7. Tentativo
Avviso importante a fine capitolo.
Camminando, Juno aveva cercato di spiegarmi il più possibile di quel posto.
Da ciò che mi aveva detto avevo filtrato ciò che di più mi sarebbe stato utile, questo perché la maggior parte delle informazioni che mi aveva dato erano pettegolezzi e lamentele sulla severa e rigida direzione del campus.
Le regole erano tante e nel caso mi avessero trovata per la seconda volta ad infrangere la stessa sarei stata rispedita a casa a mie spese.
Di questo non avevo di che obiettare, tra le imposizioni più importanti spiccavano quelle di non mettere piede nel dormitorio del sesso opposto, salvo permessi particolari, essere beccati in prossimità di alcool e fumo all'interno della struttura e passare la notte fuori senza avviso. Io non avevo intenzione di cacciarmi nei guai, quindi me le stampai bene in testa.
Il campus era un intreccio di tanti edifici in mattoni rossi di circa tre o quattro piani e a dividerli c'erano piccoli prati con qualche albero.
«Adesso sono tutti in mensa a cenare, ma tempo un'ora pullulerà come sempre di gente fastidiosamente rumorosa». Juno brontolava ormai da cinque minuti, maledicendo la 'gentaglia', così come lei l'aveva definita, che anche dopo il coprifuoco delle undici alzava la musica a palla e conversava animatamente sotto casa.
Juno prese una pianta rinsecchita dal davanzale della casetta e tirò fuori dal vaso una chiave argentea.
«Chiave di scorta» spiegò aprendo la porta in legno chiaro. «Ti salva sempre».
Mentre lei si preoccupava di rimettere il vaso e tutto il resto al suo posto, io mi feci strada lungo il corridoio.
Fortunatamente la mia richiesta di alloggiare in una stanza vicina a Juno era stata ascoltata e la mia ansia si era così leggermente placata.
Venni raggiunta quando ormai ero in prossimità delle scale in legno che mi avrebbero condotta al piano di sopra, dopo aver constatato che al piano terra non c'era altro che una cucina inutilizzata, un salotto e un bagno.
«Noi siamo al secondo» annunciò Juno sorpassandomi e precedendomi, non permettendomi oltretutto di aiutarla a portare le mie valige. «Tu prendi la stanza di fianco alla mia».
La mia camera era di una semplicità inaudita. Composta unicamente da un letto, una scrivania, un armadio e uno specchio con il lavandino, per il resto era completamente spoglia, dalle pareti così immacolate da sembrare una stanza da ospedale.
Solo il pavimento scuro riportava la sua immagine a quella di una stanza di una liceale, ma da solo non faceva un granché.
«È molto... essenziale» fu il mio unico commento.
Juno scaricò le valige all'entrata e si impossessò del mio futuro letto, lanciandosi sopra a mo' di spanciata. Per un momento credetti fosse morta, ma poi si mosse. «Dillo pure, fa schifo». Si girò a pancia in su e sospirò. «Ma vedrai, quando la riempirai delle tue cose sembrerà meno terribile. Che ne so, potresti appendere dei poster, quelli colorano parecchio».
«Non ne ho. Tutto ciò che era in più l'ho buttato prima del trasferimento» le confessai. Lei sgranò gli occhi.
«Occorre rimediare».
Immaginai subito come dovesse essere la stanza di Juno, il perfetto stampo di quella che sarebbe dovuta essere una camera di un'adolescente esuberante. La mia teoria venne confermata pochi secondi dopo, quando mi accolse con orgoglio nella sua 'tana'.
Lucette di natale, disegni, poster, ma soprattutto un grandissimo disordine composto da fogli, libri e vestiti sparsi un po' ovunque. Rispetto alla mia, quella sembrava eccome una normale camera di una ragazza. Forse non normale, non per il mio standard, ma forse sì in una visione oggettiva.
Juno si avvicinò ad un muro completamente ricoperto di poster e cominciò a guardarli uno a uno con attenzione.
«Ti piace il rap?» chiese dopo un po'.
«Non molto».
«K-pop?»
«Temo di non sapere nemmeno cosa sia».
