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Capitolo 1

Parte Prima- Inizio

Non avessi visto il Sole / Avrei sopportato l'oscurità / Ma la Luce un rinnovato Deserto / Del mio Deserto ha fatto.
(Emily Dickinson, Poesie, 1850/86)


«Ma stiamo scherzando?» sbottò il ragazzo, stringendo i pugni in una morsa. Si rivolse all'amico, che lo stava volutamente ignorando. «E tu non dici nulla?» sibilò furioso, sbattendo una mano sul tavolo. «Non possono tenerti prigioniero in questa fogna!» urlò, in direzione della porta. «Che fine hanno fatto i nostri diritti?»

L'altro ragazzo finalmente si degnò di guardarlo.
«Smettila di fare tutto questo chiasso. Ho mal di testa» precisò, strizzando gli occhi.
L'amico lo guardò male, e lui sbuffò. «Lo sai benissimo che possono fare tutto quello che vogliono» affermò, rispondendo alla muta domanda dell'altro. Distolse lo sguardo, iniziando a rimirarsi le unghie con un certo interesse.
Non riusciva a capire perché Kyle si scaldasse tanto. «I poliziotti sono loro, e tu dovresti iniziare ad accettare il fatto che non siamo in uno dei tuoi amati film gialli. Qui la giustizia non esiste.» Scrollò le spalle, indifferente, come se non gli importasse nulla di quello che gli stava accadendo. «Sarebbe inutile cercare di far valere le mie ragioni, in un posto come questo» continuò, mangiucchiandosi un'unghia.

L'amico, benché si fosse abituato al comportamento sfrontato di Nessuno, stentava ancora a credere che avesse un senso di autoconservazione così poco sviluppato. A dire la verità, sospettava caldamente che madre natura si fosse completamente dimenticata di dotarlo di un minimo di buon senso, al momento della sua nascita.
Doveva ammettere che così si sarebbero spiegate molte cose.

Kyle però si era indispettito alle sie parole, e tentò di ricondurlo alla ragione. «Ma tu non hai fatto niente. Non dovrebbero avere prove contro di te» mormorò cauto, quasi come se stesse cercando di rassicurarlo. O di rassicurare se stesso.

«Be', ero nel luogo dell'omicidio al momento dei fatti, e ci sono delle prove contro di me. O almeno, questo è ciò che dicono. Io non ricordo molto» spiegò, massaggiandosi le tempie. Cercò di riportare a galla tutte le informazioni che riusciva a rammentare, senza successo. Il mal di testa aumentava.
«Credo solo che abbiano capito chi sono e che stiano cercando nell'archivio per accertarsene, così da farmi rimpatriare e consegnarmi direttamente al Woodland. Staranno già sbrigando tutte le pratiche». La sua voce tremò impercettibilmente.

Il Woodland Hills Youth Development Center di Nashville era un vero inferno per tutti i ragazzi. Specialmente per quelli come lui, che avevano un passato più inquietante degli altri e venivano trattati ancora peggio, se mai fosse stato possibile.
E lui lo sapeva bene, perché ci era già stato: non era stata un'esperienza esattamente piacevole.

Cercò di calmarsi. In fondo, era sicuro che tutti i suoi dati fossero andati bruciati, e che la polizia di New York non avesse la documentazione necessaria per provare se fosse davvero lui oppure no.
E così, nella speranza di non dare a vedere il suo turbamento interiore, continuò a fingere noncuranza nei confronti di ciò che lo circondava e di quello che stava per succedere.

Anche se non avrebbe mai potuto immaginare, neanche lontanamente, ciò che sarebbe accaduto in seguito.

Intanto continuava ad illudere gli altri con comportamenti che non gli appartenevano. Ciò lo sollevava molto quasi che, fingendo, avesse più possibilità di credere che tutti quei problemi non fossero veramente i suoi, ma quelli di un' altra persona.
Era molto bravo a mentire agli altri, e ancora di più a se stesso.
Ma non era colpa sua, era una vita che fingeva e ormai si era abituato.

