Rinascita
La nostra era una città fantasma, gremita di ombre e ricordi melanconici.
Con i suoi palazzi scoloriti e i vetri opachi, pareva essa stessa un'immensa e triste lapide, che torreggiava sulla gioventù della terra e agognava il cielo grigio come ultimo paradiso.
I marciapiedi recavano le rimembranze millenarie di cammini scolpiti nel tempo, percorsi da folle di spettri vuoti. Chiunque, incamminandosi verso il mercato nei giorni festivi, avrebbe giurato di poter scorgere, nel buio proiettato dai lampioni spenti, dei ritagli d'aria densa e immota, come nebbia su un mare di cemento.
Il campanile della chiesa, una costruzione umile, di pietra bianca, decantava l'eco dei vissuti allo scoccare di ogni ora, con una voce tanto greve e solenne che risultava impossibile ignorarla: raccoglieva pene e pianti da ogni angolo della città, e poi li liberava, in un'ode immortale, segnato da lacrime e sorrisi spenti.
Dal mio personale punto di vista, persino i suoi abitanti davano l'impressione di essere il frutto di pensieri irrisolti -volti anonimi su corpi opalescenti- che si aggiravano per le strade al solo scopo di donare una fugace parvenza di vita a quel cimitero senza epitaffi.
La nostra era una città fantasma, sì, in cui, quando io avevo solo quindici anni, i libri iniziarono a scomparire, inghiottiti dalle anime dei morti che avevano ripreso a vivere.
***
Dopo la morte della nonna, la malattia del nonno non fece altro che peggiorare.
-Mi fa male il cuore- diceva, con un sorriso rassegnato, quando gli chiedevo cosa lo facesse stare tanto male, ed io, ingenuamente, pensavo che il suo dolore fosse unicamente dovuto all'ingiusta perdita della persona amata.
Sarebbe stato impossibile dimenticarla, lo sapevamo bene.
Sin dal mio primo alito di vita, nonna Josephine era stata tutto, per me: un'inesauribile fonte di gioia -e leccornie-, una madre più presente di quella autentica, una scoperta continua, nei meandri della mente e dell'anima umani.
Quel che sapevamo fare meglio, noi due insieme, era inventare storie, tessere leggende dal nulla.
Ancora prima della mano di mia madre, raccontava nonna Josephine ridendo, avevo stretto un libro. Ed io ci credevo, ci credevo fermamente, perché ogni parola articolata dalle sue labbra era un'inconfutabile verità, come il fuoco inestinguibile dei grandi draghi, le ali cangianti delle fate o la brina di Jack Frost.
Discorrevamo per ore, snocciolando idee improponibili, seduti al tavolo della cucina.
Ricordo che stringeva tra le mani una raffinata tazzina di ceramica color lillà, ricolma di caffè bollente, che si intonava ogni giorno, con mio grande stupore, a qualsiasi abito indossasse. Nonna Josephine e quella tazza sembravano una cosa sola, il mio punto di riferimento, immutabile nel tempo, che io mi premuravo di raggiungere puntualmente tutti i pomeriggi, per dare un senso ai miei sogni, placidamente adagiati sul fondo di un bicchiere di latte.
Tra una fetta di torta e l'altra, nonna si appuntava qualsiasi cosa dicessi, dalla più sciocca alla più elaborata.
-Sei un piccolo genio- assicurava, porgendomi un altro pezzo di dolce.
Poi giungeva la sera, il bagliore rosso del tramonto bagnava le finestre del primo piano, e un nuovo mondo si schiudeva davanti ai miei occhi, sotto le spoglie di una stanza come tante altre... se non per un solo, fondamentale dettaglio.
I libri.
La camera dei miei nonni ne era piena.
C'erano libri aperti sui cuscini del letto matrimoniale; libri sgranocchiati dai tarli nell'antica cassettiera di legno di faggio; libri in bilico sulle mensole più alte; libri che profumavano come il nonno; libri scoloriti dalla luce delle abat-jours; libri bruciati dalle sigarette della nonna; libri gonfi di umidità ammonticchiati sul balcone; libri graffiati dal gatto errante dei vicini che erano sempre in vacanza; libri che sussurravano più storie di quante ne racchiudessero.