«Rock?»
«Sì, ogni tanto lo ascolto».
Il gusto musicale di Juno mi aveva lasciata un po' perplessa, non sembrava avere gusti precisi.
«Allora questo è per te». Staccò un poster dal muro e me lo porse. «La separazione da loro non sarà troppo dolorosa, tanto verrò in camera tua ogni giorno».
No, non credevo che potesse essere ritenuta normale nemmeno oggettivamente.
Però sul poster il cantante e il chitarrista raffigurati avevano i capelli lunghi, quindi avevano già metà della mia stima e un mio speciale riguardo.
«Ho visto che fino a prima in mano avevi una strana scatola, posso sapere cos'è?» mi domandò poi Juno, improvvisamente curiosa.
Un brivido mi percorse la schiena. Avevo lasciato Nosferatu chiuso nel trasportino. Feci velocemente marcia indietro e tornai nella mia stanza. «Il mio gatto».
«Un gatto?» chiese lei entusiasta, seguendo i miei passi.
Sì, sarebbe dovuto essere un tranquillo felino, ma già nel corridoio lo sentii miagolare furioso. «Credo che ora sia più una belva. Odia essere rinchiuso lì dentro e una volta uscito mi terrà sicuramente il muso».
Mi sedetti a gambe incrociate vicino al trasportino e con la coda dell'occhio controllai la situazione all'interno.
Gli occhi del gatto mi scrutavano severi, riuscivo a leggere l'odio profondo in quello sguardo.
Lo liberai e subito lui scappò per nascondersi sotto il letto.
«Un po' timido» fece Juno avvicinandosi. Le bastò chiamarlo una volta sola e fare un po' di versi, perché il musetto color panna sbucasse dal suo nascondiglio e cominciasse a strusciarsi sulle sue gambe.
«Gatto infame» borbottai a denti stretti, mentre lui si godeva i grattini sotto il mento che Juno gli offriva tutta contenta.
«Il nostro amore è reciproco». Juno era entusiasta degli apprezzamenti che le ripagavano le coccole offerte. «Come si chiama questo bel gattone?»
Dalla gola pelosa del felino provenivano delle fusa così rumorose da poterlo scambiare per un trattore in lontananza, che di solito faceva unicamente in mia presenza. Non c'era nulla da fare, ormai si era venduto.
«Nosferatu».
Juno rimase un po' interdetta, ma mascherò tutto con un sorriso. «Quindi sei un bel maschietto» concluse, mentre Nosferatu si buttava a pancia in su sul pavimento. E io che l'avevo portato con me perché stesse dalla mia parte.
In quel momento sentimmo la porta al piano di sotto sbattere e il gatto si rizzò in piedi e tornò a nascondersi sotto il mio materasso.
Juno si alzò e si pulì velocemente i pantaloni dai peli che le si erano attaccati addosso. «Finalmente è arrivato qualcuno. Magari è Annabelle». Così dicendo uscì dalla stanza e poco dopo la sentii scendere le scale.
Io ne approfittai per avvicinarmi al mio letto, mi abbassai e guardai sotto. Nosferatu era in un angolo, così spaventato come mai l'avevo visto.
Provai ad avvicinare una mano alla sua testa per rassicurarlo, ma lui mi schivò e si allontanò ancora di più. I suoi occhi, dilatati al massimo, non stavano un attimo fermi, ma saettavano in tutte le direzioni, come se si aspettasse che qualcosa gli arrivasse addosso da un momento all'altro.
Solo per brevi attimi sembrava notarmi e allora mi fissava con quell'espressione strana, ansiosa come mai era stata.
Ero preoccupata, nemmeno dopo il trasloco aveva reagito in quel modo.
Preferii non sforzarlo ulteriormente, lo lasciai rintanato nel suo angolo e mi alzai in piedi giusto in tempo perché Juno ricomparisse alla porta con una persona.
Era una ragazza, sembrava più grande di noi nonostante la sua bassa statura, ma forse questo era dovuto all'aria matura che dava. Aveva i capelli mossi e lunghi fino alle spalle color carota, gli occhi castani e una spruzzata di lentiggini sul naso.
