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You're swimmin' with sharks (1/3)

LIZA

Liza s'intrecciava i capelli a destra del volto che il calamo di una piccola piuma le punzecchiò il polpastrello. Delicatamente la sfilò dalla ciocca a cui era annodata e gli occhi corsero a investigare la stanza per capirne la provenienza: una spolverata ricopriva il davanzale di legno e tre di esse giacevano sullo stuoino, lì dove aveva posato la testa per dormire.

Non riconobbe immediatamente il piumaggio e ne sfilò una seconda dal polsino della camicia. Questa la osservò con più attenzione, roteandola sotto il naso, e il vessillo grigiastro-bruno glielo solleticò. Capì trattarsi delle piume di un passerotto appena ebbe tastato la morbidezza della barbula.

Alle sue spalle, Ragor continuò a resocontare le munizioni e Kelua a far saltare in aria un pugnale con la lama ancora foderata, mentre a bassa voce ripeteva le disposizioni impartite da Honeypot. Seguendo quella cantilena, Liza chiuse gli occhi e ricordò.

Il tempo per ricordare c'era sempre.

All'ombra del Mai Nato, Miriam si era chinata per guardare il passero e subito un singhiozzo le aveva scosso il petto minuscolo, uno di quelli che anticipava il suo tipico pianto lamentoso. Si era allontanata all'istante con un piccolo balzo all'indietro, emettendo un verso spaventato, le mani premute sul viso tutto rosso e il naso gocciolante.

"Morirà?" aveva domandato in un pigolio, schiudendo l'indice e il medio per guardare Liza, rivolta verso di lei. "Non voglio che muoia".

La Liza di dieci anni prima aveva sollevato le spalle ossute, quel giorno smanicate, e indirizzato la sua pietà sulla creatura che si contorceva tra le dita nere. Niente da fare: pur correndo a perdifiato, ci avrebbero impiegato una buona mezz'ora per arrivare alla galea e chiedere aiuto ad Altea. Aveva immediatamente scosso la testa per rimettere ordine ai pensieri e scartare quell'opzione – sarebbe stato sciocco da parte sua presentarsi già in ritardo per la cena, con le ginocchia di nuovo scorticate e un uccellino morente nella tasca del vestito: la maestra lo avrebbe gettato in mare prima che potesse rimbambirla di giustificazioni.

"Fa' qualcosa" aveva mugugnato di nuovo Miriam, stavolta in un singhiozzo.

Anche durante i capricci, la graziosità di Miriam restava immutata; con quella sua pelle sempre candida, i boccoli e le ciglia tanto chiare da sembrare batuffoli di cotone, la boccuccia a forma di cuore e le orecchie proporzionate.

Liza l'aveva guardata come si guardano le belle bambole che non si possono avere: con apprensione, tristezza e un pizzico di invidia.

"Cosa?"

"Qualsiasi cosa. Una delle cose che fai tu".

Elizabeth aveva sgranato gli occhi, le parole rimaste incastrate sul fondo della gola e i peli sulle braccia a drizzarsi a causa del freddo che immediatamente le si era appiccicato addosso: d'improvviso l'orecchino aveva cominciato a vibrare accanto alla sua guancia, frenetico sin da subito, quasi avesse captato la richiesta di Miriam e volesse esaudirla in quel momento. Il coraggio di strofinarsi l'orecchio a punta per aiutarlo ad acquietarsi non l'aveva mai raggiunta – quanto le era mancato quel dolore.

Forse rimasto offeso dal suo tradimento, Far-Shee non le aveva più parlato da quando Liza aveva lasciato l'isola con Alexander. Lo avrebbe voluto di nuovo accanto a lei, dentro di lei, mai visibile eppure così presente nei suoi sogni. Sogni che nella sua prima infanzia erano stati verdi, felici, popolati da strane creature coi manti tutti arruffati, i collari di piume bianche, gli arti deformi e le teste che erano solamente crani fatti d'osso. Mostri allegri che non aveva mai trovato sfogliando i bestiari e i tomi conservati in nave. Eppure c'erano spesso stati appena si addormentava, la camminata ciondolante di suo padre a cullarla: abomini coloratissimi che l'accerchiavano simulando risate umane e festosi lanciavano per aria fiori e petali gialli per celebrarla.