Ed io ne ero rapito, attratto, come un elettrone da un protone, eppure quei libri rappresentavano, allo stesso momento, il mio nucleo pulsante.
Ci facevamo spazio sul materasso, io e la nonna, scansando con amorevole delicatezza -la stessa che si dedicherebbe ad un neonato- i tomi che ne occupavano la superficie.
Poi lei ne pescava uno fra i tanti, e leggeva.
Di qualunque cosa quel volume trattasse, lei leggeva.
E così, a sei anni, le mie conoscenze letterarie spaziavano da Tolstoj a Carrol, dal classico all'inverosimile, dalla cruda realtà all'inimmaginabile.
Conducevo un'incommensurabile serie di vite parallele, crescevo tra il nero della china e il bianco lattiginoso della città, e ogni giorno raggiravo le ombre dei vivi per fare ritorno al mio piccolo mondo di zucchero e lillà.
Quando iniziai la scuola media, mi fu detto di dover scalare l'abominevole Monte Oshran in meno di ventiquattro ore.
Il giorno in cui baciai per la prima volta Bethany Oakwood, scelsi di abbandonare la compagnia degli Elfi Montagh per unirmi ai Mezzogiganti.
Poi arrivò il momento degli esami, e nel mentre io mi scervellavo allo scopo di risolvere una volta per tutte l'enigma di Aisrin.
Giunta l'estate, mi avventurai nella Foresta degli Spiriti, ai piedi della piccola Valle del Fiore, sulle rive del Lago Mieng e, quando ne uscii, scoprii che Elsie McLion si era trasferita nella graziosa casa di mattoni a vista accanto alla mia.
La sentivo cantare tutte le sere, mentre facevo scorrere gli occhi sull'ennesimo libro prestatomi dalla nonna, e la sua flebile voce da usignolo mi avvolgeva come una calda coperta di fili d'oro: la promessa di un mondo nuovo ad ogni mio risveglio.
Avevo la musica di Elsie; avevo il mio universo di galassie inesplorate, tutte lì sugli scaffali a vegliare il mio sonno; avevo la mia nuova scuola, un vecchio liceo pronto ad accogliere chi lo avesse scelto; avevo nonna Josephine e nonno Markus.
Avevo la felicità nel palmo della mia mano, più luminosa del sole che solleticava le vie cupe della città, e la custodivo gelosamente, nel silenzio, come un segreto che avrebbe perso tutto il suo fascino se solo fosse stato divulgato, come una crisalide appesa alle tende di un salice, nella quale si rimescolava, in continuo mutamento, tutto ciò che rendeva la mia realtà diversa dalle altre. Ed io ignoravo, scioccamente, che cosa avrebbe rivelato la crisalide alla sua schiusa.
Poi venne il giorno in cui nonna Josephine fu troppo vecchia per leggermi le favole ed io troppo grande per restare ad ascoltarle, e le fondamenta del mio mondo ricaddero su sé stesse, trascinandomi nel baratro.
***
Quella mattina, subito dopo la scuola, fui costretto a posticipare di qualche minuto il mio appuntamento con la nonna, per l'esclusiva necessità di recarmi in biblioteca, alla disperata ricerca di un'enciclopedia riguardante l'anatomia umana.
Per non perdere altro tempo, decisi di rivolgermi immediatamente a qualcuno che lavorasse lì, per cui mi avvicinai alla prima ragazza munita di targhetta plastificata che vidi aggirarsi tra le varie sezioni e le chiesi dove fosse ciò che cercavo.
-Mi dispiace- rispose. -Non ne abbiamo neanche una, al momento. Credo ci sia un clamoroso ritardo nella restituzione dei libri concessi dalla biblioteca, cosa che non riguarda unicamente le enciclopedie, purtroppo. È quasi come se interi reparti stessero sparendo-
Mi consigliò di ritornare in settimana, così la ringraziai, pensieroso, e mi avviai verso casa dei nonni.