Anche se era bassa aveva le curve al posto giusto e molto pronunciate.
«Karin, lei è Annabelle. Ha due anni in più di noi e la sua stanza è quella a fianco alla mia. Annabelle, lei è Karin, si è letteralmente appena trasferita qui al dormitorio». Juno fece rapidamente le presentazioni.
Avevo già sentito quel nome, Juno si era spesso lamentata del fatto che una fantomatica 'Annabelle' le fregasse sempre le cose senza prima chiedere.
La ragazza mi squadrò da cima a fondo, mi sentii esageratamente giudicata sotto il suo sguardo indagatore.
«Mio dio, sei rigida come una scopa. Rilassati, non ti mangio mica» disse finalmente lei. La sua voce era bassa, non me l'ero aspettata così. Obbedii al suo consiglio, come se ad impartirmi quell'ordine fosse stato un generale. Mi permisi finalmente di respirare, anche se i suoi occhi resi severi dalle sopracciglia corrugate continuavano a studiarmi.
«Juno aveva ragione. Sembri un cadavere, cara, un cadavere freddo e misantropo».
'Cadavere misantropo' mi mancava, ero stata definita asociale, ieratica e tanto altro, ma di fronte a quel nuovo aggettivo riuscii ancora a stupirmi.
«Serve una terapia d'urto» concluse Annabelle, afferrandomi con la forza un polso e trascinandomi verso la porta. «Devi conoscere tutte le ragazze che dormono qui, adesso. Sono solo una quindicina, vedrai che non sarà difficile andarci d'accordo».
Terapia d'urto? Una quindicina di persone?
Opposi bruscamente resistenza, obbligando Annabelle a voltarsi verso di me.
«Non credo... che sia il caso» cercai di balbettare, seriamente in crisi. Juno non aveva accennato a una cosa del genere, mi aveva anzi rassicurata che mi avrebbe lasciato il mio tempo per sentirmi pronta a parlare con altra gente. Aveva definito Annabelle come una ragazza aperta, non come un tornado.
«Non ci provare nemmeno». La ragazza mi minacciò, facendo la voce grossa e puntandomi un dito contro. «So che sei allergica agli umani, me l'ha detto Juno».
La ragazza dai capelli pervinca distolse lo sguardo e con aria innocente incrociò le braccia dietro la schiena.
«Sai che grande dilemma» continuò Annabelle severa. «Se vogliamo fare le precise, sappi che sia io che Juno abbiamo particolarità che non nascondiamo. Lei non ragiona e fa tutto di testa sua, sbagliando quasi sempre. È dislessica e discalcula, spesso sbaglia a scrivere anche il suo nome».
Juno in tutta risposta sorrise, come se ciò che le fosse stato appena detto le suonasse come un complimento.
«La gente troverà qualcosa da criticare a prescindere, giudica risaltando l'unico difetto e celando i mille pregi di una persona, io lo so benissimo. Anche io sono criticata da un sacco di persone e questo solo per il fatto che non mi piacciono i ragazzi». Annabelle notò lo stupore sul mio volto e finalmente sorrise. «Ma ci sono altrettante persone che se ne fregano e ti accettano così come sei, con le tue particolari caratteristiche. In questa casetta vive solo gente del secondo gruppo, quindi non hai la scusa di nasconderti perché ti senti criticata. Se hai problemi e non vuoi parlarne, non farlo. Nessuno te li chiederà se non vuoi che venga fatto».
«Esattamente» esclamò Juno buttandomi le braccia al collo. «Non so cosa tu abbia contro le persone, ma giuro che lo scoprirò e ti aiuterò».
Rivolsi alle due ragazze un sorriso, anche se dentro di me la paura mi stringeva il cuore in una morsa e mi mozzava il respiro.
Sapevo che loro cercavano di convincermi solo per il mio bene e sapevo anche che non avrebbero smesso di insistere finché non avessero ottenuto ciò che volevano.
Non volevo buttarmi in un'impresa più grande di me, tuttavia questa sembrava l'unica via.
«Proverò a presentarmi» mi arresi. Il volto di Juno si dipinse di gioia.