«Ma allora sono proprio stupidi! E poi, pure tu. Ancora non mi hai spiegato cosa cavolo ci facevi là. E da quelle parti, poi!» sbraitò il ragazzo, ferito dalla reazione impassibile e indifferente che l'amico continuava ad avere nei suoi confronti.
Sapeva perfettamente, infatti, che l'altro gli aveva mentito, e che anche ora continuava a raccontargli frottole; ma aveva sperato che avesse più fiducia nei suoi confronti.
Insomma, erano amici da un bel po' di tempo.
Lo aiutava sempre, in qualsiasi guaio si cacciasse, e lo aveva pure ospitato a casa sua.
Forse si aspettava più lealtà da parte sua.
Ma lo conosceva abbastanza bene, e sapeva che non avrebbe potuto sperare di ottenere più di quanto gli aveva già estorto.
Almeno per il momento.

Profonde, misteriose e oscure tenebre avvolgevano il passato dell'amico, in una spirale cupa e impenetrabile di desolazione e morte.
Sapeva che era così. Riusciva a percepirlo chiaramente. E aveva tutte le intenzioni di aiutarlo.
Lo aveva promesso, giurandolo ad una persona tanto tempo prima.
E ce l'avrebbe messa davvero tutta per proteggerlo, anche a costo della vita.

Inoltre sapeva che Nessuno, il suo unico migliore amico, non c'entrava nulla con tutti quegli incidenti, ma vedeva bene come si fosse lentamente rassegnato e isolato dal resto del mondo. Probabilmente pensava che così non avrebbe più fatto del male a nessuno.
Aveva provato pure con lui. Aveva provato ad allontanarlo, a respingerlo: ma Kyle non aveva rinunciato così facilmente ai suoi propositi, né mai l'avrebbe fatto. Era un tipo testardo, lui.
Sapeva che Nessuno era solo una vittima delle circostanze, proprio come tutte quelle che avevano incrociato il suo cammino e che l'amico si era lasciato indietro molto tempo prima, pensando di essersi finalmente sbarazzato dei fantasmi del passato.
Almeno fino a quel momento.

«Non facevo proprio nulla, solo una passeggiata. Passavo di lì per caso...» sussurrò Nessuno, cercando di rispondere alla domanda dell'altro, ma abbassando il tono della voce a mano a mano che si accorgeva che, come scusa, quella che stava usando era decisamente poco credibile. Di sicuro l'amico l'avrebbe capito: non era mica uno stupido.

«Non prendermi in giro, la devi proprio smettere! Non me la bevo, sai?» affermò infatti minacciosamente Kyle, iniziando ad irritarsi sul serio. Era più che pronto a litigare furiosamente con quello che, continuando su quella strada, stava per diventare il suo ex-migliore amico.

«In ogni caso, non sono affari tuoi» rispose Nessuno, gelandolo con una sola occhiata e pentendosene istantaneamente.

Kyle non meritava un simile trattamento.

Lui lo aveva sempre difeso, e cercava di proteggerlo anche ora. Lui aveva aiutato sempre, senza pretendere mai nulla in cambio, e non aveva mai avuto pregiudizi su di lui.
Era l'unico che gli voleva bene come un fratello, e lo trattava come tale. Ma ormai era troppo tardi per rimangiarsi quelle parole.

Kyle sbuffò, capendo che Nessuno non aveva avuto alcuna intenzione di trattarlo male. Si era semplicemente fatto prendere dalla paura e, per non darlo a vedere, si comportava proprio da stupido. Come al solito, del resto.

Ma non per questo avrebbe fatto finta di dimenticare le sue parole. Si sarebbe adeguatamente preparato una piccola, dolce vendetta, più tardi. Qualche film horror sarebbe bastato ad abbassargli la cresta.
Oh, sì.

Ghignò al pensiero della sua faccia. Sarebbe diventata verdognola, quando gli avrebbe proposto la cosa.
Fece un sorrisino divertito. Poi però, ricordandosi di ciò di cui stavano parlando poco prima, il suo sorriso venne meno, così come la sua allegria. Queste sensazioni vennero completamente sostituite dalla compassione. E sì, anche dalla paura.
Soprattutto da quella.

La paura di perdere il suo migliore amico, di doverlo abbandonare e di non mantenere il suo giuramento.
La paura di essere abbandonato a sua volta.