Procedendo lungo le file di alberi che costeggiavano il quartiere, notai che le vie della città parevano più scure del solito, come animate da ombre in costante movimento.
Percorrere l'acciottolato fino alla porta d'ingresso mi diede un sollievo indescrivibile, perché quello rappresentava il confine tangibile tra realtà e verità che io e nonna avevamo eretto insieme.
Tuffai una mano nella tasca dei pantaloni per prendere le chiavi.
-Nonna, sono io!- salutai, entrando.
Mi affacciai sulla cucina, ma il tavolo era sgombro e l'aroma di mele tostate solo vagamente percepibile, come un ricordo lontano.
-Nonna?- chiamai, senza ricevere risposta.
Mi imposi di rimanere calmo e presi a salire le scale, diretto al primo piano.
La porta della camera da letto era accostata e non un suono ne trapelava. Spinsi appena l'uscio e mi fermai sulla soglia.
Nonna Josephine sedeva sul bordo del letto, con un libro in grembo. Mi guardava con occhi brillanti, stringendo la copertina del volume tra le dita nodose. Portava un vestito lungo fino alle ginocchia, dello stesso colore della tazza che sorseggiava ogni pomeriggio, e i corti riccioli d'argento le ricadevano morbidamente sulle spalle.
Sembrava una bambina.
Mi fece segno di accomodarmi accanto a lei, ed io obbedii, come ipnotizzato.
-Cosa mi leggerai, oggi?- domandai, sbirciando il volume.
-Cosa tu mi leggerai- puntualizzò. -Oggi sarai tu a leggere per me-
Mi porse il libro, la cui copertina, notai, era semplicemente uno spoglio lembo di pelle trattata, e lo aprii.
"Miti e leggende di Jacob Holden"
Posai lo sguardo sul volto della nonna, ora increspato da un sorriso raggiante.
-Queste sono le tue storie, Jacob, e voglio che tu me le legga-
Poi abbassò le palpebre, come preparandosi a vivere un sogno atteso da tempo, ed io... io diedi una voce al suo sogno.
Lessi.
Lessi le mie parole, conobbi i miei personaggi, esplorai le mie terre, studiai le mie lingue, cavalcai le mie creature, declamai i miei incantesimi, affrontai i cattivi che io avevo plasmato, piansi gli eroi che io avevo ucciso.
E finii. Finii di leggere le mie storie e richiusi quel secondo cuore che non sapevo di avere.
Al di là delle finestre, il cielo era una coltre di fumo denso e scuro; lingue di ombra strisciavano sul balcone e lambivano i vetri, inerpicandosi lungo le pareti.
Nonna riaprì gli occhi, si voltò verso di me e disse:
-Non smettere mai, Jacob, qualunque cosa accada-
La stanza piombò nel buio.
Il mondo all'esterno sembrava essersi risvegliato, mentre il mio, per ironia della sorte, sarebbe decaduto di lì a poco.
-Scrivi-
***
Afferrai la scatola in cui nonno Markus teneva i medicinali, mi avvicinai al tavolo della cucina e la capovolsi. Una cascata di confezioni vuote e fogli illustrativi si riversò sulla superficie di legno, con il medesimo fragore di migliaia di litri d'acqua in corsa.
-Nonno, hai finito le pillole!- gridai, allungando il collo verso il soffitto.
Udii il tonfo ovattato delle sue pantofole discendere i gradini; l'attimo dopo, nonno Markus fece la sua apparizione, reggendosi allo stipite con una mano e stringendo una manciata di banconote nell'altra.
-Sta' attento- mormorò con voce roca. -Mantieniti sulla strada principale, lontano dai vicoli, e non fare tardi. Voglio che tu sia di ritorno prima dei tuoi genitori-
Annuii e presi i soldi, per poi incamminarmi verso l'ingresso. Subito dopo aver chiuso la porta, sentii il nonno far girare la chiave nella toppa. Sospirai, nascondendo il volto nel collo della felpa, e sollevai il cappuccio. Passare inosservato era la cosa migliore da fare.