La mattina dopo le mie condizioni erano solo peggiorate.
Durante la notte mi ero svegliata con una maggiore frequenza del solito, le cause erano tante e irritanti.
In primis, la gente che urlava anche all'una di notte. Come una conseguenza, Juno si metteva ad urlare fuori dalla finestra di tapparsi quella lurida bocca e agli insulti rispondeva con strepiti e maledizioni circa poco plausibili sulla prole dei casinisti e, a detta sua, sulla loro mucca.
Io mi rigiravo nel letto ancora sfatto, cercando di isolarmi da tutti quei rumori ficcando la testa sotto il cuscino, ma era una barriera superflua contro le onde sonore che emetteva Juno.
In terzo luogo, durante tutta la notte avevo patito un freddo insopportabile.
Ricordavo di aver tremato per parecchio, ma non avevo voglia di alzarmi per regolare la temperatura della stanza e mi ero limitata ad avvolgermi intorno la pesante coperta che mi ero portata da casa.
Il mio risveglio era stato in particolare modo traumatizzante.
La prima cosa che si parò davanti ai miei occhi, ancora due sottili fessure, fu Juno con il suo sguardo incuriosito, che non si era fatta scrupoli ad invadere la mia stanza e a sedersi ai piedi del mio letto con le gambe incrociate.
Mi stiracchiai appena e sbadigliai, stanchissima perché ero oltretutto reduce di un incubo, guardai Juno e sospirai.
«Che ci fai qui?»
Lei gattonò fino al mio fianco e si sedette sulla metà libera del cuscino. «Non capivo se stessi dormendo o lottando contro un animale selvatico. Ti ho sentita anche urlare, ero pronta a tirare qualcosa di pesante alla gente fuori dalla nostra finestra, sai quanto sono stata sorpresa nello scoprire che eri tu? La prossima volta non ti risparmierò, se fai casino ti spetta di diritto un colpo in testa».
Mi massaggiai la faccia indolenzita. Sapevo che presto o tardi mi sarei fatta notare, ma non mi ero immaginata così presto.
«Mi dispiace, parlo nel sonno» mentii a metà.
«Quello l'ho capito da sola». Juno si piegò su di me e mi osservò attentamente. Sotto il suo sguardo indagatore mi venne spontaneo ritirarmi quanto più possibile sotto la coperta. «Sei in un bagno di sudore, diavolo. Cosa ti copri, che ci rimani secca» mi rimproverò strappandomi le coperte di dosso.
Venni investita da una ventata d'aria gelida che mi fece accapponare la pelle, tentai di riprendermi le coperte ma Juno le aveva sequestrate e le teneva lontane da me.
«Dimmi la verità» continuò lei, decisa.
«Su cosa?»
«Sul tuo problema. Quello che ti si presenta ogni notte e che non mi vuoi dire. I tuoi soliti incubi».
Un brivido freddo si aggiunse a quello dovuto alla temperatura glaciale. Non mi sembrava di aver accennato a Juno di che tipo fosse il mio problema, anzi, ne ero più che sicura. Quella domanda però era troppo diretta per essere stata formulata da una che ignorava la verità.
Juno si faceva sempre più insistente e io non sapevo che risponderle.
«E tu come lo sai?» sussurrai, aiutandomi con le mani a mettermi seduta.
Le rughe d'espressione sulla fronte di Juno si distesero e un sorriso trionfante comparve sul suo volto. Io ero sempre più confusa.
«Allora le cose stanno davvero così» esultò scattando in piedi e cominciando a saltellare entusiasta. «Cavolo, sono un maledetto genio».
Rischiai di essere buttata giù dal materasso, rimasi sopra solo grazie al fatto che la mia schiena cadde indietro dritta sul muro. «Mi puoi spiegare cosa sta succedendo?»
Riuscii a calmarla e a convincerla a risedersi, anche se con un po' di fatica.
«Tua madre ti ha chiamata, poco fa. Ero già in camera tua perché cercavo di capire cosa avessi e quando ho visto lo schermo del tuo telefono illuminarsi non ho resistito e ho risposto. Non è stato difficile spacciarsi per te, alla fine è bastato fare la voce bassa e rispondere a monosillabi».