Quanto le mancava sognare a quel modo. Quanto le mancava Far-Shee che, dal fondo di una radura scura e selvaggia, la osservava diventare regina di sé stessa e fischiava (ringhiava) per tenere il ritmo dei balli.

Perciò Liza aveva cullato l'uccellino senza covare alcun timore, seguendo le pause e le riprese delle melodie fischiettate da Far-Shee. Aveva poggiato la bocca sullo sterno e alitato profondamente sulle piume, Miriam che, circumnavigandola in punta di piedi per starle di fronte, l'aveva guardata compiere una delle sue magicabula con le labbra schiuse a formare una o.

Liza aveva allontanato il volto poco dopo, la magia attorno a lei a dissiparsi velocemente. Il corpicino aveva tremato per un attimo ancora, poi il passero era tornato a zompettare sui suoi palmi come se nulla fosse mai accaduto.

Elizabeth aveva sorriso tra sé e sé, cercando gli occhioni blu di Miriam per scorgere un minimo di approvazione.

"Guarda, l'ho fatto. Il passero sta bene" aveva detto, soddisfatta del suo piccolo miracolo. "Adesso vola. Guardalo".

"Liza".

"Eh?"

"Che magicabula hai fatto?"

La voce di Mimi si era ridotta in un mormorio impaurito e dispiegando l'indice le aveva ordinato di guardarsi le spalle. Liza aveva seguito l'indicazione, finendo a scrutare il Mai Nato, e il respiro si era bloccato nel petto assieme a un grido. Il panico l'aveva travolta mentre realizzava la gravità della situazione: una scia di erba secca si era allungata dal suo corpo e aveva serpeggiato fino alle radici dell'albero, tracciando a terra le distanze, circa quattro spanne. Una crepa nera, simile a una vena sul punto di scoppiare, aveva spaccato il tronco a metà ed era corsa a infettare parte dei rami più alti; una porzione nascosta, sì, ma comunque visibile a causa delle foglie che, esauste, avevano iniziato ad appassire e a cadere.

Poi la tempia di Elizabeth era stata colpita da quella pietra e ogni cosa aveva correttamente seguito il corso naturale degli eventi: i bambini del Mai Nato avevano avuto ragione fin dal principio a chiamarla mostro, a scansarla e deriderla, perché c'era qualcosa di mostruosamente innaturale nella magia insita dell'orecchino ed era l'orecchino di per sé a esserlo.

Liza aveva fatto ammenda dei suoi errori, ma questo non era servito a renderla invisibile agli occhi della persona che aveva sfregiato. L'odio è una malattia inguaribile, le aveva detto una volta Alexander, lei che stava seduta sulle sue ginocchia e lui che noncurante le boccheggiava la pipa vicino la faccia, ti tormenta fino alla fine, non ti lascia mai e ti stringe qui fino a mozzarti il respiro, aveva continuato, avvolgendosi la gola con le dita sporche di polvere da sparo e fingendo di soffocare.

L'odio di Wilbert non era mai guarito, raggiungendo il culmine di una violenza giustificata, secondo lui, dal torto subìto quando erano due mocciosi urlanti e dispettosi. Occhio per occhio, dente per dente: se Liza si era presa a morsi la sua guancia per proteggersi, allora lui le avrebbe tolto, spezzato qualcos'altro di altrettanto importante per vendicarsi.

Il collo, ad esempio, e la vita, che in un atto contro natura aveva cercato di infondere nel passero e, sia mai! La magia al di fuori dei Circoli era da considerarsi peccaminosa e diabolica, perché le brigate di Spaccachiglia che abitavano la costa credevano ciecamente nelle illazioni sbraitate dal proprio capitano.

Tutto quadrava nel loro immaginario comune e Wilbert avrebbe semplicemente messo in pratica il volere di qualsiasi abitante bigotto di Iselfort: Liza sarebbe potuta morire nel modo più adeguato e spettacolare per una strega – appesa al ramo più alto del Mai Nato, quello che aveva infettato con solo gli Dei sapevano cosa, circondata da figli di prostitute e tagliagole a gridarle dal basso che...