Al solo pensiero si sentì sopraffatto e gli rispose sgarbatamente. «Sì che sono affari miei...» sibilò infatti, guardandolo decisamente male. «O ti sei scordato che al momento vivi a casa mia, e per giunta all'insaputa della mia famiglia? A te non interesserà quel che ti succede o quali conseguenze le tue azioni possono avere sulla vita degli altri ma, se proprio vuoi mettermi nei casini, sei tenuto a dirmi tutto quello che sta succedendo così che io vi trovi rimedio. Però» aggiunse, «dato che tu non vuoi essere aiutato, credo che mi limiterò a togliere dai pasticci me e la mia famiglia. Chiaro?»

Nessuno annuì silenziosamente, vergognandosi come non mai nella sua vita. «Ma» cercò di ribadire infine.

«Niente ma. Ora, volente o nolente, mi racconterai tutto, e insieme» calcò sull'ultima parola «cercheremo di rimediare. Hai capito?» domandò, addolcendo il tono della voce solo quando si accorse dell'imbarazzo dell'altro.
Gli dispiaceva fare così, ma era proprio stanco di aspettare che Nessuno si decidesse a darsi una mossa e a raccontargli tutto. Non era vero che lo avrebbe lasciato lì da solo, senza aiutarlo; ma gli serviva un pretesto che potesse spingere l'amico a rivelargli finalmente tutto e a farsi aiutare.
E con Nessuno si doveva, senza alcuna ombra di dubbio, fare ricorso prevalentemente a minacce.
Altrimenti il suo smisurato orgoglio - e per smisurato il ragazzo intendeva infinito - avrebbe reso impossibile convincerlo a collaborare.

«Sì, ma...» iniziò Nessuno.

«Niente ma, ho detto! Raccontami tutto oppure me ne vado» ribadì Kyle.

«Mi fai finire di parlare?» ringhiò Nessuno, che doveva assolutamente fargli notare un piccolo problema.

«Scusa, scusa. Calmati però» cantilenò Kyle, che si stava vagamente divertendo a vederlo, per la prima volta, così in difficoltà. Ma, vista la situazione, ritornò immediatamente serio.

«Bene... Lo sai dove siamo?» chiese Nessuno.

Si trovavano in una stanza angusta e fredda nel Dipartimento di Polizia di New York.
Dalla porta metallica riuscivano, chissà come, ad intrufolarsi dei piccoli spifferi d'aria fredda che gli stavano lentamente paralizzando la faccia. Stavano finendo stranamente tutti addosso a lui che, tra l'altro, non si poteva spostare. Infatti era stato ammanettato al tavolo di metallo al centro della stanza come il peggiore dei criminali.

I due amici osservarono di nuovo la stanza.
Era di un bianco accecante, come se quelli che l'avevano progettata, di comune accordo con i poliziotti, avessero voluto tingerla così per accecare e confondere i malcapitati di turno che la polizia portava lì per interrogare.
E ci stavano riuscendo piuttosto bene, Nessuno doveva ammetterlo. Era un piano assolutamente geniale, di quelli da premiare con medaglia e coccarda.

«Nella stanza degli interrogatori, forse?» ironizzò Kyle.

«Appunto. E cosa c'è in una stanza degli interrogatori della polizia?»
Lo sguardo vacuo che Kyle fece in risposta, fece intuire a Nessuno che l'amico ancora non aveva capito. «Andiamo... Hai visto così tanti film gialli, e mi hai torturato così tanti anni per vederli insieme a te, che dovresti capirmi al volo!» si spazientì Nessuno che, era noto a tutti, di pazienza non ne aveva poi molta.

«Ma dimmelo e basta, no?» si irritò Kyle. Poi vide l'altro ragazzo fissare con palese disgusto un punto preciso alle sue spalle e, d'istinto, fece per girarsi. Ma Nessuno lo prese per un braccio e mantenne il contatto visivo con lui, affinché capisse che non doveva assolutamente guardare in quella direzione. E finalmente Kyle comprese a cosa si stesse riferendo l'amico.
Il ragazzo non ci aveva fatto quasi caso, preoccupato com'era per Nessuno, ma, nascosto quasi completamente da una pesante tenda (ovviamente bianca) c'era uno di quei vetri riflettenti chiamati "specchi spia".
Proprio quelli che la polizia usa per tenere d'occhio un indiziato e osservarne l'interrogatorio.
Probabilmente in quel momento erano appostati lì dietro, ad osservarli come microbi al vetrino.