Ciò che Juno stava dicendo non mi sembrava vero.
Avevo già capito come la storia sarebbe continuata, ma ero troppo scioccata per fermarla.
«Mi ha chiesto se avessi dormito bene, se avessi avuto problemi con i soliti incubi e se ci fosse stato bisogno che mi portasse le medicine. L'ho convinta che va tutto bene, che con la tua nuova fantastica vicina di stanza gli incubi sono scomparsi come la voglia di vivere scompare durante un test di fisica. Insomma, ti augura buona giornata».
Era estremamente fiera della sua impresa, fiera di avermi finalmente braccata.
Ormai sapeva, aveva voluto a tutti i costi scoprire cosa avessi ed era riuscita ad ottenere ciò che voleva, tutto grazie ad una svista di mia madre.
«Non c'è nulla che debba aggiungere, quello che ha detto è tutto». Mi arresi alla potenza di Juno, dovetti chinare il capo davanti alla sua maledetta determinazione e dirle la verità. «Sono solo perseguitata da questi incubi frequenti, non ci posso fare niente. Non volevo nemmeno venire al dormitorio per questo motivo, ma mia madre mi ha costretta, con i suoi farmaci inutili. Sono stati loro a rovinarmi». Per la prima volta non abbassai lo sguardo per nascondere l'occhio sinistro, ma lo puntai in quello di Juno. «E non voglio che accada ancora. Ti sono grata per aver risposto in quel modo a mia madre, ma ho bisogno che tu mi prometta che manterrai questo mio segreto. Non voglio la compassione degli altri e nemmeno che si facciano gli affari miei».
«Ti rivolgi alla persona giusta». L'entusiasmo di Juno era palpabile, come se avessi avuto alternative. «So quanto gli incubi si divertano a rompere le scatole e, mi dispiace contraddire tua madre, le medicine non servono».
Divertirsi?
«Per questo motivo, finite le lezioni, ho bisogno che tu mi segua in città» continuò lei. Era sempre allegra, ma nel continuare il discorso sembrava essersi fatta più seria. «Non è facile spiegarlo, ma ho bisogno che ti fidi di me».
Mi stavo già affidando a lei. Dal momento in cui avevo deciso di dirle la verità mi ero resa vulnerabile, lasciandomi completamente nelle sue mani.
Avevo provato di tutto per dormire in pace, nulla aveva avuto effetto.
Un tentativo in più poteva essere superfluo, ma perché non provare? Perché no?
Annuii, anche se in cuor mio mi ero già arresa da tempo e aspettarmi che uno spiraglio di speranza mi si aprisse davanti agli occhi da un momento all'altro mi sembrava impossibile.
«Perfetto». Mi rivolse di nuovo un sorriso, poi saltò giù dal letto. «Quindi, questo pomeriggio sei prenotata. Di' ai tuoi spasimanti che non ti preghino di uscire oggi, sennò finiscono sulla forca della vecchia cara Juno». Senza chiedere altro, si mise a frugare in una delle mie valige, rimasta aperta dalla sera prima. «Se permetti, cerco qualcosa che mi interessi da indossare oggi. I soliti vestiti dopo un po' stufano».
Mi riusciva difficile connettere i discorsi di Juno a un senso logico, mancava proprio un pezzetto irreperibile, completamente perso in un altro mondo.
«Sì, certo. Non conosco nessuno in questa scuola tranne te, Annabelle e qualche ragazza della nostra casetta di cui non ricordo il nome. Quindi, a meno che tu non abbia qualcosa da nascondere, i ragazzi di questo posto sono ancora un completo mistero».
«Non te l'ho mai detto, ma io in realtà sono un uomo».
Non diedi retta alla sua risposta e scesi dal letto, accucciandomi poi per guardare sotto. Contrariamente alle mie aspettative, Nosferatu non c'era.
Controllai dentro e sotto l'armadio semiaperto, dentro la valigia, ovunque, ma in quella stanza vuota c'erano pochi posti dove nascondersi e il mio gatto non era in nessuno di questi.