Sopra di me, il sole era un pallido disco di marmo freddo, solo nell'immensità del cielo plumbeo e soffocato da una pesante trapunta di nuvole. Tutto era fermo, come se stessi attraversando il fondo di un dipinto, un attimo fugace, senza vento e con luce uniforme, immortalato dall'occhio scrupoloso di un pittore.
Oltre le vetrine dei negozi, c'erano solo sagome immobili, stagliate contro gli scaffali, o sedute dietro a un bancone. Il silenzio era tanto assordante che per un momento credetti di impazzire, poi la strada si restrinse, soffocata da alti palazzi di cemento armato, e il rumore dei miei passi rimbalzò sulle pareti.
Spinsi la porta della farmacia e un campanello annunciò la mia presenza all'impiegata, che parve ridestarsi all'improvviso da un durevole stato di torpore. Non c'era nessun altro oltre a noi due, non una sola vecchia petulante che lamentasse i propri dolori, né un bambino annoiato aggrappato alla gonna della madre. Pochi secondi, e fui di nuovo sul marciapiede. In lontananza, il campanile della chiesa segnava le sei e mezza, e pensai che il nonno sarebbe stato ancora una volta rasserenato dalla mia immancabile puntualità.
Tornai sui miei passi, sconsolato, con il sacchetto delle medicine che picchiettava regolarmente contro la gamba destra. Tenevo il capo chino ben nascosto sotto il cappuccio, esattamente come avevo fatto all'andata, e guardavo dritto davanti a me, ignorando le ombre proiettate da idranti, lampioni e semafori; le scorgevo appena, alle estremità del mio campo visivo, e avrebbero potuto essere persone come me, o cani randagi, o piccioni grassi e barcollanti, ma io non osavo voltarmi.
Poi un'inaspettata folata di vento mi scoprì il volto, e la vidi.
La biblioteca.
Una candida necropoli depredata, spogliata dei suoi tesori, ridotta ad illecito rifugio di mostri nefandi.
Le Caligini.
Creature affamate d'inchiostro, che si nutrivano di corpi rinati: loro, i libri, la seconda vita degli alberi. Fagocitavano interi scaffali, strisciando come subdole serpi d'ombra palpabile e, giunta la notte, erano tanto potenti da reprimere ogni fonte di luce, e più questa era intensa, più esse ne erano sedotte. Sembrava quasi che tutte quelle anime errabonde, aleggianti sulla città come l'impronta indelebile di chi era stato, avessero trovato modo di manifestarsi più concretamente.
Nonna Josephine, che amava leggere lungo le rive dell'oscurità, nel bagliore gettato dalla fiamma di una candela sul balcone, era stata la loro prima vittima, lei che senza libri non avrebbe saputo vivere, lei che senza una luce sotto la quale trascorrere notti d'incanto non sarebbe stata la stessa di sempre.
Tenevo lo sguardo puntato sulla facciata dell'edificio, quando adocchiai una movenza dai contorni fuggevoli, oltre le porte scardinate che davano sul nulla più buio. Quell'effimera impressione bastò a rendermi inquieto, al punto che, l'attimo seguente, ero di nuovo in cammino, con ogni brandello di pelle giovane celato dalla felpa, al sicuro, almeno secondo il mio pensiero, dalle ombre ingorde di nuova vita.
Non appena raggiunsi il portico, il campanile cantò le sette. Bussai, sperando che il nonno mi sentisse, dato che da quando nonna Josephine era morta non mi era più stato concesso di tenere una copia delle chiavi. Lasciai passare qualche minuto, finché non mi parve di vedere il buio compattarsi oltre la siepe dei vicini, allora bussai ancora, più forte, ma anche questa volta il nonno non venne ad aprirmi. Costringendo le mie preoccupazioni in un cantuccio profondo dello stomaco, aggirai l'abitazione, nella speranza che nonno Markus avesse dimenticato di chiudere la porta sul retro.
-Nonno, sono tornato!- proruppi, entrando. Lasciai il sacchetto della farmacia sul tavolo e mi sporsi oltre la soglia della stanza, gettando un'occhiata alle scale.