Come aveva fatto a non pensarci? Era una cosa così scontata e prevedibile! Avrebbe dovuto accorgersene prima.

Da come Kyle iniziò a tamburellare agitato le dita sul tavolo - gesto che faceva sempre quando era nervoso - Nessuno recepì che l'amico aveva finalmente capito.
«Finalmente» sussurrò infatti, ringraziando mentalmente il cielo. «Certo che ce ne metti di tempo, per capire le cose».

Kyle alzò gli occhi al cielo, chiaramente irritato dal fatto di non essersi accorto prima della presenza dello specchio. «Non è colpa mia» esclamò, andando sulla difensiva. «Ero in pensiero per te, imbecille di un ingrato!»

Nessuno sbatté le palpebre, guardandolo come se fosse un raro caso di malato terminale.
«E ora perché mi fissi così?» chiese l'altro, imbarazzato. Si sentiva stupido ad aver detto quelle cose, ma le pensava realmente. E in fondo, non aveva detto nulla di male, soltanto ciò che gli passava per la testa.
Ma non aveva avuto certo intenzione di sputargliele in faccia così, come invece aveva appena fatto.
Era ufficiale: era un cretino.

Si sentì sprofondare, convinto che l'amico pensasse che lui fosse un maniaco o peggio. Ma non era sua intenzione! Gli voleva bene come un fratello di sangue, nient'altro. Certo, il suo affetto per lui era molto forte e chiunque altro avrebbe potuto fraintendere ciò che provava per lui, vedendolo così genuinamente affezionato: ma ciò che si raccontava nella sua scuola non era vero assolutamente. Erano solo le dicerie di qualche stupido.
E non voleva che anche l'amico la pensasse come tutti gli altri.

Ma non doveva preoccuparsi di ciò perché Nessuno, in realtà, non lo stava fissando con sdegno, ma con ammirazione, affetto e palese gratitudine. Sentiva che era contento di avere un amico come lui.
Decisamente, non lo meritava.

Intanto osservava Kyle che, chinando il capo, umiliato, desiderava solo di potersi rimangiare quelle parole: ma ovviamente non poteva.
Aspettava ansiosamente la risposta dell'altro che però, non arrivava.
Alzò la testa per guardarlo negli occhi e lo vide fare un'espressione strana, quasi buffa.
Poi, quando lo guardò meglio in faccia, si accorse che si stava trattenendo dal ridere, e con immenso sforzo.
Alla fine cedette e proruppe in un'enorme risata. Kyle lo guardò perplesso. Poi fu contagiato dalla risata dell'altro e, rincuorato da tutto ciò, iniziò a ridacchiare sempre di più.

«Scusa» disse Nessuno, asciugandosi le lacrime di ilarità.
Tornò improvvisamente serio. «Ma avevi un'aria così comicamente abbattuta che non sono proprio riuscito a trattenermi. Un giorno, mi spiegherai perché non riesci a esprimere ciò che pensi e quello che provi. Hai evidentemente un problema, e» abbassò il tono di voce, ricordando istantaneamente dove si trovavano, «appena scoprirò chi è stato a provocarti questa fobia, vedrai che se ne pentirà amaramente per un bel po'» continuò minaccioso.

«Senti da che pulpito...» ironizzò Kyle, cercando di alleggerire l'atmosfera. Non riusciva a capacitarsi del fatto che l'amico gli avesse appena chiesto di esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni. In pratica, gli stava chiedendo di fidarsi totalmente di lui, quando invece Nessuno era il primo che si chiudeva a riccio ogni volta che qualcuno gli chiedeva qualcosa di più personale del suo cibo preferito.
Non era molto giusto.
Ma non fece in tempo a ribattere, perché la porta improvvisamente si spalancò.

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