«Hai visto Nosferatu?» chiesi a Juno, ancora intenta ad esaminare i miei vestiti.
Lei si girò un momento e mi guardò perplessa. «Non sei stata tu a farlo uscire?». Mi fece cenno di voltarmi e quando l'ascoltai mi sentii morire.
La finestra era socchiusa e dall'apertura entrava un sottile venticello gelido. Questo spiegava molte cose, come i miei infrenabili brividi durante tutta la notte.
Mi avvicinai alla finestra e la spalancai, guardando fuori. Erano appena le sette, nessuno ancora camminava lungo le vie del campus e i rami degli alberi spogli si facevano dondolare dalla brezza mattutina.
Nessun gatto compariva nel mio campo visivo.
Ormai ero nel panico.
«Nos...» iniziai a urlare, ma non appena abbassai lo sguardo mi bloccai di colpo. C'era qualcuno fermo davanti alla nostra porta e in braccio stringeva una palla di pelo familiare.
Il ragazzo alzò lo sguardo e quando i miei occhi incrociarono i suoi, scuri come la notte, lo riconobbi all'istante. Quello era il ragazzo che il primo giorno di scuola mi aveva complicato la mattina e poi mi aveva aiutata. Era quello che, poche ore dopo, era stato il protagonista del mio sogno. Era 'Edward'.
Tra le sue braccia aveva proprio Nosferatu.
«È tuo il gatto?» mi domandò, alzando appena il felino per mostrarmelo.
«Sì» riuscii a balbettare, sparendo dentro la mia stanza. «Non muoverti, arrivo subito».
In una frazione di secondo chiusi la finestra e mi assicurai che fosse davvero serrata, poi mi precipitai in corridoio e lungo le scale.
Arrivai all'entrata stranamente illesa, ma con un leggero fiatone.
Quando aprii la porta mi sembrò di essere di nuovo in un sogno. Non mi sembrava vero che quel ragazzo fosse realmente davanti ai miei occhi, durante quelle due settimane avevo pensato così tanto a quanto fosse stato assurdo quell'incontro che ero arrivata alla conclusione che lui fosse solo un frutto della mia immaginazione, della mia mente malata.
Dopotutto, era impensabile che un ragazzo così bello potesse essere davanti a me, senza nessuno schermo o nessuna pagina di un libro che ci dividesse.
Temevo di averlo idealizzato con il passare del tempo e con un suo solo ricordo, ma non era così.
Ricordavo perfettamente la pelle chiarissima, i capelli e gli occhi scuri come la pece, ma in particolar modo quello strano imbarazzo e quel formicolio alla bocca dello stomaco che puntualmente la sua visione mi procurava.
Ero così immersa nei miei pensieri che per poco non mi accorsi che il ragazzo sbuffò.
«Posso... lasciarlo a terra? Sta cominciando a farmi male» disse lui, indicandomi con lo sguardo il gatto che se ne stava rintanato sul suo petto con le unghie piantate nella sua giacca.
«Certo, scusa. Va su da solo» lo rassicurai. Allora il ragazzo allentò la presa, così che il gatto saltasse giù dalle sue braccia.
Nosferatu non andò subito verso le scale, ma si girò verso la porta, gonfiò il pelo e soffiò. Era la prima volta che lo vedevo soffiare, ero sempre stata convinta che non ne fosse capace o che fosse troppo pigro per provarci, per questo motivo rimasi interdetta davanti a quella scena.
«Bel ringraziamento» gli rispose seccato il ragazzo, Nosferatu gli soffiò contro una seconda volta e poi scappò verso il piano superiore.
«Non capisco, di solito è un gatto così educato» dissi più a me stessa, ma appena incrociai di nuovo lo sguardo del ragazzo mi resi conto della stronzata appena detta. Lui mi guardava senza capire, avrei fatto anche io lo stesso probabilmente. «Cioè, mi dispiace che ti abbia fatto male» tentai di rimediare dopo aver notato un graffio sulla sua mano destra.
Anche lui sembrò accorgersene in quel momento. «Tranquilla, è solo un graffietto. Si rimargina come niente».