-Ho comprato le pillole per il cuore- annunciai, salendo il primo gradino. La parete che fiancheggiava la rampa era tappezzata di fotografie; quando i miei occhi incrociarono quelli di nonna Josephine, la devastante consapevolezza che il male del nonno fosse molto più di un trauma introspettivo mi colpì con lo stesso impeto di una pugnalata nel petto.
Così come quella della nonna, anche l'ora di nonno Markus sarebbe presto giunta a stravolgere il mio presente.
Ingollai le lacrime e bruciai in pochi istanti gli ultimi gradini che mi separavano dal pianerottolo. La porta della camera da letto, socchiusa, era la più vicina. Per la prima volta dopo un tempo infinito, l'aprii.
L'aroma della carta m'investì come una ventata di aria fresca, portando con sé il sentore di mondi lontani, dall'odore salmastro del mare al profumo dei fiori di campo. La quantità di libri presenti era notevolmente diminuita, poiché piccole ed infide Caligini erano riuscite a strisciare attraverso i pertugi più insospettabili, e avevano rubato quanto di più prezioso nonna Josephine ci avesse lasciato di lei.
Nonno Markus sedeva sul letto, là dove l'ultima volta la nonna era rimasta ad ascoltare i miei racconti, e mi guardava da sotto in su, con aria rassegnata.
-Jacob- mi chiamò, ed io feci un passo avanti, come se non avessi aspettato altro per tutta una vita. Presi posto accanto a lui e vidi che alle sue spalle, adagiato sul materasso e stranamente inusuale in mezzo alle pagine ingiallite dei libri più anziani, c'era un computer portatile.
-Tua nonna aveva un grande dono, Jacob- esordì. -Un dono che, a quanto pare, ha tramandato a te. Lei sapeva forgiare nuove realtà, indipendenti da questo mondo e da qualsiasi altro, con una fede invidiabile. Custodiva nel suo cuore verità nascoste e incomprensibili che, senza il giusto mezzo, sarebbero andate perdute per sempre.-
Allungò un braccio dietro di sé e prese il computer.
-Questo è il giusto mezzo- garantì, picchiandovi giovialmente una mano. -Tutte le sere, prima di dormire, e ancor prima di leggere gli ultimi capitoli della giornata, la nonna scriveva. Diceva di amare il ticchettio della tastiera sotto le sue dita e odiava la propria grafia- s'interruppe, abbandonandosi ad una risata nostalgica. -Per anni, prima che nascessi tu, inventò storie straordinarie, che lasciava leggere soltanto a me. Era certa che, avendola sposata, fossi in grado di comprendere la sua magia. Ma il suo era un dono senza eguali, così chiaro e limpido che chiunque avrebbe capito. Poi arrivasti tu e, sin dalla tua prima parola, riuscisti ad incantarla. Il tuo ingegno tanto precoce, assicurava, prometteva frutti dal sapore impareggiabile. Il suo dono rifioriva in te e lei non perdeva occasione di alimentarlo... in tutti i sensi-
Risi anch'io assieme al nonno, sentendo di avere ritrovato un compagno nel mio esilio.
-Si dedicò a te per il resto della sua vita- riprese, dopo un brevissimo sospiro -Trascriveva tutti i suoi appunti, tutte le tue idee, su questo computer e quando, solo poco tempo fa, ha capito che stavi diventando troppo grande per lei, il suo lavoro si è concluso. "Miti e leggende di Jacob Holden"...- esalò -...non mi ha fatto leggere nemmeno una pagina!-
Si portò una mano al cuore, stringendo forte la maglietta, e per un folle istante temetti il peggio.
-Così come io so che è giunto il momento di parlarti poiché sono prossimo alla mia fine, lei aveva già capito, prima del tempo, che sarebbero venuti a prenderla-
Mi rivolse uno sguardo di un'intensità tale da farmi rabbrividire.
-E mi ha fatto intendere apertamente che prima o poi avrebbero preso anche te-
Fu come se qualcuno mi avesse aspirato tutta l'aria dai polmoni, lasciandomi senza fiato.