Lo meritava. Elizabeth meritava di morire perché...

Perché sì.

Quel giorno di sette anni addietro, se Patrick non l'avesse prima afferrata per le caviglie, sfilandole uno stivaletto nella foga della colluttazione, e poi strappata dalle braccia di Wilbert dopo avergli rotto il naso con un cazzotto, sarebbe sicuramente finita a penzolare per un pomeriggio intero.

O per sempre, senza trovare alcuna pace; un augurio gridato da Wilbert mentre il sangue gli ruscellava sulla faccia e Patrick caricava il calcio da piantargli sullo sterno.

Pertanto Liza aveva cominciato a nascondersi, a coprirsi alla bene in meglio, vestendosi di abiti ingombranti e sempre ordinati, a coprire le mani nere con guanti raffinati, a nascondere la bocca sotto il colletto della mantella. A indossare enormi cappelli per camuffare le orecchie, a camminare a testa bassa, a parlare sottovoce e solamente se interpellata.

E fino a quel momento aveva funzionato. Se il mondo al di fuori della galea non avesse visto ciò che era realmente, tutto sarebbe andato per il meglio. Nessuno le avrebbe più attorcigliato una corda attorno alla gola e trascinata davanti al Mai Nato con l'intento di impiccarla.

Come vuoi essere ricordata?
Sei buona o sei cattiva?

Liza riaprì gli occhi che ancora giochicchiava con la piuma del passero. Un prurito anomalo la costrinse a grattarsi il collo e le unghie s'impicciarono nel nastrino blu.

Io sono... Liza.

Quante cose erano cambiate.

Quanto controllo avevano e avrebbero continuato a sperimentare su di lei.

Da iuta a seta in una manciata di anni.

Che salto di qualità.

Tutti i mocciosi del Mai Nato erano infine cresciuti e lei con loro. Chi era stato venduto alle Case di Dama per saldare i debiti di gioco, chi aveva fatto carriera nelle brigate di Spaccachiglia e del Ragazzino. Chi aveva lasciato Iselfort alla ricerca di una vita migliore, chi tuttora abitava l'avamposto, ma un metro sotto terra, sepolto in una fossa comune vicino al mare. Chi aveva avuto bambini indesiderati e tuttora li cresceva con la stessa e ciclica violenza, chi li aveva affogati per non avere problemi. E chi, come Liza, fingeva di essere qualcuno che non era o di non esistere.

Ma Liza esisteva ed era fatta di carne, ossa, muscoli, articolazioni, tendini e maledizioni. Liza voleva esistere, essere amata, accudita, controllata. C'era forse qualcosa di sbagliato in questo?

Certo che no.

Finì di acconciare i capelli e li annodò col nastrino, sistemando il fiocco un po' floscio affinché le due estremità combaciassero in lunghezza. Indossò i guanti di pizzo e impreziosì i polsini della camicia coi gemelli a forma di conchiglia. Lisciò le pieghe della gonna e chiuse il colletto fino al mento. Indossò il capello a falda larga e piazzò i pince-nez con le lenti d'ambra sopra la gobba del naso.

Un rituale necessario per la sua incolumità.

A quel pensiero, una fitta d'ansia la costrinse a respirare profondamente dalla bocca per restare calma. Chiese a Kelua di aiutarla ad allacciare il corpetto – semmai le fosse arrivata una pugnalata a un fianco, quanto meno non sarebbe morta dissanguata nel covo di Spaccachiglia. Poi attese che entrambi gli amici uscissero, richiamati da Lavinia per ricevere le ultime indicazioni prima della partenza, e appena fu rimasta sola raccolse la biancheria pulita tenuta ripiegata nella tracolla. La infilò come se niente, la notte appena trascorsa, fosse mai accaduto.

Accarezzò il bastardello rannicchiato nell'angolo e questo distese il collo per accogliere le carezze, scoprendo i denti e guaendo. Lo tenne fermo per la testa ed estrasse la piuma di passero incastrata tra i canini, donandogli sollievo appena lo ebbe fatto.

La tristezza assalì Liza uscendo dalla stanza.

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