò."

E lo sa Manuel che sta esagerando, che sta toccando un tasto dolente e lo sta facendo gratuitamente.
Ma proprio non riesce ad evitarlo.
Non quando qualcuno mette bocca così sulla sua vita e-

La realizzazione lo travolge in pieno.

A momenti ci cade addosso a Simone tanta è la foga con cui lo acchiappa e tira a sé.
Lo guarda come se potesse passargli attraverso e arrivare all'anima.
Lo guarda come Simone ha sempre guardato lui.

"Tu... tu vuoi prenderti cura di me" sono le uniche parole, ancora incredule, che riesce a proferire.

L'assenso che riceve, un timido cenno del capo, quasi col timore di sbagliare qualcosa aprendo bocca, gli distrugge e ricompone il cuore nello stesso tempo.

Solleva una mano per posarla sul viso impensierito e si sente morire quando lo vede chiudere le palpebre, manco fosse spaventato.

"Non ti farei mai del male..." mormora sfiorandolo delicatamente "mai Simo."

E Simone lo sa, per questo gira appena il volto e su quella stessa mano deposita un bacio leggero per poi lasciare che lo carezzi.

E' ancora incantato a fissarlo Manuel mentre lo afferra meglio per la camicia e lo trascina sul divano all'angolo della stanza.
Non vorrebbe mollarlo nemmeno un secondo eppure è costretto per andare a chiudere la porta a chiave ed abbassare le veneziane dell'enorme finestra a vetri.

Simone intanto lo segue in ogni movimento con occhi meravigliati e attenti.
Il momento in cui torna vicino non fa in tempo a sedersi che già quello lo sta prendendo dalla felpa per far collidere le labbra.

"Non te ne saresti mai andato da solo..." gli confida sulla bocca "tutti i giorni a dire che volevi lasciare, ma poi non accadeva mai... invece così non puoi non farlo."
"Ma- ma sono trenta milioni" continua a ripetere come fosse la risposta ad ogni cosa "tu... tu hai-"
"Io non ho fatto nulla... Sei tu che hai lavorato quindici anni qua dentro. E questo è ciò che ti spetta ora."

E' caldo e furbo insieme il sorriso che spunta sulla bocca di Manuel.

Uno di quelli che a Simone attorciglia lo stomaco in tanti nodi e gli fa battere il cuore all'impazzata.
Che in fondo ha già capito cosa sta per succedere.

"Questo mi spetta?" è la domanda maliziosa che pone infatti il ragazzo riportandogli una mano sul viso.
Simone soffia un lieve assenso, anche perché di più non può fare.
C'è una presa talmente salda sulla guancia che non pensa di poter muovere la faccia neanche volendo.

Manuel è rapido nello slacciargli cravatta e camicia con la mano libera.
"E fammi capire direttò" indaga scorrendo un palmo sulla pancia scoperta che trema al contatto "è un trattamento di fine rapporto speciale il mio?"
"Si?" replica fintamente curioso all'ennesimo gesto di approvazione "e io? Io invece cosa posso fare per ricambiare? Trenta milioni sono tanti... Ci deve essere un modo..."

"Manuel..." il bacino di Simone sembra avere vita propria mentre ondeggia contro il corpo dell'altro "per favore"

E Manuel è un uomo semplice.

Difronte a due occhi così imploranti e un tono tanto disperato non può che cedere.

Si allontana quanto basta dalla bocca che prova a trattenerlo e comincia la sua lenta discesa fino al rigonfiamento che sembra dover esplodere di qui a poco.

Simone non fa in tempo a sussultare per le mani che lo sfiorano che già una sensazione calda lo ingloba con sicurezza.
Non si impressiona Manuel per le spinte assestate che riceve, anzi, con gli occhi fissi verso su, pare chiederne altre ancora più forti.

Nemmeno glieli ha abbassati bene i pantaloni.
Sente addirittura la zip premere fastidiosa sulla clavicola mentre fa scontrare le labbra con l'inguine sotto di sé.
Spinge giù fin dentro la gola e solo quando avverte i polmoni bruciare torna indietro, liberandosi per un attimo dal peso che lo soffoca.

Se a lui manca l'aria, Simone non sta messo meglio.
Ha la fronte imperlata di sudore, le pupille dilatate e rilascia rumorosi sbuffi dalla bocca spalancata.
"Ti ricordi cosa t'ho detto la prima volta che l'abbiamo fatto?" chiede Manuel con una voce roca che fino ad un minuto fa non aveva "eh direttò?"

Simone lo guarda come fosse pazzo.
Che è già assai se si ricorda il suo nome in questo momento preciso, figuriamoci qualcosa successa cinque anni prima.
"Che- che ero un borghese del cazzo?" balbetta facendo mente locale.
"No..." e il bacio sul bassoventre Manuel glielo lascia subito, come a scusarsi in anticipo di quanto sta per dire "quello lo sei ancora."

L'altro non sembra prendersela.
Al contrario ride pure.
Finché una mano non avvolge la sua lunghezza in una stretta asfissiante.
"Manuel..."
"Allora t'o ricordo io cosa t'ho detto..." spiega sereno continuando a masturbarlo con calma "che non te l'avrei succhiato manco fosse l'unico rimasto sulla terra..."

Simone da questa notizia rimane folgorato come poche cose al mondo.
Gli infila rapido le dita nei capelli e tira beandosi dei gemiti che seguono.
"E invece ora dove sei?" domanda soddisfatto "dove cazzo sei Ferro?"

Manuel si morde le labbra e "davanti all'unico cazzo che voglio Balé... ecco dove sono" ribatte tranquillo prima di abbassarsi appena sul membro furente.
"E adesso ti faccio venire così... te lo succhio finché non mi va via la voce" continua con le labbra premute sulla cappella umida "ma poi te fai scopà."
Il "ti prego" che spira tremante dalle labbra di Simone gli arriva addosso come una scarica elettrica.

"Te fai scopà" ripete lambendo la punta "e vieni di nuovo..."
"...Si"
"E ti fai venire dentro..."
"Si"
"Non ne voglio sapé di profilattici... Io 'nce voglio mette più niente fra me e te... va bene amò?"

E Simone avvampa, annuisce come un forsennato e, col pensiero volto a quanto succederà a breve, si lascia andare nella bocca di Manuel che è tornata ad inghiottirlo con forza.

Un'ora dopo si ritrovano nella stessa posizione e luogo di cinque anni prima.
Identico è lo sguardo che si rivolgono, solo con più consapevolezze ad arricchirlo.

La bocca di Simone è premuta sull'orecchio del compagno che ancora recupera il fiato perso.
"Manu..."
"Che c'è amò?" una carezza arriva placida a spostargli i capelli dalla fronte "L'ho chiusa prima la porta."
"Si- no... uhm... puoi aprire le tapparelle?"
"Le tapparelle? E che ce devi fa?"
"Mi piace vedere il cielo quando mi sveglio" ammette imbarazzato nascondendo la testa nell'incavo del collo.
"Si?"
"Si..."
"E le apriamo allora" conferma Manuel sollevandosi con non poca fatica dal divano.

La luce della luna risplende nella notte limpida e agghindata di qualche piccola stella.
"Va bene cosi?" domanda stendendosi di nuovo su di lui e chiudendo le palpebre.
"Benissimo..."

"Ferro?"
"Mh?"
"E a te... a te va bene vedere il cielo appena sveglio?"
"A me basta vedere te direttò."

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