-Ascoltami, Jacob- scandì il nonno, poggiandomi le mani sulle spalle. -Un giorno, i libri in città finiranno, e allora quei mostri verranno a cercare quelli come te, ma questo non deve impedirti di fare ciò per cui sei venuto al mondo. Noi leggiamo storie perché siamo in cerca della nostra, Jacob, ma tu, la tua storia, sei in grado di scriverla da solo.-
***
Non so esattamente cosa mi spinse ad agire, quella notte. Forse la certezza che tutto stesse per finire, elargitami da nonno Markus, aveva contribuito a rendermi più vecchio e più vivo di quanto non fossi in realtà.
Lì, in piedi, al centro esatto della mia stanza, mi sembrava di essere il fulcro di ogni cosa, come se non esistesse nient'altro oltre la mia vita e le scelte che dovevo prendere, come se tutti coloro che animavano la città fantasma fossero solo comparse prive di rilievo.
Lo zaino in spalla, gonfio e pesante, mi ancorava con forza al terreno e, paradossalmente, era l'emblema di ciò che ero destinato a fare una volta uscito da lì.
Il letto pulito e in ordine che mi avrebbe aspettato in eterno, i miei genitori, al piano di sotto, ignari di tutto, le mensole vuote... quella, ormai, non era più la mia casa.
Una sola cosa ancora mi tratteneva.
La voce di Elsie.
Come sempre, a quell'ora, il suo canto cullava i miei pensieri verso la deriva, e mi pregava di restare. Così, prima che sopraggiungesse il buio, prima che la più piccola fonte di luce potesse attirare le Caligini, decisi di portarmi via anche lei. Presi il mio cellulare da sopra la scrivania, lo accesi, mi accostai alla finestra, e iniziai a registrare la voce della ragazza. Quella, come lo schiocco dei tasti per nonna Josephine, era il linguaggio arcano del mio cuore, a cui mai avrei rinunciato. Neanche dopo che tutto, chissà in che modo, fosse finito.
Chiusi gli occhi, in attesa che il silenzio tornasse a regnare, e quando li riaprii, come risvegliatomi da un letargo secolare, il sole non c'era più.
Il quartiere era immerso nel buio, un manto talmente denso che neppure le stelle riuscivano a dilaniarne l'essenza.
Mi chiusi la porta d'ingresso alle spalle e mi accinsi a lasciare il lastricato quando, come evocata dall'inarrestabile energia di un desiderio recondito, qualcuno chiamò a sé tutta la mia attenzione.
-Dove stai andando?- farfugliò Elsie, sulla soglia di casa sua, il pigiama di flanella che ondeggiava piano. Si stava stropicciando un occhio, e mi squadrava, dubbiosa.
-Alla centrale elettrica- risposi.
-Perché?-
Ci pensai un po' su.
-È una storia lunga-
-Ti va di raccontarmela?-
-Non ne ho il tempo-
-Posso venire con te?-
-No-
Nella penombra, i lineamenti della ragazza parvero accigliarsi.
-Allora... buona fortuna-
Stavo per andarmene una volta per tutte, quando, non richiesto, il ricordo di nonna Josephine e nonno Markus si fece prepotentemente spazio nella mia mente. Mi avvicinai ad Elsie e aprii lo zaino.
-"Miti e leggende di Jacob Holden"- lesse.
-Addio- la salutai, con l'inalienabile convinzione che non sarei stato dimenticato.
***
La centrale elettrica, non più attiva di notte a causa delle Caligini, era in cima alla collina che dominava la città. Per il primo tratto di strada procedetti al buio, nella solitudine inviolabile delle ombre, poi, quando fui abbastanza vicino da poter distinguere i contorni dello stabile, tirai fuori l'accendino che, fino a quel momento, aveva premuto contro la coscia, declamando la sua presenza.
Disseminai il mio cammino di libri in fiamme, un sentiero di luce viva e pulsante che avrebbe distratto le Caligini per il tempo sufficiente a riattivare la centrale ormai abbandonata a sé stessa, fino a quando lo zaino non tornò leggero come una piuma. Solo il computer continuava a pesare al suo interno.