Portò la ferita alle labbra per pulirla dal sangue e io mi imbambolai per la seconda volta di fila.
Qualcosa seriamente non andava. Ricordavo benissimo, nel sogno, di essermi soffermata parecchio con lo sguardo sulle dita lunghe e affusolate di quel ragazzo e sul modo elegante con il quale si muovevano sulla tastiera del pianoforte. Ebbene, era sulle stesse identiche dita che in quel momento i miei occhi erano inchiodati.
L'idea di essere nuovamente in un sogno non mi aveva nemmeno sfiorata, dopotutto mi ero appena svegliata e Juno mi aveva dato la conferma di essere nel mondo reale.
Quel ragazzo esisteva davvero e io ero inspiegabilmente felice.
«Mi fa piacere che tu mi trovi così bello».
Caddi di colpo dal mondo delle nuvole. L'avevo fissato troppo e lui se n'era accorto.
«Come, scusa?» La mia voce era un sottile filo di vento, l'imbarazzo ingombrava la mia gola fino a lasciare un solo piccolo spiraglio per l'aria.
«È chiaro, non riesci a staccarmi gli occhi di dosso» continuò lui. La sua espressione era cambiata, era soddisfatta e beffarda.
Il cambiamento repentino che subirono i miei pensieri fu ancora più inspiegabile della mia assurda attrazione per quel ragazzo. Quella sua affermazione mi sembrava un affronto, sentii necessario l'impulso di rimandarne uno al mittente e ciò era parecchio strano perché era la stessa sensazione che avevo provato nel sogno.
«Figurati, non ti montare la testa» borbottai seccata.
Lui sorrise, come se si aspettasse quella mia reazione. «I tuoi occhi dicono altro».
«I miei occhi non dicono niente, da che mondo è mondo è la bocca che ha il compito di parlare».
Era incredibile come una sua unica frecciatina mi avesse messa così in allerta. Di solito facevo fatica a parlare con gli estranei e ci pensavo su tre volte prima di rispondere loro male, ma con lui questo processo sembrava automatico.
«Non sei molto credibile» rispose lui, poi però fermò quello strano botta e risposta. «In ogni caso devo andare. Cerca di stare attenta a quel gatto, se non vuoi che scappi». Si allontanò dalla porta e io grugnii in disappunto.
«Eri tu in giro la mattina presto, prenditi le tue responsabilità».
Lui non mi ascoltò e girandomi le spalle e avviandosi lungo la strada mi fece un cenno di saluto con la mano. «Ci vediamo, Karin».
A quelle parole seguì un mio tuffo al cuore. Ero sicura che qualcosa non andasse per il verso giusto. Non poteva sapere come mi chiamavo.
«Fermati» gli intimai. Lui mi diede retta solo qualche secondo più tardi. «Come fai a sapere il mio nome?»
Corrugò le sopracciglia, come se la mia domanda fosse stupida, poi però sorrise. «Tu conosci il mio. Perché io non dovrei sapere il tuo?»
Salve popolo, I'm back.
Prima di tutto, ci tengo a ringraziare chi sta rileggendo i capitoli revisionati, perché con il passare del tempo stanno aumentando di numero e la cosa mi rende felice. C:
Grazie ^^
Seconda cosa, qualcosa di bellissimo. Sono riuscita ad ottenere un posto nella lista delle commissioni di Skadegladje per avere una nuova cover della storia, quindi a breve Nightmare avrà una copertina da paura u.u preparatevi. (Grazie ancora Skadegladje ewe)
Terza cosa, non più importante ma abbastanza vitale. Domani, lunedì *ho perso il conto dei giorni da quando sono in vacanza, non mi ricordo il numero* luglio, parto per due settimane in Inghilterra, a Winchester.
Sì, ho fatto apposta a scegliere quella meta.
Non sono sicura di poter aggiornare con frequenza, dopotutto laggiù devo impegnarmi ad imparare quel maledetto inglese (e ce ne vuole di impegno, per un caso umano come me), quindi mi scuso in anticipo per eventuali ritardi. Non mentali.
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Anche quelli.
So, vi saluto ouo
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