Dalla cima della collina, vedevo le lingue scure delle Caligini soffocare il rogo che avevo appiccato, facendo ripiombare nel buio la città, libro dopo libro.
Mi voltai, solo vagamente turbato, come se ad agire non fossi realmente io, e studiai l'ambiente.
Qualche delinquente doveva essersi divertito a fare razzia di materiali: il cancello della centrale era stato scardinato e distrutto, così come le porte d'ingresso e quelle d'emergenza, e alcuni fili di rame erano stati malamente tranciati.
Com'era ovvio, non un sorvegliante arrestò la mia avanzata.
Sfilai alla cieca tra colossali involucri metallici e spessi cavi di gomma isolante, fiducioso che non sarei deceduto inciampando lungo il cammino. Sul fondo del locale, scorsi un'alta scala in ferro che proseguiva fino a un ballatoio squadrato, il quale permetteva di accedere ad una serie di generatori e pannelli vetrati.
Salii i gradini tastando, di volta in volta, la parete al mio fianco e, finalmente in cima, sfilai il computer dallo zaino e lo posai a terra.
Mi chinai sui generatori e notai che tutti erano collegati, a vista, ad un pannello più esteso degli altri. Forzai il vetro che lo chiudeva e mi ritrovai dinanzi a file infinite di piccole leve e manopole. Disperato, le provai tutte, trascinando le dita frementi da un angolo all'altro della lastra.
Nulla.
Poi, in preda alla frustrazione, gettai un pugno contro il pannello, e una dozzina di tasti volò via.
Come la nube tossica prodotta da un'esplosione nucleare, la luce si allargò a vista d'occhio su tutto il piano; alcuni alternatori ripresero addirittura a ronzare sommessamente.
Ringraziando la mia fortuna sfacciata, mi chinai sul computer, scarico e spento da tempo; pescai il caricabatterie dal fondo dello zaino e con esso il mio cellulare e gli auricolari, tutti oggetti di cui avevo quasi dimenticato l'esistenza.
Collegai il computer al corteo di prese più vicino, armeggiando furiosamente con tutto quel che mi capitava tra le mani. In poco tempo, riuscii a connettere il cellulare al computer acceso e trasferii la registrazione di Elsie in una cartella vuota tra i file audio di nonna Josephine. Mi portai gli auricolari alle orecchie, avviai la registrazione, aprii il programma di scrittura preimpostato e...
Respirai.
La bocca socchiusa, i capelli umidi incollati alla nuca, le mani tremanti e gli occhi sgranati.
Respirai.
Tutto ciò di cui avevo bisogno era lì, davanti a me. Percepii le Caligini strisciare e sibilare lungo le pareti, mai sazie, smaniose di nero sangue immortale e vita umana, che essa fosse o no impressa su fogli d'avorio.
Ma non aveva più importanza.
In un certo senso, quelle creature mi avevano salvato.
La voce della mia giovinezza e i ricordi di un mondo migliore erano come ambrosia soporifera, una dolce salvezza, tanto che percepii solo vagamente la più vicina delle Caligini lambirmi la schiena con le sue lingue di pece.
Se scrivere era l'ultima cosa che mi rimaneva da fare, allora avrei scritto.
Perché scrivere era tutto ciò che mi teneva in vita.
Ed io, in quel momento, mi sentivo di nuovo a casa.
Angolo Autrice
Ce l'ho fatta, finalmente!
Mi scuso infinitamente per aver sforato di ottantadue parole rispetto al limite imposto, ma Ellyma mi ha assicurato che non ci sono problemi (mi fido, eh!)
Perdonatemi, inoltre, se alcune parole che andrebbero separate sono attaccate, ma a Wattpad piace agire di testa propria. Credo di averle divise tutte (ho riletto il brano circa una decina di volte), ma qualcosa potrebbe comunque essermi sfuggito.
Mi sono permessa di dare un titolo a questo brano, secondo l'interpretazione dell'immagine-guida.
E niente, spero vi piaccia!
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